Lettere al direttore

25 Maggio 2012 | di

L’amore nella  terza età
«L’articolo di bioetica sulla sessualità degli anziani, (pubblicato sul “Messaggero” di aprile 2012) mi ha dato speranza e la forza di scriverle. Ho 70 anni. Da qualche tempo ho disturbi funzionali e vivo nell’angoscia di non poter più avere una vita sessuale normale con mia moglie. È una prospettiva che non riesco ad accettare e ho paura per il nostro futuro insieme...».
Lettera Firmata
 
Ho scelto qualche frase di una delle tantissime lettere giunte in redazione su questo tema, e ho chiesto al nostro esperto di bioetica, Gian Antonio Dei Tos, di dare una risposta che possa trattare l’argomento in maniera più generale, riservando una risposta privata allo scrivente. Da parte mia, esprimo l’intenzione di ritornare sui temi della sessualità in età matura quanto prima, con lo spirito di servizio, la delicatezza e l’attenzione che essi meritano, essendo una parte essenziale della vita della coppia, spesso tralasciata o, al contrario, trattata con inappropriato sensazionalismo.
«Il tema proposto non è irrilevante per la vita di una coppia che desidera vivere serenamente e con pienezza la propria coniugalità. Va innanzitutto sottolineato che la questione non interessa solo la coppia di coniugi anziani; può accadere, infatti, che il problema si presenti anche in una coppia giovane. In questo secondo caso, il problema appare più complesso perché potrebbe investire l’area della personalità individuale o, ancora, essere conseguente a una relazione di coppia non riuscita o che non ha ancora maturato il senso di una scelta di vita insieme. Più spesso il disagio nasce in età più avanzata, in una fase in cui, per vari motivi che possono anche coinvolgere la salute individuale, la coppia vive una sorta di asimmetria o di dissociazione reciproca rispetto al vissuto della sessualità. Credo sia importante che la coppia non trascuri la comparsa di questo problema e, se possibile, ne cerchi la soluzione. Il primo passo è quello di condividerne insieme la consapevolezza, in modo che la ricerca della causa sia affrontata nel dialogo reciproco. Se all’origine della difficoltà ci fosse un problema di salute fisica, sarebbe utile affrontare la questione con il proprio medico di famiglia o con uno specialista del settore; oggi esistono molti rimedi che possono aiutare la coppia a recuperare una vita sessuale serena. Cause di altra natura possono coinvolgere la dimensione psico-relazionale o scendere a livelli più profondi. Quel che è essenziale è che la coppia si mantenga in un rapporto di trasparenza reciproca, non accetti il problema come un fatto ineluttabile, ma cerchi insieme la soluzione. Se questa non dovesse esserci, bisogna anche ricordarsi che non si può per questo cancellare la storia di una vita vissuta insieme; la promessa dell’amore coniugale (se autentica e, soprattutto, se vissuta nella fede) ha sempre grandi risorse interiori a cui appellarsi per continuare a vivere una storia di affetto e di responsabilità reciproca, che una sessualità ferita non può annientare».  (G.A.D.T.)
 
 
Chiude la scuola ma i servizi non ci sono
«Finisce la scuola e iniziano le difficoltà per una famiglia come la mia, con due genitori che lavorano, un mutuo pesante, due figli ancora piccoli, di 9 e 7 anni, e nessun nonno vicino che possa accudire i bambini. I centri estivi costano una media di 100, 120 euro settimanali a bambino (un eventuale fratello paga poco meno); inutile dirle, caro padre, che è un servizio inaccessibile. Fortunatamente la parrocchia organizza il grest, ma sono solo due settimane di respiro e arrivare a settembre è davvero dura. Mi domando se le istituzioni pubbliche ma, mi permetta, anche alcune parrocchie, non potrebbero fare di più, specie in questo periodo di crisi, così difficile per molti».
Raffaele – Bologna
 
Capisco le difficoltà sue e di tante famiglie, anche perché le ritrovo nelle persone che conosco. Tuttavia credo che questa crisi non ci debba abbattere, bensì spronare a cercare nuove vie. È vero che le istituzioni possono fare di più – e la Chiesa è tra quelle più attive e più generose in proposito – ma è anche vero che perché ciò avvenga è necessario che ognuno dia il proprio contributo. Innanzitutto, occorre farsi portavoce di un problema e poi mettersi in gioco in prima persona per arrivare a una soluzione, senza aspettarsi un generico aiuto dall’alto. Conosco genitori che hanno messo insieme competenze, risorse e tempo per organizzare in locali pubblici, privati o parrocchiali delle iniziative alternative. Mentre ho almeno un paio di casi di genitori che si sono organizzati tra loro a staffetta tenendo gli uni i figli degli altri. Dove non arriva la coperta corta dei servizi, possono arrivare la solidarietà e la creatività delle famiglie. Chi ci ha provato mi dice che queste soluzioni di condivisione spesso creano opzioni più originali e significative delle mille, costose proposte, spesso fatte più per lucro che per vero spirito di servizio.
 
Il battesimo ai neonati è una costrizione?
«Caro padre Ugo, ho la grazia di avere uno splendido nipotino che adoro. Purtroppo i suoi genitori non hanno voluto battezzarlo, e ormai Edoardo ha quattro anni compiuti. Ho provato più volte a parlarne con mia figlia e suo marito, ma ogni discussione si è sempre bloccata di fronte a questa obiezione: “Battezzarlo sarebbe una limitazione della sua libertà, deciderà lui quando sarà grande”. Noi, da genitori prima e da nonni poi, non abbiamo mai pensato che il battesimo fosse una costrizione, ma non so trovare le parole per trasmettere questa convinzione».
Maria – Busto Arsizio (VA)
 
In poche righe, lei solleva non una, ma due grandi questioni: il battesimo ai neonati e la trasmissione della fede tra generazioni. Entrambi gli argomenti meriterebbero ampio spazio. Per cercare di unire i due elementi cedo la parola ad Aldo Maria Valli, giornalista, sposo e papà di sei figli, che nel suo libro Scritti cattolici (Emp 2010) così racconta: «Un punto fermo è dato dalla consapevolezza di possedere, nei confronti di ogni figlio, una responsabilità che riguarda a pieno titolo anche la formazione spirituale e religiosa. Non concordiamo affatto con quei genitori secondo i quali papà e mamma non devono intervenire su questi aspetti perché, così si sente dire spesso, al momento opportuno, i figli faranno le loro scelte. Sarebbe come dire: oggi non ti do da mangiare perché, al momento opportuno, sarai tu a procurarti del cibo. Ma con quali forze, con quali risorse arrivare al domani se oggi ti privo degli strumenti per crescere? Lo stesso vale per la fede: come pretendere che possa costruirsi a tempo debito un rapporto con il Signore se non possiedo gli elementi base per fare la sua conoscenza e dialogare con lui?». Ecco: chiedere il battesimo per il proprio figlio appena nato è esattamente questo, è regalargli il meglio, l’unione con Gesù, un dono inestimabile. Ha sottolineato Benedetto XVI in proposito: «Il fatto che nella maggioranza dei casi il battesimo si riceva da bambini mette in evidenza che si tratta di un dono di Dio: nessuno merita la vita eterna con le proprie forze. La misericordia di Dio, che cancella il peccato e permette di vivere nella propria esistenza “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), viene comunicata all’uomo gratuitamente». La libertà, quindi, non solo non viene limitata, ma anzi, in un’ottica di fede, aumentata. Non è forse stato così anche per lei? Il battesimo, ricevuto grazie alla fede dei suoi genitori, non è stato sufficiente. Oggi lei è cristiana anche perché ha dovuto, crescendo, accogliere personalmente quel dono, in modo libero e responsabile.
 
L’emozione di un dono gratuito
«Mentre leggevo sul “Messaggero” di febbraio tutte le opere di bene fatte dalla Caritas Antoniana con le offerte ricevute dai lettori del “Messaggero”, ho provato una fortissima emozione e senza rendermene conto mi sono commossa fino alle lacrime. Ho pensato che anch’io ho preso parte a questo bene, con la mia piccola offerta. È stata una gioia grande vedere la realizzazione concreta di tanti progetti e scoprire che il mio dono è stato moltiplicato e ha contribuito a regalare il sorriso a tanti bambini e persone bisognose. Tutto questo mi ha toccato il cuore e ho ringraziato Dio e sant’Antonio per questa gioia interiore».
Gilda – Padova
 
Lei coglie appieno lo spirito di Caritas Antoniana, che non è semplicemente un’istituzione di solidarietà, ma l’espressione di una comunione di persone che hanno valori condivisi. E così il dono gratuito di ognuno si fonde e si moltiplica, si fa pane e speranza per migliaia di persone, con semplicità e concretezza.
In nome di sant’Antonio – questa è la mia esperienza quotidiana – si possono fare grandi cose fino ad abbracciare il mondo.
 
Lettera del mese. Aldilà disatteso
 
La morte, e prima?
 
Mentre in passato vigeva la massima del «memento mori», cioè ricordati che devi morire, oggi prevale il dogma del «memento vivere», ricordati che devi vivere «al massimo».
 
«Caro direttore, mi permetto di disturbarla per un’inquietudine che da tempo mi fa star male. Faccio fatica a credere che esista un aldilà così come lo descrive la dottrina cristiana, cioè con purgatorio e inferno, quest’ultimo come luogo di dannazione eterna. Ma non sono abbastanza le sofferenze che dobbiamo patire su questa terra? Come può Dio che è buono aver creato l’inferno?».
Luisa – Como
 
Cara signora Luisa, quanto scrive mi fa pensare, in prima battuta, a tanta gente convinta che il vero inferno sia su questa terra. «Se un inferno esiste – sosteneva Calvino – è quello quotidiano», mentre per il filosofo francese Sartre «l’inferno sono gli altri». Si tratta di versioni laiche di un concetto religioso oggi quasi desaparecido, nel senso che se ne parla poco, malvolentieri, per cui sull’aldilà, e soprattutto sull’inferno, le prediche dei preti sono inadempienti. Tutti lo riconoscono, ma da dove ripartire senza ripetere un passato che a ben vedere non ha dato frutti duraturi? Inutile negare che fino a qualche decennio fa un certo annuncio della fede ha parecchio lucrato sull’esistenza dell’inferno, ottenendo così un’adesione alla fede troppo condizionata dalla paura e quindi fragile, esposta al rischio di dissolversi presto. Quando qualcuno mi chiede, a bruciapelo, se credo nell’inferno, la mia risposta è generalmente in due tempi. La parola credere, usata per dire che l’inferno esiste – e ne sono ben convinto – è impropria (primo tempo). Ciò a cui credo con tutto me stesso è l’amore di Dio, che purtroppo può essere rifiutato dall’uomo determinando così l’insuccesso del piano divino di salvezza (secondo tempo). Senza che ci sia bisogno dell’inferno per garantire all’uomo la libertà di scelta in rapporto a Dio (scelta in negativo, drammatica, irreversibile), è vero invece che il rispetto della libertà umana da parte di Dio è sommo. Il dramma della libertà fallita dell’uomo è dunque da mettere in conto come possibilità del tutto reale, anche se sono convinto che i grandi peccati che possono portare alla perdizione eterna non sono quelli di debolezza nei quali cadiamo anche spesso, che ci umiliano ma dai quali cerchiamo di rialzarci, quanto piuttosto i peccati di convinzione, quelli nei quali esercitiamo tutta l’ebbrezza del sentirci onnipotenti e autonomi rispetto a Dio, mimando in qualche modo il peccato d’origine del voler essere come dei. Non si va all’inferno perché si scivola su una buccia di banana e ci scappa una parolaccia, ma per un pervicace atteggiamento di fondo che ci vede schierati contro Dio, senza di Lui, nel tentativo di sostituirci a Lui.

Oggi, però, non solo si nega un certo aldilà (quello che parla d’inferno e quant’altro), ma c’è un diffuso disinteresse verso una possibile «vita eterna». «Vogliamo noi davvero questo, vivere eternamente?», si chiede Benedetto XVI, e subito risponde: «Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, a questo scopo, piuttosto un ostacolo». Siamo tutti ossessivamente sbilanciati sul presente, per cui mentre in passato vigeva la massima del memento mori, cioè ricordati che devi morire, e dentro questo orizzonte di finitezza si svolgeva per tutti il percorso di vita, oggi prevale il dogma del memento vivere, ricordati che devi vivere «al massimo», ora, tralasciando tutto quello che può impedirlo.
Si fatica a cogliere come il limite temporale non svilisce la vita, ma la rende preziosa, unica, attivando per sé e di fronte agli altri, così come di fronte a Dio, il principio di responsabilità. Il ricordati che devi morire è anche sempre un ricordati che devi vivere, perché davanti alla parola «morte» non c’è solo la scontata domanda e dopo?, ma anche l’intelligente interrogativo e prima

Lettere al direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017