L’età non fa più la differenza

Oggi gli anziani si percepiscono tali quando perdono l’autosufficienza e non sono in grado di badare a se stessi. La società civile non ha ancora compreso l’importanza di aiutare gli anziani a mantenersi in forma.
24 Settembre 2007 | di

Di invecchiamento degli italiani, innalzamento dell’età media, terza età si parla e si sparla. Sono all’ordine del giorno statistiche apocalittiche che prefigurano un Paese, il nostro, composto per la maggior parte da anziani. Eppure si fa ancora troppo poco per aiutarli ad affrontare un’età complessa e difficile proprio perché più vicina alla fine della vita. Una ricerca del Censis, presentata a Roma di recente, accende i riflettori su un dato importante che può servire per illuminare la difficile questione: che gli anziani si riconoscano tali non è più scontato. In un campione diversificato di persone che hanno oltrepassato la soglia della «terza età», il 75,4 per cento degli intervistati non si riconosce nella parola «anziano», il 68 per cento si dice felice, il 72 per cento sostiene di possedere una salute addirittura «ottima». Più avanzano gli anni, invece, più precipitano le condizioni di salute. Oggi, dunque, non esiste più una condizione univoca che determini il «sentirsi» anziano. Ma allora quand’è che una persona può essere a pieno titolo incasellata nella categoria di quelli che fino a ieri venivano chiamati semplicemente «vecchi»? Forse la nascita di un nipote? L’arrivo dell’età pensionabile? L’incresparsi della pelle ai bordi degli occhi? Nessuna di queste situazioni.

Dato per assodato che nella società del giovanilismo la parola «anziano» denota un insieme di condizioni velatamente spiacevoli, si deve operare un ulteriore distinguo. Quello cioè tra l’«essere» e il «sentirsi» vecchi: 1.500 persone dai 60 anni in su hanno spiegato che a farli «sentire» vecchi sono diversi fattori in cima ai quali c’è la malattia, seguita dalla perdita dell’autosufficienza e, infine, dalla solitudine. C’è poi quella che viene definita «geografia dei luoghi difficili»: nascere al Nord o al Sud, a Roma o in un paese di 500 anime, è ben diverso. Perché dove ci sono meno servizi, come in una cittadina di provincia, sono però ancora vive le reti di solidarietà. Il Comune non ha i fondi per attivare un centro climatizzato ed evitare che gli anziani soffrano il caldo? Ci sono i bocciodromi, i gruppi autogestiti, i bar del quartiere che racimolano comunque un ventilatore o un condizionatore di seconda mano.

E poi esiste anche la cosiddetta «longevità attiva» che si instaura laddove gli anziani sono risorsa strategica per la famiglia: perché spesso possono aiutare economicamente i figli arrivando dove questi, intrappolati tra le mille necessità e bisogni più o meno indotti dalla società moderna, non arrivano, ma anche perché danno una mano accudendo i nipoti.


La carica dei non autosufficienti

A fare più paura della morte è la condizione di non autosufficienza. In Italia i non autosufficienti sono 2 milioni 800 mila, il 70 per cento dei quali è costituito da anziani. Questo, a detta di medici, specialisti e psicologi, sarà lo «tsunami» che investirà la nostra società nei prossimi anni.

Tra quanti lanciano l’allarme, anche il professor Giovanni Battista Sgritta – docente di sociologia all’università «La Sapienza» di Roma – che snocciola una serie di dati. In questo momento gli italiani over 65 sono 12 milioni ma, stando alle statistiche, il numero potrebbe crescere di 100 mila unità ogni anno fino al 2016. Siamo al di sotto di 20 punti rispetto al tasso di natalità previsto dal vertice di Lisbona. Si calcola, infine, che il 10 per cento degli over 70 non sia autosufficiente e, ancor peggio, non abbia abbastanza risorse economiche per far fronte alle spese. Poveri e soli, dunque. Se poi alla malattia invalidante si aggiunge una rete familiare debole, incapace di dare sostegno, relazioni sociali asfittiche e un livello di istruzione medio-basso, la situazione precipita e l’anziano cade in un buco nero dal quale è difficile risalire.


E a me chi bada?

Per capire la reale portata del fenomeno, basta fare un giro in centro al mattino, magari al mercato. E contare gli anziani «accompagnati» che fanno la spesa, comprano i giornali o sono fermi al banco del pesce. I più fortunati sono sostenuti da un altro braccio, spesso dell’Est, il più delle volte proveniente da uno di quei Paesi poveri nei quali si fa fatica a racimolare i soldi per crescere i figli. Gli anziani sono trattati con rispetto, ma è raro scorgere nei gesti di queste donne affetto, amore, devozione filiale.

Poi ci sono gli anziani meno fortunati, che stanno in casa, a letto, sulla sedia a rotelle, a volte coscienti, a volte no. In questo caso la «badante» diviene anche «infermiera» oltre che cuoca, casalinga, donna delle pulizie. Non ha una specializzazione, talvolta non è preparata a fronteggiare tutti i tipi di situazione; possiede solo l’esperienza di chi per mestiere accudisce i genitori e i nonni degli altri. Sono migliaia le badanti che stanno in fila al supermercato, affollano le corsie degli ospedali, passano le notti al capezzale di «vecchi» malati e stanchi.

Secondo le statistiche questo «welfare fatto in casa» è entrato ufficialmente in crisi anche e soprattutto perché le colf di nuova generazione sono più «frettolose», nel senso che tendono a rientrare in patria a scadenze sempre più ravvicinate. In questa situazione è facile intuire come le badanti non rappresentino più la soluzione per le famiglie che non sanno come gestire anziani non autosufficienti. Un recente studio dell’Iref (l’istituto di ricerca delle Acli) evidenzia che solo una colf su quattro rimane in Italia, mentre le altre vogliono tornare al più presto nel proprio Paese di origine. Il 57 per cento di loro, inoltre, lavora in nero e il 51 si dedica unicamente ad assistere anziani; il 33 per cento vive nella casa in cui presta servizio.


Un welfare sconnesso

Lo scorso maggio, a Roma, si è tenuto un convegno organizzato dal Centro internazionale studi sulla famiglia (Cisf), dal titolo: «Condizione anziana e politiche del benessere: sfide di oggi». In tale contesto sono stati delineati i contorni di una situazione che sta sempre più sfuggendo di mano.

«Osservando lo stato degli anziani in Italia – ha affermato Giovanni Sgritta – ben si comprende come il sistema di welfare italiano sia sconnesso». Le famiglie cercano in tutti i modi di tappare i buchi dello Stato ricorrendo alle lavoratrici straniere immigrate. In questo modo, però, si innesca quella che il sottosegretario al ministero per la Solidarietà sociale Cecilia Dosaggio ha definito «bomba a orologeria»: siamo in una situazione di non sostenibilità, perché si sta creando un cortocircuito tra i permessi a tempo indeterminato e i contratti privati a tempo determinato formulati dalle famiglie. «È necessario – ha ribadito il sottosegretario – puntare a politiche sociali che stabilizzino le relazioni».

A conti fatti, dunque, se il welfare italiano non garantisce una rete efficiente di servizi pubblici, si ricorre al welfare fai-da-te, che però fa acqua da tutte le parti.


Il parere del geriatra

Che ci sia assenza di strutture adeguate e una classe politica che non ha ancora capito come e fino a che punto valorizzare la terza età, è anche il parere di Gaetano Crepaldi, tra i più importanti e noti studiosi italiani di geriatria nonché presidente dell’unico «Centro di studi sull’invecchiamento». Crepaldi conviene anche sul fatto che oggi non esista un’età anagrafica che incaselli l’anziano all’interno di una categoria ben definita.

«Si invecchia, a sessant’anni o a novanta, quando si perde la capacità di agire autonomamente – afferma – quando non si è più in grado di autogestirsi e si è costretti a ricorrere all’assistenza sociosanitaria, l’unica in grado di aiutare un anziano qualora la sola assistenza medica non basti». E anche lui sottolinea: «Le famiglie non sanno come accudire gli anziani e non tutti possono permettersi le badanti, non certo fornite dal servizio sanitario nazionale».

Il problema è complesso. «Quando un anziano comincia ad avere una qualche disabilità fisica o mentale e ha bisogno di aiuto, in Italia non trova strutture adeguate. Non ci sono spazi fisici per ospitare persone non più autosufficienti, mentre l’età media si alza. Oggi si utilizza a riguardo il termine floridizzazione: quasi il 20 per cento della popolazione è anziana e nel 2015 si calcola che metà avrà più di 60 anni. Ma chi manterrà tutte queste persone? Una situazione, comune al resto d’Europa, che rischia di generare leggi sull’eutanasia in un numero crescente di Stati, compreso il nostro: di questo dovrebbero occuparsi i cattolici».

La ricerca in questo campo langue. «Il 70-80 per cento delle forme tumorali – precisa Crepaldi – colpisce persone che hanno più di 70 anni, eppure non ci sono studi su queste tipologie di cancro, mentre si moltiplicano studi sulla genetica e sulle malattie classificate come “rare”». Ma non è questa la strada giusta da imboccare: «La società civile deve creare centri per assistere e curare gli anziani che hanno pochi mesi di vita davanti».


Mantenersi attivi ringiovanisce

Invertire la tendenza richiede impegno e determinazione: andare in pensione troppo presto, per esempio, non giova a nessuno. «Rima-nere attivi mentalmente e fisicamente – suggerisce Crepaldi –, continuare a lavorare, non smettere di interagire con la società attraverso il volontariato può aiutare a migliorare le condizioni di vita di molti anziani o per lo meno di quanti godono ancora di buona salute. Per i non autosufficenti servono strutture pubbliche adeguate e per chi è gravemente malato hospice nei quali poter trascorrere gli ultimi giorni di vita seguito da qualcuno che sappia fornire un calmante se il paziente è agitato, un sonnifero se non riesce a dormire, morfina se i dolori sono troppo forti, sostegno psicologico per affrontare la paura della morte».

Ma, ancor di più, è necessaria una ricerca finalizzata allo studio delle problematiche legate all’età avanzata. «Al contrario quest’anno – ha fatto notare Crepaldi – al “Centro di studi sull’invecchiamento” del Consiglio nazionale delle ricerche del quale sono responsabile, sono arrivati dal governo 7.500 euro: un finanziamento che non copre nemmeno la bolletta della luce e del telefono». Insomma, ancora una volta le buone intenzioni rimangono tali, e si scontrano con l’ormai cronica carenza di fondi a disposizione.       


assistenza domiciliare

Un mestiere in via di estinzione

«In Romania la donna è percepita come una persona che si occupa degli altri, le rumene che giungono in Italia per “badare” agli anziani vengono pagate per fare quello che fanno nel loro Paese gratuitamente». Il messaggio è forte e chiaro. E proviene dalla rumena Renate Weber, 42 anni, in passato consigliere presso il dipartimento legislativo costituzionale del presidente della Romania Traian Basescu. Dal 1998 Weber è presidente della «The Soros Foundation Romania» al cui interno, dal 1999, è membro della sottocommissione Legge e diritti umani. Non una rumena qualsiasi dunque, ma una donna fortemente impegnata sul fronte dei diritti umani e delle relazioni internazionali, autrice, tra l’altro, di numerosi studi e pubblicazioni incentrate sulle tematiche del sistema legislativo rumeno. In Romania prendersi cura delle persone di una certa età è un mestiere dignitoso: quindi, colmare un gap di una società dove la maglia dei rapporti familiari si allenta sempre più, e dove le politiche governative spesso sono lacunose, non è visto come un problema. Anzi. Per noi italiani questa è una risorsa, per «loro» che vengono da un mondo non lontano geograficamente ma culturalmente, un guadagno. Nelle parole della Weber si scorge una percezione totalmente diversa di quello che è il mestiere della «badante». Ciò che per noi è un fenomeno che avanza sempre più, nel Paese di origine di molte delle donne che lavorano in Italia, non viene percepito come tale. Prendersi cura degli anziani è un dovere che viene «esportato», a pagamento. Le signore dell’Est che stanno vicine ai nostri anziani, altro non fanno che mettere in pratica ciò che normalmente si fa nelle loro famiglie.


Grandi vecchi

Giovani nello spirito

A 99 anni compiuti il 22 aprile scorso, Rita Levi Montalcini è senza alcun dubbio l’esempio più riuscito del teorema che lavorare e tenere la mente attiva, serve a mantenersi giovani. E che oggi il percepirsi anziani è una condizione legata alla salute fisica e mentale. Chi si azzarderebbe a definire la scienziata e ricercatrice torinese «vecchia»? Pare che la senatrice Montalcini abbia scoperto il segreto dell’eterna giovinezza. Eppure la sua non è stata una vita per nulla facile. Ebrea sefardita, nel 1938 fu costretta dalle leggi razziali del regime fascista a emigrare all’estero con l’istologo Giuseppe Levi, con il quale lavorava, e proseguire le sue ricerche in un laboratorio casalingo che non le impedì di ottenere risultati invidiabili. Nel 1986 è stata insignita del premio Nobel per la Medicina per aver scoperto quello che viene definito Fattore di Crescita Nervoso, che gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo delle cellule nervose. Il primo agosto 2001, alla veneranda età di 93 anni, dimostrando una lucidità mentale da far invidia agli ottantenni più in forma e una forza fisica che di rado si trova in molti giovani, Rita Levi Montalcini viene nominata dal presidente della Repubblica in carica Carlo Azeglio Ciampi, senatore a vita. Alle politiche del 2006 accorda la fiducia al governo Prodi II. Tra le numerose iniziative scientifiche, ha recentemente fondato a Roma un nuovo centro di ricerca sul cervello. Curiosità: lo scorso anno la scienziata ha scritto una canzone per il duo dei Jalisse che ha partecipato, invano, alle selezioni per il Festival di Sanremo, mentre nel febbraio dello stesso anno è volata a Dubai, per assistere al concerto di Placido Domingo.


zoom

Manifesto terza età

Un «Manifesto della terza età» in rappresentanza degli 11 milioni e mezzo di italiani over 65, rivolto a governo e autorità. Una sorta di «decalogo» di richieste da parte del sempre più esteso popolo della terza età, un’iniziativa promossa dal Cisf (Centro internazionale studi famiglia) e dalla rivista dei Paolini «Club3». Nel Manifesto si parla di politiche di benessere, ma anche autonomia, dignità, promozione del volontariato senior, diritto alle cure, protezione contro la non autosufficienza e cittadinanza attiva. Tra le richieste avanzate al governo c’è l’innalzamento di tutti i trattamenti pensionistici (nessuna pensione al di sotto della «no tax area», oggi pari a 650 euro mensili), la necessità di sfruttare le competenze dei lavoratori senior, ma anche di promuovere il volontariato della terza età, defiscalizzare i costi sostenuti dalle famiglie per la cura dei parenti (badanti e servizi assistenziali a pagamento), finanziare un fondo nazionale per la non autosufficienza.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017