L’era della «contanimazione»

La parola e il suo uso creativo sono mezzi potenti di espressione di sé e di azione nel mondo. Per questo è fondamentale frequentare la realtà e conoscerne i linguaggi. Cosa tutt’altro che scontata per un disabile.
25 Settembre 2008 | di

Giocare con le parole è stata da sempre una mia passione. Ricordo che, quando ero piccolo, mi divertivo a invertire le lettere all’interno di alcuni sostantivi per vedere se potevano trasformarsi in una parola diversa e comunque sensata o se diventavano una successione di suoni alla quale io potevo dare il significato che preferivo.
Potevo creare così un mondo di parole inventate che rappresentassero cose reali o anche di parole inventate con le quali nominare cose inesistenti. Ma, se si gioca a coniare termini che non siano di uso comune, si corre il rischio di non poter comunicare questa creazione. Per riuscire a farlo c’è bisogno di un linguaggio (qualsiasi) che sia condiviso.

Col tempo, pur non rinunciando privatamente a inventare parole-concetti «irreali», ho imparato a sfruttare questa mia inclinazione in modo più comprensibile e, quindi, condivisibile e comunicabile.
La parola, e il suo uso creativo, sono un potente mezzo di espressione di sé e di azione nel mondo. Ma per agire nel mondo dobbiamo conoscerne, almeno in parte, il linguaggio e non parlarne o intenderne uno del tutto estraneo.
Se si gioca con le parole anche con questa consapevolezza, esse ci danno davvero la possibilità di interpretare e intervenire «nella» e «sulla» realtà, e di fornirne visioni nuove, meno asfittiche, di sovvertire pregiudizi.
Ma, senza poter stare nel mondo, senza poterlo calcare, è difficile, se non impossibile, imparare coscientemente il suo linguaggio. E questo è tutt’altro che scontato per una persona con disabilità.

Se ho potuto imparare le parole, tanto da poter fare del loro utilizzo «creativo» (in ogni senso) uno degli aspetti fondanti del mio lavoro e di quello del Centro di Documentazione che presiedo, è proprio perché ho cercato e avuto la possibilità di stare effettivamente nel mondo, di esserci in modo non virtuale, mediato. Di apprendere dal mondo, di subirlo, a volte, di gioirne e rattristarmene.
Conoscere il mondo e la sua lingua (anzi le sue lingue) è il primo passo per poter contribuire all’«animazione» del mondo stesso.
A proposito di «animazione» e di tutto il discorso fin qui fatto, è di qualche giorno fa un’ulteriore piccola invenzione, la parola «contanimazione»: questa nasce dall’accostamento di due termini reali che produce come uno slittamento, un surplus di senso. Essa richiama più concetti, senza esaurirne alcuno.

Richiama, in primis, l’idea di contaminazione, la quale presuppone una compresenza, un’esperienza comune, un esserci insieme. Non prevede, cioè, l’esclusione, ma al contrario la partecipazione, la possibilità di accesso a una condizione di «assorbimento», di acquisizione. La presenza nel mondo, d’importanza vitale, di cui parlavamo prima.
Inoltre, il neologismo richiama l’immagine dell’animazione, il secondo momento fondamentale: quello in cui le persone disabili, ormai contaminate dal mondo e padrone dei suoi linguaggi, a loro volta contaminano, contribuiscono cioè all’animazione del mondo, alla determinazione dei contesti e delle situazioni. Si fanno, cioè, «animatori».
Da un lato quindi poter stare nel mondo, farsi contaminare, acquisire conoscenza (in ogni senso); e dall’altro poter animare, aprire nuove prospettive, produrre cultura (in ogni senso): alla realizzazione di queste due condizioni è legata un’attiva presenza delle persone disabili nella realtà sociale.
Per questo vi faccio un appello. Se avete «pericolose» esperienze di «contanimazione» da raccontarmi, maneggiatele con cura e... contaminatemi pure, scrivendo a claudio@accaparlante.it
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017