Le dissacranti risate tra quasi amici

Per riscattarsi, Philippe e Driss scommettono l’uno sull’altro. Ce la fanno perché allargano il loro sconquassato mondo, ospitando qualcuno che aggiungerà ulteriore sconquasso alle loro vite. Senza paura della creatività.
28 Maggio 2013 | di

Con questo articolo esordisce la nuova rubrica Ciak bioetica, che, già dal nome, rivela il taglio: occuparsi dei dilemmi morali bioetici di frontiera a partire da come sono trattati nel cinema. La settima arte, infatti, ha la capacità di proiettarci nel cuore di situazioni complesse, aprire prospettive inedite nella descrizione della realtà e costringerci a prendere posizione. A raccogliere le provocazioni, descrivere le situazioni e valutarle è Paolo Marino Cattorini, ordinario di Bioetica alla facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università dell’Insubria, a Varese. Già componente del Comitato nazionale per la bioetica e della Commissione nazionale per la lotta all’Aids, è autore, tra gli altri, di Bioetica e cinema. Racconti di malattia e dilemmi morali (FrancoAngeli 2006); Un buon racconto. Etica, teologia, narrazione (Dehoniane 2007); Bioetica. Metodo ed elementi di base per affrontare problemi clinici (Elsevier 2011).
 
È una splendida notte a Parigi. Una lussuosa Maserati ospita due complici che si guardano ammiccanti infischiandosene dei segnali stradali. Uno è bianco, di mezza età, con barba; l’altro è giovane, di colore, rasato a zero. La macchina corre, esce dalla coda, va in sorpasso. Sembra l’inizio di un film d’azione. Scopriremo dopo i loro opposti caratteri. Philippe (interpretato da François Cluzet), il bianco, è aristocratico ed enormemente ricco. Driss (l’attore Omar Sy), quello al volante, è un povero nero della periferia parigina, un gigante di muscoli. Uno è colto e scrive platoniche lettere d’amore. L’altro è ignorante e sensuale. Nella prima sequenza la polizia, che insegue l’auto per eccesso di velocità, viene furbescamente ingannata (un falso malore di Philippe) e scorta i due protagonisti al pronto soccorso. Lo spettatore non realizza immediatamente il dettaglio più tragico: Philippe è tetraplegico e ha assunto Driss come suo giovane badante a tempo pieno. Comincia così il racconto di due corpi in fuga, che si prendono cura l’uno dell’altro. Ma, nello scorrere del film, scopriremo che in realtà il corpo in azione è solo uno, il corpo di un’alleanza che sfreccia sopra il potente motore di un’elegante automobile. Resisterà il patto?
 
Il disabile e il disadattato
Non è una cosa nuova al cinema. In Basta guardare il cielo (Usa 1998, di Peter Chelsom) la coppia è formata da due ragazzi, uno geniale ma con gravi malformazioni e disabilità motorie, l’altro grande e grosso, ma goffo e intellettualmente lento. Uno sulle spalle dell’altro affrontano i loro deficit e le emarginazioni imposte da una società malata. Oppure pensiamo a L’ottavo giorno (Francia-Belgio 1996, di Jaco Van Dormael): un esperto di metodi di vendita, con pesanti problemi familiari, si imbatte in un ragazzo Down che non lo molla e anzi lo obbliga a curarsi di lui, insegnandogli che cosa sia l’amicizia. E poi c’è Oasis (Corea 2002, di Lee Chang-Dong): un giovane con ritardo mentale e con trascorsi in carcere visita per caso, in una squallida periferia, una ragazza gravemente spastica, sola e indifesa. Ne nascerà un’inattesa intimità e un’altrettanto inattesa guarigione, resa da una scena nella quale muscoli femminili finalmente liberi mimano la danza.

In Quasi amici. Intouchables i corpi sono maschili. La tecnica li lega e aiuta, ma li obbliga al contatto. Sono socialmente «intoccabili» come coppia, forse perché prima erano altrettanto intouchables (come dice il titolo originale) come singoli, cioè non potevano toccarsi o riscattarsi. Ora invece sono in touch, a contatto.
Driss deve vincere nausea e imbarazzo per esercitare doti di accudimento: lavare capelli, pulire piedi, infilare le calze al malato, sollecitargli l’intestino pigro, vincere la paura del volo. Ma ce la fa perché non abbandona il suo mondo interiore, fatto di telefonini e disordine, di orecchini e tentativi di pittura, di istintualità tribale e giungla metropolitana, di familiari delusi e irregolari, di furti per abitudine e storie carcerarie, di preoccupazioni educative per il nipotino adottivo e di fastidio viscerale per gli spocchiosi arricchiti. Driss semplicemente allarga il suo mondo e vi ospita qualcuno che aggiungerà altro sconquasso.

Philippe ce la fa perché «nessuna pietà» è esattamente quello che vuole. La vita gli ha tolto la moglie per una malattia incurabile e lo ha morso nelle vertebre. Vuole un corpo tonico, prestante, e adesso, con l’aiuto di Driss, ci vive dentro. Philippe ha crisi respiratorie e dolori-fantasma da medicine. Soffre senza percepire dolore! Ora, vuole finalmente sentire il suo dolore. E Driss glielo fa avvertire, assieme alla nausea per la velocità, all’ebbrezza da fumo, al gusto della competizione, al pugno nello stomaco di una quotidiana disperazione. «Se succede a me, io mi sparo» non è solo la prevedibile battuta di Driss. È quello che Philippe dice a se stesso, ogni giorno. È quello che si dirà per tutti gli anni, fino ai 70, in cui i medici hanno previsto di tenerlo in vita. In vita si resta se lo si decide, a denti stretti, ogni mattina, ogni notte, dinanzi a ogni farmaco, a ogni retata.
 
Bando al pietismo
Che cosa ha unito la strana coppia? Perché il film ha avuto successo? Per la medesima ragione: è finito il pietismo, il compatimento intellettuale, la retorica del soffrire, la banalità del «poverino…». Entrare in empatia con un disabile grave non significa affatto camuffarsi da angelico maggiordomo, gonfio di buoni sentimenti e di carità pelosa. Significa invece percepire le emozioni che gridano sotto un corpo anestetizzato dal male, e liberarne la dignità.

Nel film Go now (Gran Bretagna 1996, di Michael Winterbottom), uno scanzonato gruppo di amici prende in giro Nick, che sperimenta l’aggravarsi della sclerosi multipla. Il gruppo è irriverente, sfrontato, ma dissolve così le fantasie di commiserazione. Testimonia che persino la paura per i sintomi, se espressa e condivisa, può essere ridimensionata. L’amicizia è più forte: sbattimi pure in faccia l’ansia! Si bloccherà la saliva in gola, ma proveremo ad affrontarla, persino a riderne assieme.

Vengono in mente quei salmi biblici in cui c’è imprecazione, lamento, paura e poi la protesta e l’attesa di qualcuno che venga, subito, forte, su ali d’aquila, perché qui si sta disfacendo la casa e i falsi amici, schifati, ridono o ne approfittano. Il male va combattuto, non benedetto. E l’alleato lo si vede dal coraggio con cui cammina su aspidi e vipere, non dalle cantilene consolatorie né dalle giustificazioni moralistiche di una disgrazia senza senso. Non voglio – io Philippe – essere trattato come un cadavere in lenta putrefazione, detesto una vita in camici bianchi e igienizzata dal comfort; voglio veder danzare la vita come in una discoteca di sballati; posso curare la tristezza se riesco a provare i tuoi bisogni, anche il tuo bisogno di fare dell’ironia su di me.

Tratto da una storia vera (raccontata da Philippe Pozzo di Borgo ne Il diavolo custode, Ponte alle Grazie), la pellicola fa sognare una società ibrida e vitale, dove i diversi scommettono l’uno sull’altro, perché non hanno scelta e non rinnegano il fascino di ciò che ancora li commuove. «Scommetti che non regge due settimane?» commenta cinico Philippe a proposito del nuovo assistente. «Cento euro che li semino», cioè «Vuoi vedere che li freghiamo?» insinua Driss in un’altra scena. La sua provocazione non riguarda solo i poliziotti, ma il destino intero che, facendo cadere il parapendio dell’amico, ha condannato quest’ultimo a vivere dentro a una testa scollegata e impotente. «Ci sto» replica Philippe. Ingannare gli uomini in divisa è stringere anche loro, ignari, in un’alleanza fuorilegge. Qui sta la scommessa: vale la pena godersi quel che resta e giocare l’insonnia in un’esplorazione rischiosa, perché la liberazione, se c’è, è qui, forse dietro un marciapiede di barboni e prostitute. E riguarda il corpo, tutto il corpo, non uno spirito disincarnato, svenduto a qualche aldilà. Vanno massaggiate le orecchie, se lì è rimasta una zona erogena intatta. E se una donna mi vuol vedere e odorare da vicino, bisogna darle questa opportunità. Il desiderio, se c’è, farà il resto.
 
Cosa significa difendere la vita?
«Dove si trova un tetraplegico? Dove l’hai lasciato!» è una delle battute di Driss. La battuta riguarda anche una certa etica religiosa, che ha paralizzato la sua carica profetica e soffre di asfissia dottrinale, con un linguaggio vecchio come quello dei badanti scartati da Philippe. Che cosa significa «difendere la vita»? Accanirsi nel prolungarla a ogni costo? Svuotarla di passioni? La pellicola irride chi teme la soggettività del malato. Spinge invece a valorizzare la creatività delle sue richieste, l’originalità del suo stile decisionale, le sue emozioni concrete. Philippe cerca un alleato che lo liberi dalla gabbia del bon ton, dalle raccomandazioni edificanti. Le norme valgono per tutti e due (non rubare, non mentire, non insultare), ma diventano simbolo di una cura reciproca che ha il sapore della lealtà («non puoi spingere un handicappato per tutta la vita»), della provocazione narrativa (chi vorresti diventare? Come ti posso raccontare?), della gratitudine (Driss conserva la foto di Philippe, che questi voleva gettare).

Quasi amici. Intouchables è anche un film sul cinema. Siamo quasi amici di chi si siede con noi, vicini di poltrona, nella sala di proiezione dove diventiamo Driss e Philippe, medici e malati, normali e folli. Mentre le immagini dello schermo entrano in noi (come Driss nella vita di Philippe e come Philippe in quella di Driss), noi siamo quasi tetraplegici, immobili al nostro posto, e possiamo decidere di restare seduti oppure di alzarci, interrompendo la visione, la vita della pellicola. Ma se restiamo, corriamo tutti i rischi e c’è solo da fidarsi del corpo delle immagini che un altro ci offre in una misteriosa alleanza. Tutti i film sul blocco motorio, da La finestra sul cortile di Hitchcock (1954) a Il collezionista di ossa di Phillip Noyce (1999) ad altri ancora, raccontano dell’esperienza di andare al cinema, di essere al cinema, di abitare il mondo del cinema, in cui la vita reale è sospesa nella scommessa di guadagnarne un’altra, di scoprire verità senza toccare e senza essere toccati. Verità così pericolose e intime, che possono salvarci o perderci, curarci o ferirci, lenire o accendere il dolore. Ma del resto, si può imparare senza qualche rischio? Si può vivere senza fidarsi dell’immaginario?


Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017