Lasciate fare ai giovani

Il vicesegretario generale del Cgie per i Paesi anglofoni extraeuropei punta sui giovani. E manifesta i sentori di un disagio che sta attraversando le comunità italiane: la freddezza della Madre patria.
31 Luglio 2009 | di

New York
Quale futuro per gli italiani all’estero? Era l’interrogativo che apriva l’editoriale dello scorso numero del nostro giornale. Lo abbiamo girato a Silvana Mangione, membro del Consiglio generale degli italiani all’estero e animatrice dell’Italian American Committee on Education, a margine del meeting sull’italianità, che si è svolto lo scorso aprile a New York.
Pascale. Quale è il suo ruolo all’interno del Cgie?
Mangione. Come vicesegretario generale per i Paesi anglofoni extraeuropei, mi sono trovata a lavorare con un gruppo di consiglieri che rappresentano nazioni molto interessanti: dall’Australia al Sudafrica, passando per il Canada e gli Stati Uniti. Quattro Paesi accomunati dalla lingua, ma anche da un certo modo di vedere le cose, perché il bilinguismo porta a ragionare in una maniera diversa.
La prima Conferenza dei giovani italiani nel mondo, che si è tenuta lo scorso dicembre a Roma, è stata preparata con molta attenzione dal Cgie. Ci siamo resi conto che l’investimento sui giovani è la cosa più importante che possiamo mettere in atto. I giovani provenienti dai quattro Paesi in oggetto hanno lavorato benissimo, dedicandosi a questioni diverse e mostrando, su ogni argomento, impegno e idee chiare.
Che cosa significa continuare a investire sui giovani?
Significa continuare a investire nella lingua e nella cultura italiana. Non fa alcuna differenza se i nuovi emigrati siano professionisti o persone analfabete. Il trauma dell’emigrazione è lo stesso per tutti. Spesso questa è una cosa che non si racconta. Si preferisce far passare l’idea che questi «cittadini del mondo» vivano bene dovunque. Ma non è così. Ignazio Marino è tornato in Italia per adempiere al suo incarico di senatore. Oggi sta portando avanti una battaglia per la difesa della cultura italiana all’estero, arricchita da quello che ha vissuto e sentito negli Stati Uniti.
Esiste, dunque, una dicotomia tra italo-italiani e italo-esteri? Qual è la differenza tra queste due realtà?
Chi è nato e cresciuto in un altro Paese (l’italo-estero) possiede sempre un forte anelito a ritrovare le proprie origini. Ma, in questo momento, il Cgie sta registrando una certa freddezza da parte della Madre patria nei confronti degli italiani all’estero, in particolare nei quattro Paesi di cui mi sono occupata. Nazioni nate grazie ai flussi migratori e composte totalmente, o quasi, da emigrati.
Si tratta di una presa di distanza, che talvolta diventa fastidio. Un disagio che ho segnalato sia al Comitato degli italiani all’estero del Senato che a quello della Camera. Il problema nasce dall’identificazione dell’emigrato con l’immigrato. In Italia esso viene ormai visto come «il diverso». E, mi duole dire questo, ma sembrano evidenti i prodromi di un atteggiamento di distacco anche nei confronti dei connazionali emigrati all’estero. Ecco perché il discorso relativo alla cultura deve diventare un discorso circolare. L’Italia deve aumentare le iniziative dirette a esporre alla nostra cultura le comunità di origine italiana, oltre a quelle estere. E la cultura di riferimento non può essere solo quella aulica, ma prima di tutto quella contemporanea. Va superata l’immagine, ancora diffusa, della cultura italiana come un qualcosa che è morto con Lorenzo il Magnifico.
Cultura circolare, perché ci deve essere anche una cultura di ritorno. In tutti i Paesi del mondo, dove esiste una comunità di origine italiana, esistono anche artisti di origine italiana. Questa capacità di produrre una cultura autoctona italo-estera non è affatto conosciuta in Italia. Dobbiamo riuscire a dare visibilità a queste sfaccettature delle nostre comunità, per sfatare, una volta e per sempre, tutti gli stereotipi che vedono ancora gli italiani all’estero come quelli che arrivano con la valigia di cartone. Dobbiamo sponsorizzare il più possibile l’altra comunità, quella caratterizzata dalla nuova emigrazione, geniale, del tutto sradicata da qualunque problema legato all’appartenenza o alla nostalgia. Un’italianità giovane e aperta alla volontà di dialogo.
Cosa perde l’Italia nel ritardare il processo volto a riallacciare i contatti con gli italiani all’estero?
Perde la sua internazionalità. Altri Paesi, che pure hanno una rete di emigrati inferiore alla nostra, investono milioni nella promozione della propria lingua e cultura all’estero. Sono Paesi che si sforzano di rendere più stretti i rapporti tra le comunità già radicate e le nuove generazioni.
Inoltre, i giovani rappresentano un’energia straordinaria sia per gli Stati d’arrivo che per l’Italia. Dunque bisogna ascoltarli. I giovani italo-esteri manifestano una forte volontà di entrare anche nelle rappresentanze elettive. Ed è giusto che possano partecipare e scegliere essi stessi chi li rappresenterà. Infine, non bisogna imporre loro le forme dell’associazionismo tradizionale. Attraverso i giovani stiamo vedendo modificarsi l’intero impianto dell’aggregazione. Quello che dobbiamo e possiamo fare è favorire i canali attraverso cui si attua la loro partecipazione.
L’emigrazione, insomma, è un valore aggiunto per ogni società. Perché?
Gli italiani all’estero sono importanti perché conoscono le realtà locali, quindi possono fornire all’Italia utili suggerimenti. Un’opportunità che, però, non viene appresa e colta. Non capisco perché ci sia questa chiusura. Forse, ultimamente, per la paura che si rovescino in Italia tutti quegli emigrati che nei loro Paesi stanno subendo una crisi economica profonda. Ma questo succede e succederà sempre. È successo in Gran Bretagna e in Francia. Dobbiamo avere il coraggio di affrontare il problema alla radice. Il che significa rivedere il regime della cittadinanza e prevederne due diverse tipologie, come sosteniamo noi del Cgie. Deve esserci un meccanismo di cittadinanza quiescente, per cui, superata una certa generazione, chi nasce all’estero non nasce automaticamente italiano ma, se rientra in Italia nel giro di un mese, può riavere il passaporto. In questo modo si potrebbe riuscire a sconfiggere la paura dell’invasione. Essa non avverrà mai. Perché come l’italiano ama vivere nel suo Paese, così l’argentino di origine italiana ama vivere nel suo. Del resto, è proprio quello che ci hanno detto i ragazzi argentini di origine italiana, alla Conferenza dei giovani di Roma: «Aiutateci a creare le condizioni affinché la nostra generazione possa rimanere in Argentina».

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017