L'amicizia sulla punta delle dita

Gli amici col passare degli anni diminuiscono di numero. Ma quelli veri restano. E l’intensità del rapporto si mantiene inalterata nel tempo. Perché l’amicizia è uno dei legami più autentici che un essere umano possa sperimentare.
20 Giugno 2008 | di

Forse basterebbe aprire quel cassetto dove un po’ alla rinfusa sono raccolte le foto di una vita intera. O passare in rassegna gli album e i filmini che immortalano gli istanti che hanno segnato le tappe più importanti dell’esistenza. E lì, con un po’ di pazienza, mettersi a osservare i volti che ritornano, nei compleanni e nelle occasioni informali; gli sguardi complici che avevamo dimenticato; le assenze che ci sorprendono, perché proprio «lui» o proprio «lei», in quel momento non sarebbero dovuti mancare. Parliamo di amici. Di coloro che ci hanno accompagnato per un tratto di strada – fosse solo un istante – vissuto in una verità che ha segnato un punto di non ritorno.
Un tema vecchio come il mondo che continua a interessare romanzieri, sondaggisti e saggisti, anche perché, declinato al personale, apre significati e svela meccanismi comportamentali al confronto con i quali difficilmente ci si sottrae. In fondo dietro l’interesse per l’indagine psicologica, per il test da magazine, dietro il successo di volumetti di facile divulgazione sull’argomento c’è sempre un tentativo di verifica personale. Che cos’è per me l’amicizia? Dove sono gli amici di ieri? Chi sono quelli di oggi?


L’altro, un bisogno

A voler tirare qualche bilan­cio – suggerisce una ricerca rea­lizzata nel 2006 dall’«Ameri­can Social Review» – superati gli «anta» parlare d’amicizia significa contare pochi nomi sulla punta delle dita. E spesso basta una sola mano.

Nell’arco di vent’anni, dicono gli studiosi americani, abbiamo perso un amico per strada: nel 1985 erano tre i veri amici pro capite su cui contare. Oggi gli intervistati sostengono che sono due, e per il 40 per cento uno dei due è la moglie o il marito. Un dato che Marco Garzonio, psicoanalista, giornalista e scrittore, autore del volume La vita come amicizia, guarda con molto interesse. «L’amicizia tra i coniugi è una delle cose più difficili, perché oggi non è minimamente presa in considerazione. In una coppia, soprattutto nella fase feconda della vita, ci sono aspetti erotici e procreativi che però, da soli, non possono riempire una vita intera». Ai coniugi è richiesta una solidarietà e una consonanza su valori e stili di vita, uno scambio di sentimenti che consente, anche con il procedere degli anni, mutate le condizioni fisiche e di desiderio, di mantenere vivo il rapporto. In questo senso Garzonio parla di «dilezione tra i coniugi, come amicizia che ha delle connotazioni specifiche e va coltivata in modo speciale, senza aspettare di essere avanti negli anni». Infatti, suggerisce lo studioso, quando cominciano a fare capolino i capelli bianchi il rischio è che dell’esperienza matrimoniale si finisca con il dire: «È tutto qui?». E si tentino altre avventure. «Oggi verifico che sempre più spesso, anche dopo 25-30 anni di matrimonio, un lui sessantenne si sente ancora un uomo vigoroso, magari anche grazie a qualche aiuto farmacologico, e inizia altre storie. Insomma, se nella coppia non si è creato un tessuto di amicizia possono verificarsi separazioni impensabili anni fa».
L’avventura dell’incontro con l’altro inizia da un bisogno ben preciso.
«Cerchiamo l’amicizia nel momento in cui cominciamo a guardarci dentro, a capire che la relazione con l’altro diventa indispensabile per la nostra stessa vita. Ma l’altro lo incontriamo prima di tutto nei nostri vissuti, nei sentimenti e nei conflitti, in ciò che agita il nostro animo. Questa prima dimensione ci fa scoprire l’altro come “altro” da noi, possibilità “altra” della vita, del mondo, della trascendenza stessa». Una dimensione che ci chiede di entrare in uno stato psichico ben preciso: «Essere disponibili ad ascoltare noi stessi e gli altri. Creare un minimo di distanza rispetto ai bisogni concreti, una disponibilità interna che non si aspetta un ritorno».
Partendo dunque da questa premessa cerchiamo di capire come procede l’amicizia nelle diverse fasi della vita, a cominciare proprio dai primi passi.

Le età dell’amicizia

«Per i bambini va detto che oggi le mutate condizioni di vita hanno anticipato i tempi – sostiene Garzonio –. Prima si pensava che l’amicizia incominciasse con l’età della scuola materna, tra i tre e i quattro anni. Oggi si va al nido in genere a 18 mesi. Le occasioni di socializzazione aumentano e il bambino ha più possibilità di sviluppare relazioni in maniera precoce rispetto al passato». Si tratta di dinamiche che vanno assecondate, che serviranno al piccolo negli anni immediatamente successivi, quando, a livello di competizione, farà i conti con il primo vero banco di prova che è la scuola elementare: «Aver già sperimentato una qualche forma di amicizia, la possibilità di creare rapporti che non sono soltanto di competizione è un’esperienza preziosa per calarsi nella realtà della scuola in maniera più consapevole».
Il passaggio all’adolescenza segna la fase degli «amici per la pelle». E nasce la prima grande distinzione tra maschi e femmine. Le ragazze maturano prima, si creano amicizie femminili molto forti e l’amica del cuore diventa colei con la quale condividere tutto, dalla crescita corporea alle prime esperienze sentimentali. «Queste occasioni da un lato sono una grossa risorsa, ma dall’altro sono sintomo di insicurezza, fragilità, chiusura, per cui molte ragazze trasferiscono in questo rapporto delle complicazioni psicologiche che a volte non le fanno crescere correttamente». Dal canto loro i ragazzi, che hanno una maturazione fisica e psichica successiva, ricevono un’educazione che volutamente tralascia l’aspetto affettivo sentimentale («parlare di sentimenti non è roba da uomini») per cui gli «amici per la pelle» esprimono grande solidarietà reciproca, giocano a conquistare le ragazze, ma guai a parlare del loro mondo interiore. «Non è solo la paura dell’omosessualità, ma prima di tutto è il timore di non mostrarsi forte, virile, di non essere in grado di affrontare la vita: tanto bullismo, da parte dei maschi sulle femmine, nasce da un’incapacità a vivere l’affettività, il sentimento». Ignorare che delicatezza, trepidazione, rispetto sono componenti anche dell’affettività maschile, considerarle a torto qualcosa da «femminucce» finisce con il trasmettere un modello amputato di persona. «Nessuno ha mai detto che il maschio debba essere un soggetto violento, aggressivo, piuttosto deve imparare anche lui cosa vuol dire la tenerezza, lo stare insieme senza bisogno di dimostrare che sei qualcuno o qualcosa».


L’amicizia s’impara in famiglia

Restando all’ambito familiare è interessante notare come la categoria dell’amicizia, almeno fino a qualche anno fa, abbia segnato anche i rapporti genitori-figli.
«È stata la cultura del ’68 a dire che bisognava essere amici dei figli, lasciarli fare. Certo, bisognava riparare a un tempo in cui si dava del “voi” ai genitori, ma d’altra parte la crescita di un ragazzo ha bisogno anche di paletti. Il problema educativo oggi è difficilissimo: da un lato si deve fare in modo che i ragazzi si sentano liberi di fare le loro esperienze, ma è altrettanto vero che loro stessi ti chiedono una guida, un solco, un qualcosa che non li faccia sentire abbandonati. Il confine tra la libertà e il deserto è molto labile. In quell’età in cui si apprende a camminare nella vita si ha bisogno di avere dei riferimenti: per contestarli, per dire che sono oppressivi, come vuole la normale dialettica generazionale. L’amicizia intesa come accondiscendenza piena e totale fa crescere dei piccoli selvaggi, non delle persone adulte e mature».
Coniugi, bambini, adolescenti, genitori e figli… L’amicizia, chiude Garzonio citando Hannah Arendt, è un fatto politico: «Rischiamo di vederla legata al nostro quotidiano, alla sfera privata e invece, proprio per la sua capacità di stabilire relazione, di creare ponti, è un fatto politico, che consente una gestione buona della società, della polis intesa come cittadinanza».


Zoom. I tre ingredienti dell’amicizia

La ricerca voluta da «Telefono amico» assegna a Milano il non invidiabile primato di «città della solitudine». nel capoluogo lombardo infatti risiede la maggior parte degli italiani – circa 3,9 milioni – che alla domanda «quando ti senti solo?» risponde «spesso o sempre». I dati, rilevati da Astra ricerche, delineano l’identikit dell’italiano senza amici come single, ultra54enne, con basso reddito, scarsa istruzione, residente in una grande città. Il 70 per cento degli intervistati dichiara di non avere nessuno con cui confidarsi, il 63 per cento di conoscere tanta gente ma di non avere nessun vero amico. Un’altra indagine, realizzata da Eurispes, dice che il 74 per cento dei giovani tra i 12 e i 19 anni trova un’amicizia in rete, mentre l’associazione «Save the children» aggiunge che, nella stessa fascia di età, il 95 per cento dei ragazzi usa internet e il 73 per cento almeno una volta è entrato in una community, un programma di instant messaging o in un social network alla ricerca di un amico virtuale. Insomma adulti che si sentono soli e giovani che navigano in cerca di amici.
«Internet ha creato grandi opportunità per entrare in relazione con gli altri», sostiene Italia Valle dell’associazione PRH (Personalità e relazioni umane). Eppure bisogna andare con i piedi di piombo: «In rete si dicono tante cose, ma senza guardarsi negli occhi: insomma posso non restare aderente a me stessa nella verità e può venirmi il dubbio che anche l’altro lo faccia. Senza un incontro diretto che mi permetta di fare i conti con l’immagine virtuale che di lui mi sono creata, è difficile realizzare un rapporto d’amicizia».
Perché, sostiene la studiosa, la relazione di amicizia richiede fondamentalmente tre cose: comunicazione di sé, reciprocità, impegno nel vivere e nel trasmettere dei valori.

In primo luogo si tratta di conoscere se stessi per poter comunicare qualcosa all’altro. «Occorre fare i conti con le conseguenze delle ferite passate, guarirne senza restare vittima e aderire alla realtà dell’oggi». È questo l’asse su cui si basa il metodo della scuola PRH, fondata da don André Rochais nel 1971: «Raggiungere in ogni uomo i suoi giacimenti di potenzialità e creatività e portare alla luce tutte quelle ricchezze d’essere sulle quali dormiva senza saperlo», diceva il sacerdote francese morto nel 1990. Se la prima cosa è conoscere me stesso e avere voglia di comunicarmi all’altro, il secondo passo è la reciprocità: «Se non mi conosco finisco o con l’aggrapparmi all’altro perché mi aiuti, mi consigli o, all’inverso, per aiutarlo senza però comunicare nulla di me stesso. Questi sono rapporti di aiuto, non di amicizia, la quale invece è una relazione tra due protagonisti, alla pari, che richiede impegno e ha bisogno di essere coltivata, attraverso una comunicazione di ciò che vivo, non solo di ciò che faccio», spiega Valle.Infine, terzo ingrediente per una vera amicizia, la condivisione di alcuni valori: «Non si tratta tanto di votare lo stesso partito o di appartenere alla stessa Chiesa, ma occorre che i valori di base siano affini, anche se si esprimono in modi diversi». Date queste tre coordinate la dottoressa Valle sostiene che i veri amici non possono essere tanti. E quando rapporti collaudati «per la pelle» che sembravano a prova di bomba finiscono male, vuol dire che ci si trovava di fronte a qualcosa d’altro. Insomma, le relazioni occasionali, legate a un bisogno del momento, passano, gli amici, quelli veri, restano.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017