L’albero sdraiato

Apparve all’improvviso una pianta cresciuta in orizzontale, simbolo di fede e di speranza nelle avverse condizioni. E mi sovvenne il noce di Antonio...
19 Luglio 2019 | di

Glendale, California, metà di marzo.

Siamo un po’ stanche, dopo un giorno pieno di incontri e di discorsi, e stiamo discutendo nervosamente di cose inutili. Parliamo forte, un po’ tutte insieme. Finalmente montiamo in macchina e torniamo verso la casa di mia cugina a La Crescenta, nella sera incombente. Il cielo è luminoso, come fosse dipinto a strati brillanti di colori sovrapposti; l’aria è fresca e pungente, come spesso accade, e dalla valle si alzano lievi nebbie: non bisogna mai dimenticare che qui siamo vicini all’oceano.

Da entrambi i lati della strada incombono le alte colline. Con le loro cime arrotondate e oscure, sembrano circondarci con una protezione materna, un mondo soffice e tenero in cui ci si potrebbe perdere, se non sembrassero così buie, così distanti. Mia cugina Rita, bionda amazzone armena e cipriota, guida con veloce perizia: è la strada di casa, potrebbe percorrerla a occhi chiusi.

Ma ecco, improvvisamente, qualche cosa di strano colpisce gli occhi dell’amica che viaggia con noi, laggiù nel bosco, verso sinistra. Siamo alla fine dell’inverno, non ci sono ancora le foglie, e i rami degli alberi si alzano nudi verso il cielo. Ci chiede di fermarci, vuole osservare bene quello che ha intravisto, anche se a noi sembra un capriccio un po’ infantile: le pare che ci sia un albero «sdraiato», che non è però un tronco caduto, ma un albero vero, vivo.

Brontolando tuttavia un poco in cuor suo, Rita ferma la macchina. Ed è vero, in mezzo agli alti fusti che si intrecciano tra loro, orientati nella giusta direzione verso la luce, ce n’è uno appena sollevato da terra, forse cinquanta centimetri, che è cresciuto e si è ingrossato in una scomoda posizione orizzontale, percorrendo così parecchi metri, per innalzarsi verso l’alto soltanto alla fine con pochi vittoriosi – ma ancora fragili – rami.

Siamo tutte eccitate da questo curioso fenomeno, sicché finiamo per scendere dalla macchina per fare qualche fotografia. Intanto il buio è calato, e nell’ombra che cresce gli alberi assumono forme strane. La nebbia si è infittita, e il groviglio che si intreccia sulla nostra testa fa venire in mente le antiche foreste delle fiabe. Fa freddo, quel freddo pungente della sera californiana, e abbiamo fame. Ma a me torna invece alla memoria, come in un lampo improvviso, Antonio che predica ai padovani dall’albero di Camposampiero.

L’abbiamo sempre immaginato seduto in alto, su una biforcazione del famoso noce del conte Tiso; ma in quella sera di marzo mi sembrò più giusto, più naturale rappresentarmelo seduto su quel basso tronco orizzontale, circondato dalla sua gente, mentre predicava con la sua proverbiale efficacia attraverso racconti, esempi, parabole. Anche perché quell’albero in sé rappresentava un monito assai persuasivo, un vero e proprio exemplum che un abile predicatore non si sarebbe lasciato sfuggire. Nonostante ricevesse poca luce, quel seme era spuntato dalla terra. E poi aveva perseverato nella speranza, aveva continuato a combattere: la luce era ancora troppo poca per tendere verso l’alto, ma lui era andato avanti lo stesso, sviluppandosi rasente al terreno, conquistando con inesausta vitalità un centimetro dopo l’altro, costruendosi una forma diversa ma comunque viva, e perfino accogliente.

Su quell’albero, infatti, ci si poteva comodamente sedere in parecchi. Il viandante stanco là poteva riposare, e Antonio pellegrino del mondo da quel tronco ospitale davvero avrebbe potuto comunicare con la folla. E se Dio ha creato la diversità innumerevole della famiglia degli esseri viventi, e ognuno ha la sua ragione e il suo scopo, anche l’umile tronco sdraiato nel bosco sulle colline californiane, vicino alla casa della cugina Rita, quella sera servì meravigliosamente, e con la sua sola presenza ci riportò a pensieri armoniosi.

 

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Data di aggiornamento: 19 Luglio 2019
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