L'Africa si può salvare?

Continente ricco di storia e di risorse, ha bisogno di un grande progetto mondiale che lo metta in carreggiata. Tony Blair l'ha lanciato. Utopia?
04 Luglio 2005 | di

Sulla stampa nostrana è sempre più opprimente la litania dei mali che affliggono l'Africa, determinando peraltro un pregiudizio che oggi sembra più che mai consolidarsi: la presunta inferiorità  africana. È opinione diffusa che prima dell'arrivo dei colonizzatori europei, il continente fosse una sconfinata distesa di terre popolate da miriadi di gruppi etnici litigiosi e incapaci di adottare le più elementari forme di organizzazione politica.
Si tratta di un falso storico. Ci si dimentica che in Africa, a differenza di quanto avvenne nelle Americhe, la potenza degli stati autoctoni fu tale da scoraggiare sino all'epoca della rivoluzione industriale, all'incirca il XIX secolo, qualsiasi conquista su scala continentale.
Contrariamente a quanto si pensa, gli insediamenti portoghesi lungo le coste africane non furono che un primo tentativo di penetrazione; la colonizzazione vera e propria si avrà  solo nell'Ottocento, grazie anche alle spedizioni di innumerevoli esploratori e missionari europei. A ciò si aggiunga che i sovrani africani dai quali i negrieri acquistarono la merce umana, a partire dalla fine del Quattrocento, governavano imperi più vasti di qualsiasi moderna nazione europea. Sta di fatto che, ahimé, la storia africana precoloniale non è mai entrata nei testi scolastici occidentali.
Per esempio, chi ha mai studiato a scuola le vicende del grande Regno del Ghana (od Ougadou), abitato dal popolo soninke, che raggiunse il massimo dell'espansione nell'XI secolo? Si trattava di uno stato ricco e fiorente che si estendeva a nord del fiume Niger e comprendeva buona parte della Mauritania sudorientale e del settore occidentale del Mali. O chi ha sentito parlare di Sundjata Keita, mitico eroe del popolo malinke? Eppure, attorno alla metà  del XIII secolo fondò il Regno del Mali che copriva un'area geografica vastissima, dalle coste atlantiche del Senegal e della Sierra Leone alla città  di Gao, sulle rive della grande ansa del fiume Niger.
Così a molti è sconosciuta la storia dell'impero songhai, un popolo che viveva lungo le sponde del medio Niger. Alla fine del XV secolo esso divenne il più grande stato dell'Africa precoloniale. Secondo gli storici era diviso in province rette da governatori di nomina imperiale, alle cui dipendenze vi erano pubblici funzionari incaricati della pianificazione economica del territorio, della gestione delle entrate e della giustizia.
La sicurezza delle vie commerciali era affidata a due forze armate, esercito e marina, composte prevalentemente da regolari. Più tardi, alla fine del Seicento, si impose il potente stato degli ashanti sotto la guida carismatica di Osei Tutu: questo regno estese il suo controllo lungo tutte le coste degli odierni stati del Ghana e della Costa d'Avorio. Quello degli ashanti fu certamente il più potente degli stati che si svilupparono tra la fine del Quattrocento e l'Ottocento sulla dorsale atlantica, dalla foce del Senegal sino ai confini occidentali del Camerun. Questi governi autoctoni si consolidarono fortemente con l'intensificarsi degli scambi commerciali con l'Europa; naturalmente, gli schiavi erano la merce più pregiata.
L'ultimo dei grandi regni della costa fu quello del Benin, che raggiunse il periodo di massimo splendore a cavallo tra il XV e il XVII secolo. Retto da integerrimi sovrani (Oba), questo stato, a forte impronta legalista, sorgeva a ridosso del vasto delta del Niger e si estendeva su un'area di densa foresta tropicale di circa 300 mila chilometri quadrati. Tra l'eredita che ha lasciato al mondo vi sono preziosissime opere d'arte.

Schiavismo, una vergogna per tutti

Ho ritenuto opportuno proporre questo breve e approssimativo excursus storico per suggerire alcune riflessioni. Anzitutto va riconosciuta la dignità  degli antichi stati africani, espressione di un potere politico e culturale ben più vasto e articolato di quanto superficialmente si possa immaginare. A esercitare il potere erano classi egemoni, a volte dinastie, che avevano ai loro ordini un apparato militare e uno burocratico capace di riscuotere e amministrare le imposte dei sudditi. È vero che l'organizzazione politica dei regni non si estese in modo uniforme su tutto il continente, vista anche la moltitudine di «Stati senza Stato», cioè piccoli gruppi tribali di agricoltori senza norme statuarie. Ma è anche vero che si consolidò gradualmente un rapporto tra Africa ed Europa dovuto ai crescenti scambi commerciali.
Merce di scambio privilegiata era il prezioso legno d'ebano, così venivano chiamati in codice gli schiavi, unitamente alle armi da fuoco che giocarono un ruolo di primo piano, come oggi d'altronde, per la conquista e il controllo del potere. Prima dell'epopea coloniale ottocentesca, sui 30 milioni 258 mila 10 chilometri quadrati del continente africano non regnava l'anarchia; nel bene e nel male vi furono forme di governo, anche dispotiche, su tutto il territorio. È vero che le classi dirigenti locali legittimarono di fatto lo schiavismo, sacrificarono la propria gente e per trarne profitti iniqui.
Lo schiavismo fu una vergogna per tutti: per i mercanti europei, i negrieri, che comprarono senza scrupoli la merce umana e per i capi africani, che barattarono milioni di giovani con rhum, acquavite, polvere da sparo e fucili. Ma queste élite pagarono esse stesse un prezzo altissimo poiché furono schiacciate a una a una dalle potenze coloniali: l'ultimo sovrano degli ashanti si arrese nel 1896 a un corpo di spedizione venuto dal mare per fare del suo regno una colonia della Corona britannica.

La ricetta di Tony Blair

Sarà  stato per eccesso di colonialismo o chissà  per quale altra velleità , ma un giorno, tornando da un suo viaggio in terra africana, Harold Macmillan definì il continente come una sorta d'«ippopotamo galleggiante nelle paludi». A quel tempo, nel 1960, il primo ministro della Corona di Sua Maestà  ebbe la brillante idea di tornare in patria dal Sudafrica a bordo di un piroscafo che impiegò ben dieci giorni di navigazione prima di avvistare le bianche scogliere di Dover. Gli anni che seguirono crearono non pochi grattacapi agli inquilini del «Numero 10 di Downing Street».
Harold Wilson, ad esempio, fu costretto a fare i conti a malincuore con la dichiarazione unilaterale d'indipendenza della Rhodesia bianca (oggi Zimbabwe), mentre James Callaghan dovette confrontarsi con la pulizia etnica contro gli asiatici, attuata dal folle presidente Idi Amin Dada. A differenza dei suoi predecessori, l'attuale premier britannico, Tony Blair, ha invece un debole per l'Africa e la sua politica diverge sensibilmente sia da quella dei laburisti vecchio stile, sia da quella dei conservatori. D'altronde, va considerato che nel suo Paese, per religione, filantropia e passioni coloniali depurate, un numero consistente di cittadini inglesi contribuisce economicamente, nell'ordine delle centinaia di milioni di sterline, alle grandi Organizzazioni non governative del calibro di Oxfam e Save The Children.
Rispondendo ai maligni, che gli consigliano caldamente di occuparsi delle faccende nazionali, Blair ha risposto dicendo che l'Africa è una cicatrice sulla coscienza del mondo, stigmatizzando le miserie che affliggono il Continente. Ma non è tutto qui: leggendo i suoi discorsi pubblici, anche recenti, questa consapevolezza è sempre stata associata alla convinzione che l'Africa, nel bene e nel male, rappresenti una grande opportunità , soprattutto economica.
Per questa ragione, lo scorso anno, istituì la Commissione per l'Africa affidandole il compito di elaborare un piano di rilancio globale del Continente. Il punto di partenza del rapporto è incentrato sulla povertà  e, soprattutto, sullo stato di stagnazione economica in cui versa l'intero Continente. L'intento è quello di dimostrare, attraverso un'attenta analisi, che esiste una ricetta: una politica riabilitativa capace di generare tassi di crescita economica fino al 7 per cento mettendo l'Africa in carreggiata per conseguire gli obiettivi per lo sviluppo del 2015, nell'ambito dei Goals del Millennio fissati dalla comunità  internazionale nel 2000.
Di fronte a questo scenario, il rapporto stigmatizza le responsabilità  della comunità  internazionale che può e deve offrire maggiori risorse al Continente africano. La Commissione chiede pertanto il raddoppio degli aiuti, la cancellazione del 100 per cento del debito per i Paesi che ne hanno bisogno e l'abolizione del protezionismo dei Paesi ricchi nel settore agricolo. Questo, assieme alla crescita che migliorerà  la capacità  produttiva dell'Africa, agevolerebbe l'attività  commerciale africana in un sistema internazionale più equo.
Servono dunque investimenti per colmare l'abisso che separa l'Africa dai Paesi industrializzati e il cancelliere dello scacchiere Gordon Brown ha indicato una via percorribile mediante l'International Finance Facility, una struttura finanziaria internazionale, autorizzata a piazzare obbligazioni sui mercati finanziari internazionali.
Al governo Blair, fautore di questa politica, è stato obiettato da più parti che qualcuno i debiti li deve comunque pagare. E il cancelliere ha prontamente replicato che Londra è disponibile a pagare il 10 per cento dell'ammontare del debito dei 42 Paesi più poveri. Ma ha anche chiesto al Fondo monetario internazionale di vendere una parte delle sue ingenti riserve auree per riequilibrare i conti.
Tornando al rapporto sull'Africa, la commissione ha il merito di aver colto l'importanza della questione sociale, istruzione e sanità  in testa, come essenziale per la realizzazione del diritto di cittadinanza. Viene spontaneo chiedersi se la via africana di Blair sia davvero praticabile dal punto di vista attuativo. Varie sfide si profilano all'orizzonte, la prima delle quali consiste nel riconciliare la politica degli investimenti stranieri con gli interessi della gente comune, soprattutto se per investimenti s'intende privatizzare beni essenziali come l'acqua. Il rischio della svendita a compagnie straniere delle immense ricchezze dell'Africa, come finora è capitato in molti Paesi africani, è praticamente scontato e di questo passo gli africani rischiano di dover pagare anche l'aria che respirano.
Altra questione cruciale è quella del debito. Se, infatti, è vero che alcuni governi occidentali hanno concluso accordi sulla remissione del debito con non pochi Paesi africani, non va dimenticato che banche e privati in genere non hanno mai fatto sconti all'Africa. Come ben evidenziato nell'ultimo rapporto 2004 dell'Unctad, l'agenzia delle Nazioni Unite preposta allo studio dello sviluppo e del commercio, sono molti di più i soldi che l'Africa restituisce regolarmente al Nord del Mondo che quelli elargiti dai Paesi ricchi. E questo perché i governi africani sono strangolati dagli interessi imposti dall'alta finanza, poco importa che si tratti d'istituti di credito internazionali o quant'altro. Concludendo su Blair, non v'è dubbio che alla commissione voluta dal premier inglese deve essere riconosciuto il merito di aver denunciato non poche ingiustizie ad intra e ad extra perpetrate ai danni del Continente.
Ciò non toglie che per passare dalle parole ai fatti sarà  necessaria una vera conversione, rispetto alla cinica real politik di governi, proprio come quello di Londra, che continuano a proteggere i loro paladini in terra africana. Un esempio emblematico è il presidente ugandese Yoweri Museveni, al potere dal gennaio del 1986, con il quale Londra intrattiene ottime relazioni nonostante l'agenda dei diritti umani sia l'ultima delle preoccupazioni delle autorità  di Kampala. Per non parlare delle tante guerre africane, a cui abbiamo già  accennato, che sotto la copertura dello scontro interetnico celano gli interessi di politici corrotti al soldo di poteri occulti legati, guarda caso, all'alta finanza mondiale.
Ma al di là  di tutte le considerazioni fin qui esposte, dal punto di vista economico, vi è un dato di fatto che non può essere sottaciuto e che cioè l'Africa galleggia sul petrolio. Nonostante la grande stampa, anche in tempi recenti, sia sempre concentrata sulle vicende mediorientali, il continente nero sta sempre più diventando per gli Stati Uniti una priorità  geopolitica.
Nei prossimi dieci anni, secondo gli esperti dell'amministrazione di Gorge W. Bush, le importazioni americane di petrolio e gas naturale dalla sola Africa Occidentale dovrebbero salire dall'attuale 15 per cento al 25 per. Le riserve terrestri e offshore di Paesi come Angola, Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Nigeria, e Sà£o Tomé e Principe sono immense e rappresentano un grosso business sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
Si tratta di giacimenti parzialmente sfruttati, il cui greggio è considerato, nel gergo tecnico, light (leggero), cioè a basso tenore di zolfo; proprio la qualità  di cui vanno ghiotte le raffinerie occidentali per produrre carburanti che rispettino le normative ambientali. Inoltre, nel vastissimo Golfo di Guinea, sono state anche localizzate riserve strategiche del sempre più richiesto gas naturale. Senza contare il fatto che per gli Stati Uniti, primi importatori mondiali di petrolio, l'Africa è geograficamente molto più vicina rispetto all'incandescente area del Golfo Arabico. Gli investimenti statunitensi nel continente africano sono incoraggiati, oltre che dalla scoperta di grandi riserve economicamente sfruttabili, anche dall'andamento al rialzo del prezzo del petrolio, dalla previsione di una forte crescita della domanda di energia a livello mondiale e dal costante sfruttamento dei tradizionali bacini offshore del Golfo del Messico e del Mare del Nord.

Il leopardo e la tartaruga

In una bellissima fiaba tratta dal romanzo Viandanti della storia di Chinua Achebe, uno dei maggiori romanzieri africani, viene riportato il colloquio tra un leopardo e una tartaruga in articulo mortis . Quest'ultima, chiese un favore prima di morire: «Un minuto per preparare il suo animo»; il leopardo, che da tempo cercava di catturare la preda, non trovò alcunché di male nel soddisfare la richiesta della sua vittima. «Ma invece di restare immobile come il leopardo si aspettava, la tartaruga cominciò a fare strani movimenti frenetici sulla strada, grattando con le mani e con i piedi e gettando sabbia in tutte le direzioni. Perché fai cosi? chiese il leopardo perplesso. La tartaruga rispose: Perché vorrei che dopo la mia morte tutti quelli che passano di qui dicessero 'sì, qui qualcuno ha lottato contro un suo pari'. Ecco gente questo è quanto stiamo facendo noi. Stiamo lottando. Forse per nessun altro fine se non che quanti verranno dopo di noi possano dire: È vero i nostri padri furono sconfitti, ma almeno ci provarono».
I protagonisti di Viandanti della storia , Chris e Ikem muoiono opponendosi ad un regime militare che determina confusione, pessimismo e sopraffazione. Il romanzo, finemente politico, di Achebe, fa una dura analisi della Nigeria in un periodo della storia successivo al grande slancio nazionalistico che l'aveva portata all'indipendenza. Chris e Ikem sono degli eroi destinati a morire, ma che cercano lo stesso di lasciare un segno della propria lotta nel nome della libertà  e della giustizia.
In un mondo come il nostro, dove l'idealità  sembra essere scavalcata da un pragmatismo esacerbante, sradicato dai valori, il tentativo di Achebe è quello di riflettere sugli interrogativi più tormentosi che assillano la società . Anche la letteratura africana può aiutarci a comprendere il vissuto di popoli anni luce distanti dal nostro modo di vivere, ma paradossalmente vicini nel villaggio globale. Forse la differenza tra noi e loro risiede nella consapevolezza: loro di morire da tartarughe, mentre noi ignoriamo un simile destino costretti, però, a vivere come se niente fosse. Ciò non toglie che, in questo pazzo, pazzo mondo, tutti abbiamo una grande responsabilità , quella di consegnare ai posteri il proprio impegno per un mondo migliore.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017