La vertigine di San Romedio

Nei boschi del Trentino sono incastonati il paese di Sanzeno e il santuario di San Romedio, dove ancora i pellegrini respirano il profumo dell’esperienza eremitica.
22 Febbraio 2008 | di

Una stretta imboccatura introduce alla valle, che si apre poi in un vasto altopiano, ricco di paesi mollemente adagiati lungo la cornice del lago di Santa Giustina e del fiume Noce: è la Val di Non.
Sono venuta qui per visitare il santuario di San Romedio, conosciuto anche per la presenza di alcuni orsi. Questa valle sin dal Medioevo fu un centro di evangelizzazione cristiana. Percorrendola non si può non notare che accanto a ogni castello fortificato sorge una chiesa. Risalgo la valle e mi fermo a Sanzeno, uno degli insediamenti più antichi, per visitare la Parrocchiale dedicata ai martiri Sisinio, Martirio e Alessandro, che nel 397 furono inviati tra queste montagne da sant’Ambrogio di Milano e san Vigilio di Trento a evangelizzare gli Anauni.

La strada principale del paese sfocia nella piazza, dove una bella fontana in pietra guarda uno dei palazzi più significativi, la casa dei Gentili, sede, durante l’estate, di importanti mostre. Tenendo la destra della piazza scelgo un sentiero che si inerpica tra le case, per poi inoltrarsi in una valle scavata dal torrente, che resta alla mia destra. Il silenzio del fitto bosco, rotto solo dal rumore dell’acqua che scorre verso il piano, crea un’atmosfera singolare.
Dopo alcuni chilometri si sbuca su una piazzola: per chi è arrivato in auto è l’ultimo posto dove lasciare il mezzo. Da qui si deve proseguire a piedi, oppure prendere l’autobus che fa servizio per i turisti. Il santuario è sopra di noi, su uno spuntone di roccia alto un centinaio di metri. Durante la salita si ha l’impressione che sia sospeso tra cielo e terra tanto è scoscesa e senza base distinguibile la parete. La particolare architettura del sovrapporsi di varie costruzioni rende questo posto incantato.


L’eremo di Romedio e la sua storia

Si giunge finalmente a una piazzola bianca, al termine della salita: un grande arco sulla destra dà accesso al santuario. Centotrentuno gradini conducono in una ripida scalinata alle varie chiese e cappelle, la più antica delle quali, sorta intorno alle spoglie dell’eremita Romedio, risale all’anno mille.

Mentre percorro i gradini leggo sulla guida alcune notizie su san Romedio, discendente di una ricca famiglia della nobiltà bavarese-tirolese, signore del castello di Thaur, vicino a Innsbruck, che da qui non è molto distante. Un pellegrinaggio a Roma gli cambia l’esistenza: dona tutti i suoi averi e decide di ritirarsi penitente.

Si reca in un luogo isolato, vive immerso nella preghiera e nella natura presso la grotta dove ora sorge il santuario.

Attorno a Romedio nascono due leggende, che si riferiscono entrambe all’ultimo periodo della vita dell’eremita. La prima narra della volontà del monaco di fare un viaggio a Trento, per un ultimo saluto all’amico vescovo Vigilio. Chiede quindi di sellare il cavallo a un suo discepolo, ma questi torna pieno di terrore, perché un orso sta sbranando l’animale. L’eremita, tranquillo, gli dice allora di mettere le briglie all’orso. Il discepolo si fida e l’orso si lascia sellare e imbrigliare: in tal modo il viaggio può compiersi.
La seconda leggenda è il prosieguo della storia: Romedio, incontrando Vigilio, gli preannuncia che da lì a poco sarebbe morto, e che l’amico ne sarebbe stato avvertito dal suono della campanella del duomo di Trento. Così avviene: il vescovo e tutta la città si raccolgono allora in preghiera, per celebrare la morte del santo eremita.

Da una cappella all’altra, da una chiesa all’altra arrivo nel-l’ultima stanza, la più angusta del santuario.

Uno stretto passaggio permette di raggiungerla, e qui, sporgendomi da una piccola finestra, guardo verso il dirupo che si apre in basso. Una vertigine di solitudine, di pace e libertà pare pervadermi. Solo il vento e l’odore dei pini mi fanno compagnia.
È un attimo: subito dopo il pensiero corre ai poveri orsi, che vivono in un recinto ai piedi del santuario.   


animali

Un amore di gatto trovatello

È un bel pomeriggio pieno di sole. Sto andando a giocare a tennis in una delle rare giornate libere, quando in un angolo noto uno strano tramestio prodotto da due grossi cani. Mi fermo e capisco con chi ce l’hanno: è un piccolo gatto bianco e nero rincantucciato contro un albero, i peli tutti dritti, che sta facendo un’incredibile gobbina. Allontano i cani con un urlo e mi chino a raccogliere il malcapitato, che ritraendosi soffia anche a me. È talmente piccolo che mi sta in una mano. Scopro che ha un occhietto gonfio e quasi del tutto bianco. Il veterinario da cui lo porto mi dice che va subito operato perché l’infezione può pregiudicare la sua stessa vita. Quando torno a prenderlo, il giorno dopo, è bello vispo, l’occhietto è stato tolto e la ferita ben suturata. Ora Raisuri – questo il nome che ho deciso di dargli – corre per casa, urta contro i mobili e le porte, cade, si rialza e continua a giocare; poi d’improvviso si arrampica sulle mie gambe, mi viene in grembo, fa la ciambellina e si addormenta: inutile cercare di fargli cambiare idea. Chi ha in casa un gatto sa bene che è impossibile indirizzarne i desideri: si riesce a coccolarlo solo se anche lui ne ha voglia, altrimenti irrigidisce il corpo e ci respinge con le zampe tese. Se poi insistiamo comincia anche a dibattersi, non con violenza ma certo in modo deciso, fino a quando la libertà non è conquistata. Impossibile dare ordini a un gatto: se lo facciamo ci fissa con le pupille a fessura, tiene la testa reclinata, si rannicchia, ma appena giriamo le spalle schizza via veloce, silenzioso e impertinente. Invece quando decidiamo di lavorare è proprio la volta che inizia a strofinarsi sulle nostre gambe o vicino alle orecchie facendoci le fusa. Anche Raisuri è di questa pasta.

Dopo alcuni giorni di coccole lo mando in giardino: se incontra un altro gatto si gonfia tutto e soffia minaccioso, buscandosi anche qualche zampata. Vedendolo così mortificato dopo uno scontro, mi viene spontaneo raccoglierlo e, come madre amorosa, riportarlo alla calda protezione della casa. So bene che è un errore. Il gattino deve fare le sue esperienze in quello che dovrà essere il suo quotidiano: per poter fare una vita all’aperto, cacciare e conquistare le gattine, Raisuri deve essere allontanato da quel «gatto» così grande e protettivo che è l’uomo. Altrimenti dovrà trascorrere tutta la vita in casa.

Smetto di lavorare. Raisuri mi salta in braccio, si arrampica fino al mio viso, si allunga tutto e strofina ripetutamente il suo musetto sulle mie gote. Sarà dura lasciarlo andare...

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017