La scommessa di Josephine

Ha il corpo in Canada, sua terra d'adozione, ma il cuore è in Pakistan, suo paese d'origine. Josephine Lal Din è la fondatrice di Fatima House, una casa-scuola per i bambini poveri, sorta nel cuore del Pakistan musulmano.
06 Dicembre 2001 | di

«Pronto, Josephine....». La donna che ascolta all`€™altro capo del telefono ci mette qualche secondo a realizzare. Poi risponde: «It`€™s speaking», sono io. Il tono è lento, triste, stanco. Capisce perché la chiamo: «Vuoi sapere del Pakistan?». E anch`€™io capisco: con il corpo è in Canada, sua terra di adozione, con il cuore è in Pakistan, sua terra natale, agitata, divisa da questa strana guerra dell`€™Occidente contro l`€™Afganistan dei talebani, giusto ai confini del suo Paese.

Josephine Lal Din è americana abbastanza per sentire il dolore degli americani ed è pakistana abbastanza per vivere l`€™angoscia dei cattolici pakistani, un pugno di anime, in un Paese al 99 per cento musulmano; un Paese che non accetta l`€™appoggio che il proprio governo sta dando ai raid aerei. Grava sui nostri discorsi il massacro di cattolici nella chiesa di Bahawalpur, il 28 ottobre scorso, e i continui allarmi lanciati dalla chiesa pakistana.

Ha paura, Josephine, si sente. Ma non per sé. Lì, ha tutti i suoi figli, 568 in totale, quelli della Fatima House, la casa-scuola per bambini poveri che lei ha fondato a Sialkot (Nord del Pakistan) nel 1983, accantonando 18 anni di stipendi come insegnante in Canada. Per lei Fatima House non è una semplice scuola è l`€™incarnazione del suo amore per Dio, l`€™esempio della forza della fede quando tutto sembra contro.

Sento la sua tristezza. Non sembra più lei. E la ricordo un anno fa. Piccolina, cinquant`€™anni circa, addosso un shari improbabile a fiorellini minuti, la treccia nera lunga sulle spalle, la pelle ambrata, un inglese accartocciato nei toni asiatici. Spiritosa, piacevolmente eccentrica, una forza della natura. Subito dopo la presentazione mi prega: «Non farmi domande come i giornalisti. Lasciami raccontare. Ho tutto qui», e tocca con la mano destra il punto in cui le batte il cuore. E ride.

Snocciola a cascata il più originale racconto di missione che io abbia mai sentito. Seconda figlia di un catechista cattolico. Cinque fratelli, tra cui due suore. «Io non ho mai avuto quel tipo di vocazione `€“ mi dice in tono più basso, quasi a confidarmi una cosa che non si dovrebbe dire `€“. Ma non mi sono neanche mai sposata. Ambito troppo stretto. Ho bisogno di grandi famiglie, io».

Ha studiato dalle suore, ma una grave malattia l`€™ha costretta a lasciare gli studi. Poteva diventare una delle tante donne semianalfabete di uno dei tanti villaggi sperduti dell`€™entroterra pakistano. «Ma ero un`€™ambiziosa». Si fa prestare i libri dalla sorella, studia da privatista, passa. Rientra a scuola, diventa maestra prima di completare il corso di studi. Da allora insegna e studia da privatista. Inanella tutti i possibili gradi d`€™istruzione: la scuola superiore, l`€™università , il baccellierato, il master. «Sempre mezza maestra e mezza studentessa. Ero una "imparatrice" nata».

Un vulcano che ha al centro il fuoco dello spirito: «Non ero io che agivo. Sentivo che Lui mi aveva affidato una missione». Una sensazione che cova da tempo e che si acuisce quando osserva il lavoro dei padri cappuccini belgi, missionari nella sua parrocchia. «Se degli stranieri potevano fare così tanto per il mio popolo `€“ racconta `€“ perché io pakistana non avrei dovuto fare almeno altrettanto?».

Si trasferisce in Canada. Insegna 18 anni a Mississauga (Ontario): «Ma ogni volta che ritornavo a casa mi era sempre più difficile sopportare la vista dei bambini che rovistavano nella spazzatura, che bevevano dalla pozzanghere, che erano schiavizzati nelle fabbriche, che morivano di fame e di malattie. Dio mi aveva dato occhi per vedere ed io non potevo più ignorare». Ma che cosa può fare? Pregare innanzitutto nel suo modo particolare e schietto: «Tu sei il Signore e puoi tutto, dunque non puoi negarmelo»; così chiede «al suo capo che è nei cieli» di realizzare un sogno ambizioso: combattere la povertà  attraverso l`€™istruzione. In cambio gli offre la vita.

Si licenzia dalla scuola canadese e torna in Pakistan. «Era ora di diventare povera tra i poveri», spiega. Da allora vive di provvidenza. Una scelta non azzardata per chi confida in Dio, assicura lei. Per dimostramelo si alza dalla sedia, stende le braccia vicino ai fianchi, le palme aperte, e passa con lo sguardo il suo shari a fiorellini per tutta la lunghezza del suo corpo: «Vedi, non sono magra, sono vestita, vivo tre mesi in Canada per raccogliere fondi e nove mesi in Pakistan per stare vicino ai bambini. Non ho il lusso ma ho tutto quello che mi serve. Credimi Lui pensa sempre a tutto».

E il sogno si realizza: con i soldi messi via in 18 anni di lavoro e il sostegno del governo belga e di Ong canadesi compra un terreno e costruisce il primo nucleo della Fatima House: quattro aule, due dormitori e i servizi. Nel 1983 accoglie i primi 45 bambini. La sua preferenza va ai cattolici, non per discriminazione religiosa ma perché in uno stato a prevalenza islamica sono loro i più poveri ed emarginati. Ciò non impedisce ad alcuni bambini musulmani, in particolare difficoltà  economiche, di frequentare la scuola. Fatima House non offre solo lezioni ma «amore, soprattutto amore. Un essere umano deve sentirsi amato, accompagnato anche fuori da queste mura». E infatti Fatima House non abbandona i suoi studenti fino a che questi non trovano una sistemazione nella vita. Prima di allora continua ad essere per loro un punto di riferimento, per consigli, medicine, cibo, vestiti, proprio come una vera famiglia.

Josephine ha un occhio di riguardo per le bambine e le ragazze: «In Pakistan non contano nulla. Se mi accorgo che sono brave, faccio di tutto per far loro continuare gli studi fino ai gradi più alti. Che gioia poi ritrovarmele infermiere o professoresse».

Una mole di lavoro e di costi impressionanti: «Ma siamo sempre riusciti a farcela». Anche l`€™ultima volta, quando si è resa conto che Fatima House era troppo piccola rispetto ai bisogni, ha protestato con il suo Signore: «Ora siamo quasi 600 `€“ gli ricordava nelle sue orazioni giornaliere `€“. Usiamo le aule come dormitori per gli orfani o per i bambini lontani da casa. Al mattino è un caos arrotolare le stuoie da notte e cercare di organizzare il lavoro. Facciamo lezione nel porticato o sotto gli alberi. Qui bisogna allargare la casa. Guarda che non puoi negarmelo».

Non glielo ha negato per l`€™ennesima volta. Tramite un missionario italiano, Josephine ha raggiunto la Caritas antoniana e ottenuto subito i finanziamenti. Proprio in questo mese l`€™allargamento della casa sarà  completato. Lo ha detto Josephine nella nostra ultima telefonata, animandosi un poco: «Abbiamo quasi finito, non mi sembra vero. Non avete idea quanto importante è stato per noi il vostro aiuto. È un modo per dare speranza ai bambini. Non bisogna opprimerli con il pensiero di quello che potrebbe accadere».

Ma potrebbe davvero accadere, Josephine? Silenzio. «Sialkot non è lontano né da Islamabad (capitale del Pakistan) né da Kabul (capitale dell`€™Afghanistan) - commenta in un filo di voce `€“; il Kashmir (terra contesa tra India e Pakistan) è a pochi chilometri da noi. Abbiamo avuto delle minacce. Ho detto ai bambini di pregare. Li ho messi tutti nelle mani di Dio». Mi immagino l`€™abbia fatto dicendo: «Guarda che non puoi mica negarmelo!».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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