La ricetta del silenzio

Nella civiltà del rumore, dell’aggressione acustica e della ricerca del silenzio come stile di vita, ritorniamo alla ricetta di Kierkegaard.
20 Aprile 2007 | di

Per magnificare il silenzio servono le parole, e nel nostro dossier ne abbiamo impiegate molte, più o meno tremila, per illustrare e proporre alla considerazione dei lettori questa dimensione trascurata dell’esistenza. Sono convinto, però, che si tratta di parole usate bene, per niente sprecate, non fosse altro perché ci mettono davanti al panorama desolante di una vera e propria aggressione acustica che ci ha abituati e costretti a stressanti rumori di fondo. Su con i decibel, sia che si tratti di musica che ti fa vibrare la pelle, di traffico congestionato nelle ore di punta, di un parlare al telefono gridato e buttato in faccia agli altri, di sfogo sguaiato e caciaroso. Insomma, viviamo assediati da un’orgia di rumori che c’invade, ci trapassa, ci violenta, ci rimbambisce, lasciandoci appesi a un ronzio che non si spegne mai. Tanto che ascoltare il silenzio è diventata una ricerca, un esercizio, un’arte, un privilegio, un’ambita soglia di autoconsapevolezza. Naturalmente per pochi, che a un certo punto hanno detto basta e deciso di andare in controtendenza, con tutte le forze. Sì, lo riconosco, ben poco purtroppo dipende da noi, da te e da me, anche se è vero che da qualche parte bisogna pure cominciare. Meglio dal proprio orto che da quello del vicino, visto che lavorare su se stessi, seriamente, dà risultati migliori di quelli che generalmente si ottengono cercando di convincere qualcuno della bontà di una causa.
Buoni motivi per fare il primo passo alla conquista del silenzio ce ne sono. Non ultimo la ricetta che il filosofo danese Kierkegaard consigliava caldamente ai suoi contemporanei già un po’ guastati – e siamo appena alla prima metà del XIX secolo – dal rumoreggiare dei primi vagiti della civiltà industriale. Ebbene, scriveva il filosofo esistenzialista: «L’odierno stato del mondo, l’intera vita è malata. Se fossi medico e uno mi domandasse un consiglio risponderei: crea il silenzio, porta l’uomo al silenzio». Naturalmente la ricetta funziona se viene capita bene: non si parla certo del silenzio oppositivo, rancoroso, che alza muraglie e sfibra anche i rapporti più consolidati; di questo ce n’è anche troppo in giro, e bisognerebbe piuttosto combatterlo o almeno contribuire a non accrescerlo. Kierkegaard alludeva al silenzio scelto, positivo, ricercato, come a quella dimensione nella quale l’uomo trova ristoro e soprattutto riscopre se stesso, la sua natura più vera. Non senza fatica, aggiungerei, perché l’incontro con il silenzio è anche sempre una lotta di fronte alla quale o si è perennemente fuggitivi o si decide di fare il punto della situazione, di piazzare il baricentro.
C’è però un silenzio speciale e particolarissimo, ed è quello al quale noi cristiani siamo sollecitati leggendo le Scritture. In queste Dio parla all’uomo o, ancora meglio, si autocomunica, e il vertice del desiderio comunicativo di Dio è rappresentato da Gesù di Nazaret. Con lui il silenzio di Dio, o il suo manifestarsi solo parziale, viene a cessare, superato dalla Parola definitiva che porta a compimento molti processi precedenti: «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Ebrei 1,1-2). Se con Gesù Cristo c’è un inizio assoluto che Dio pone nella storia, e ora è lui e lui soltanto che dobbiamo ascoltare, non resta che maturare un ascolto adeguato alla pienezza di quell’evento che a noi tutti è stato destinato. Lo dice bene, in modo evocativo, il cardinal Martini: «Se in principio c’era la Parola e dalla Parola di Dio venuta tra noi è cominciata ad avverarsi la nostra redenzione, è chiaro che, da parte nostra, all’inizio della storia personale di salvezza ci deve essere il silenzio».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017