Per la pace contro ogni dittatura

Non ci si deve fermare di fronte agli attacchi del terrorismo, né davanti alle minacce che si levano all’orizzonte. Non bisogna rassegnarsi quasi che la guerra sia inevitabile.
01 Marzo 2003 | di

Sono ormai mesi che viviamo nel dilemma, guerra sì, guerra no. Il «bombardamento» di informazioni e di opinioni è stato quanto mai intenso. Senza esclusione di colpi, tanto per restare in tema. Non mi meraviglierei se qualcuno dicesse, basta! ora anche il «Messaggero» sale sull`€™affollato palco per dire la sua. In effetti, avrei preferito parlare di altro. Gli argomenti certo non mancano. Ma si può essere assenti in un momento come questo che stiamo vivendo, parlando di altro? Dobbiamo esprimere la nostra posizione in fatti che saranno ricordati dalla storia, per non dover poi amaramente dire: noi non c`€™eravamo! Non è in gioco il rispetto dei pareri personali: è piuttosto una questione etica e storica.

Mi scorrono nella memoria gli avvenimenti di questi giorni, gli ultimi soprattutto. Una diplomazia frenetica. I contrasti, al limite della spaccatura: della Nato e dell`€™Unione europea con visioni e proposte diverse. La visita del vice di Saddam Hussein, Tareq Aziz, dal Papa e poi in quel luogo disarmato, diventato per tutti il simbolo della ricerca della pace e della concordia, che è Assisi. E poi la marcia della pace in molte città  e capitali del mondo, con cento milioni di partecipanti.
Infine, l`€™invio a Baghdad del cardinale Roger Etchagaray, l`€™uomo delle missioni impossibili di cui si serve il Papa. All`€™orizzonte della sua politica il testo del vangelo di Luca «nulla è impossibile a Dio». Concetti e parole un po`€™ diversi dalle alchimie del politichese, che continuano incessanti ad assordarci. Anche san Francesco viene a più riprese ricordato per l`€™«ingenuità » con cui ha affrontato il complesso conflitto delle crociate. E, otto secoli dopo, all`€™inviato di Hussein è stato mostrato il corno d`€™avorio che egli avrebbe ricevuto in dono dal califfo d`€™Egitto al quale s`€™era recato a far visita.
Nell`€™editoriale di gennaio parlavo del coraggio di sperare nella pace. Recentemente al convegno «Il vangelo della pace» organizzato per i trentacinque anni della Comunità  di Sant`€™Egidio, Giovanni Paolo II diceva che «occorre moltiplicare gli sforzi. Non ci si deve fermare di fronte agli attacchi del terrorismo, né davanti alle minacce che si levano all`€™orizzonte. Non bisogna rassegnarsi quasi che la guerra sia inevitabile».

Non vogliamo nasconderci dietro parole d`€™obbligo, schieramenti dovuti, né sentiamo di appartenere al popolo dei «né-né» (né con questi né con quelli) recentemente coniato da un noto giornalista. Il terrorismo è un problema vero e grave. Va affrontato con l`€™impiego di tutte le forze di intelligence, di raccordo tra servizi segreti. Ma siamo convinti che la migliore arma per vincerlo sia ancora quella di creare condizioni di giustizia, le sole in grado di eliminare le radici del terrore. Restiamo convinti che, per quanto politicamente sfiatato, tuttavia non si è esaurito il ruolo dell`€™Onu nel suo rappresentare (bene o male) il «villaggio globale». Ancora: l`€™invocata teoria della guerra preventiva non rischia di essere ambiguamente utilizzato da qualsiasi altro Paese? Non siamo certo contro gli Usa. Quanto hanno fatto per l`€™Europa durante e dopo la seconda guerra mondiale non può essere dimenticato. Come non possiamo cancellare in noi le immagini dell`€™11 settembre. A questo grande e generoso Paese chiediamo, ancora una volta, il coraggio di una nuova frontiera capace di offrire orizzonti diversi nella costruzione della civiltà  e dei rapporti tra i popoli. Facciamo che inevitabile sia la pace e non la guerra.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017