La memoria oltre il dolore

L’11 marzo si celebra la Giornata europea in ricordo delle vittime del terrorismo. Trent’anni dopo la fine di una delle pagine più buie della nostra democrazia, abbiamo ascoltato le storie dei famigliari delle vittime.
24 Febbraio 2012 | di

Il ricordo per non dimenticare. La ricerca della verità per comprendere la Storia attraverso un mosaico di ricordi altrimenti divisi, lacerati, mai riconciliati. La rilettura per non rimanere in ostaggio dell’odio e del rancore. È questa la strada intrapresa negli ultimi anni in Europa e in Italia, con slancio e coraggio, dai famigliari delle vittime del terrorismo. Un percorso di ricomposizione spesso irto di difficoltà e sofferenza. Molti episodi di quella stagione di piombo e sangue rimangono oscuri, pur a decenni di distanza. Altrettante verità rischiano di ammuffire, secretate in archivi mai aperti finora. Le stesse tragedie personali hanno finito per intrecciarsi, inevitabilmente, con il «dolore pubblico». La memoria diventa il percorso obbligato perché rabbia e odio non abbiano il sopravvento. Da questi vissuti personali è possibile costruire una memoria condivisa «per non permettere che altri – come disse Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, al figlio Mario nel momento in cui questi doveva scegliere se continuare a lavorare nello stesso giornale per il quale scriveva anche Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua e mandante dell’omicidio del padre – decidano ancora del tuo destino. Lo hanno già fatto quando eri bambino».
Perché, come ricorda Silvia Giralucci, il cui padre fu ucciso nel primo delitto firmato dalle Brigate Rosse, «il rancore finisce sempre per corrodere le tue ossa, mai quelle degli altri».
 
Giornate per ricordare
«La luce dedichi un momento del giorno a ciascuna delle persone che non ci sono più». È questo il tema che ispira il monumento eretto a Madrid in ricordo delle vittime degli attentati terroristici avvenuti nella capitale spagnola l’11 marzo 2004, 197 morti e 2.057 feriti. Una luce che arriva dal ricordo, da una memoria condivisa anche dalle istituzioni. Questo il senso della Giornata europea voluta in ricordo delle vittime di Madrid e di Londra a partire dal 2005. Lo stesso richiamo forte che ispira il «Giorno nazionale della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi», istituito in Italia nel 2007 con un’apposita legge – la n. 56 del 4 maggio –, e celebrato il 9 maggio, giorno in cui si ricorda il ritrovamento del corpo di Aldo Moro. «Con questa Giornata cerchiamo di restituire alla memoria degli italiani – ha affermato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano – i volti, i percorsi di vita e di morte, delle vittime. Percorsi di vita, innanzitutto, perché non è accettabile che quegli uomini siano ricordati solo come vittime, e non come persone che hanno vissuto, con i loro affetti, il loro lavoro, il loro posto nella società. Vorrei che le mogli, i figli, i famigliari dei caduti ci sentissero vicini per quello che hanno sofferto, per il dolore di perdite irreparabili e per una solitudine che spesso li ha fatti sentire dimenticati».

Un’operazione obbligata, quella della memoria, per una democrazia che non voglia rinnegare le pagine più dure della propria storia. Ne è convinto il professor Marc Lazar, tra i più autorevoli studiosi degli anni Settanta. «Per un Paese democratico, che ha conosciuto un periodo tanto intenso di conflitti e scontri, il cercare di superare queste lacerazioni dovrebbe rappresentare una necessità. Un’operazione possibile solo se non si tenta di occultare o di rifiutare la verità, ma si cerca, invece, di capire le ragioni profonde di tanta violenza. La strada obbligata, allora, è una sola: individuare tutte le responsabilità.
Un grande aiuto, e lo dico da storico, potrebbe arrivare dall’apertura degli archivi, specialmente quelli di polizia e carabinieri».
 
Gli anni Settanta
L’inizio convenzionale di una strategia della tensione che ha messo l’Italia in ginocchio per un decennio è datato 12 dicembre 1969. A Milano, in piazza Fontana, scoppia una bomba all’interno della Banca nazionale dell’Agricoltura: muoiono 17 persone, 88 sono i feriti. La matrice accertata è di estrema destra. Prima di allora, già nella seconda metà degli anni Sessanta, si erano verificati almeno 140 attentati. Anche se in seguito ci furono ulteriori colpi di coda, quella stagione di piombo e sangue ebbe fine, sempre per convenzione, trent’anni fa, con la liberazione, a Padova, il 28 gennaio 1982, del generale americano James Lee Dozier rapito 42 giorni prima a Verona dalle Brigate Rosse. Come riporta Sergio Zavoli nella trasmissione televisiva La notte della Repubblica, nel periodo 1969-1988 ci furono 14.615 attentati, 428 morti e circa 5 mila feriti, di cui molti con danni permanenti; 20 mila furono i militanti della lotta armata inquisiti e circa 6 mila quelli finiti dietro le sbarre, per un totale di quasi 50 mila anni di carcere.
 
Il primo delitto firmato BR
«I miei anni Settanta sono la scuola elementare, i viaggi in tenda con la mamma in giro per l’Europa e il giardino dei bambini. Del piombo ricordo pochissimo. “Capirai quando sarai più grande” mi dicevano gli adulti. E, d’altronde, quali parole si potevano trovare per spiegare? Ho impiegato anni e tanta fatica per capire che quel papà sparito nel nulla, senza lasciarmi neppure un ricordo, era stato ucciso. Ucciso dalle BR perché “fascista”, come si diceva allora. Avevo tre anni». A parlare è Silvia Giralucci, giornalista. Sposata e madre di due bambini, ha voluto compiere un originale percorso della memoria alla ricerca di un padre di cui serba solo pochi, scarni flash. Con lo spirito della cronista, ha cercato i testimoni di quel momento storico, che sono diventati poi i protagonisti del libro L’inferno sono gli altri, scritto per «Strade blu» di Mondadori. Quello di Graziano Giralucci, ucciso nella sede del Movimento sociale italiano (Msi) di Padova, è il primo omicidio rivendicato dalle BR, capeggiate da Renato Curcio. «Ciascun testimone è diventato per me la tessera di un puzzle, anche se i pezzi non sempre combaciano, e molti ne mancano. È stato un lungo lavoro di ricomposizione. Strada facendo ho capito che, al fondo della mia ricerca, c’era il desiderio di comprendere le scelte e il destino di mio padre. Ho cercato una risposta nelle storie delle persone che negli anni Settanta hanno rischiato la vita, in modi diversi, per le loro idee. Ciascuno mi ha restituito un tratto di umanità personale, nella quale, comunque, poteva rispecchiarsi anche l’esperienza fatta da mio padre: sicuramente questo mi ha dato una maggiore serenità. Sono tante, piccole storie, a volte antitetiche e inconciliabili, che non vogliono sostituire la visione d’insieme o l’analisi più ampia che può fornire uno storico, ma che spero possano comporre un quadro di memorie divise e condivise». Un quadro che parte, inevitabilmente, da quel giorno. È il 17 giugno 1974. Graziano Giralucci, rappresentante di commercio, si reca nella sede del Msi di Padova per portare al custode, Giuseppe Mazzola, un set di rubinetti che gli servivano per casa. Un commando di due BR fa irruzione. Quando tentano di incatenarlo, Giralucci reagisce, seguito da Mazzola. «I brigatisti fornirono una loro versione dei fatti parlando di una colluttazione e affermando che avevano dovuto uccidere mio padre e Mazzola per non essere a loro volta colpiti – racconta Silvia –. In realtà le cose andarono diversamente. Ci furono quattro spari, una testimone li udì mentre scendeva le scale. Agli inquirenti raccontò che, tra i primi due (quelli che colpirono alla spalla mio padre e alla gamba Mazzola) e gli altri (i colpi di grazia alla tempia e alla nuca), lei aveva già fatto parecchi gradini. Venne calcolato che non poteva aver impiegato meno di un minuto. Sessanta secondi sono un’eterni­tà in una situazione del genere. È per questo che la Corte ritenne che si fosse trattato di una vera e propria esecuzione». Un dolore, quello di Silvia e della madre Bruna, che rimane, ancora oggi, una ferita aperta. «La sofferenza per un lutto si lenisce, in genere, con il tempo. La morte di mio padre non ha significato solo la perdita di una persona cara: io mi sento privata di una parte importante di me. Non è una questione che riguarda solo il passato: ci penso ogni giorno, perché ogni volta che vado a scuola e vedo un nonno che veste il suo nipotino, penso che i miei bambini il nonno non ce l’hanno. Solo ora, guardando mio marito con i nostri figli, scopro cos’è il rapporto tra un padre e un figlio, e com’è una vera famiglia». Nello sforzo compiuto da Silvia per ricomporre i vari tasselli, non manca nemmeno una riflessione sugli «altri». «Non ho mai provato desiderio di vendetta, ho sempre cercato di comprendere le ragioni dell’“altro” cercando di superare i pregiudizi – spiega Silvia –. Non sono una di quelle persone che negano a chi ha sbagliato il diritto di rifarsi una vita. Penso però di avere almeno gli stessi diritti che hanno gli ex terroristi. A partire da quello di essere lasciata in pace. Non sono d’accordo con chi dice: “Hanno finito di scontare la loro pena e quindi hanno diritto di fare tutto ciò che desiderano”. Sono usciti dal carcere, ma la loro responsabilità rimane. Non si diventa ex assassini, semplicemente perché io non divento un’ex orfana. Mio padre non torna. Il perdono? Per me è inconcepibile. Lo vedo possibile solo all’interno di una relazione, di un dialogo. Non ho mai avuto niente da spar­tire con gli assassini di mio padre. So che molti di loro vorrebbero essere aiutati nel loro reinserimento sociale, nella loro riabilitazione, magari dal fatto che le vittime dicano “passiamoci sopra”. Ma questo io non sono disposta a farlo».

Il «caso» Battisti
Solo a sentire la parola «perdono», gli si muove dentro la rabbia mai sopita. Perché, come ribadisce, «non c’è mai pace senza giustizia e la mia famiglia non ha avuto giustizia». Quando gli uccisero a bruciapelo il padre Lino, Adriano Sabbadin era con lui in negozio, una macelleria avviata da poco a Caltana di Santa Maria di Sala (Venezia). Era il 16 febbraio 1979. «Sono arrivati alle 16.30. Papà, aiutato da mia madre, stava servendo alcuni clienti. Io ero al telefono nel retrobottega. All’improvviso ho sentito dei colpi di pistola. Sono fuggito al piano di sopra, dove abitavamo. Dalla finestra ho scorto alcuni uomini allontanarsi di corsa in macchina. Dopo pochi, interminabili istanti sono rientrato in negozio. Per prima cosa ho visto mia madre. Aveva il grembiule bianco tutto insanguinato. Mio padre, invece, era a terra, in una pozza di sangue. Ho chiuso le saracinesche, poco dopo è arrivata l’autoambulanza. Non c’era più nulla da fare». Per quell’omicidio, e per altri tre, furono individuati come responsabili, e in seguito condannati, i componenti del gruppo armato dei Pac (Proletari armati per il comunismo), capeggiato da Cesare Battisti. Sabbadin fu ucciso proprio da Battisti. Lo stesso 16 febbraio, a Milano, più o meno alla stessa ora, un altro manipolo di Pac assassinò l’orefice Pierluigi Torregiani ferendo il figlio Alberto che, da allora, vive paralizzato su una sedia a rotelle. Per la giustizia, come si legge nelle sentenze, Battisti «si distinse sempre per la sua determinazione nell’uccidere e per non aver mai esitato neppure un attimo». «Dai processi e dalle perizie è emerso che Battisti sparò i colpi di grazia quando papà era ormai a terra. Lo crivellò senza pietà». Adriano oggi sta dietro al bancone della sua macelleria. La stessa dove il padre venne ucciso sotto i suoi occhi. «È un “ergastolo” a vita che tiene in ostaggio noi figli delle vittime – prosegue Adriano –. Chi è per me Battisti? Un assassino, solo un assassino. Il perdono? È una parola inutile da scomodare. Sono più di trent’anni che attendo giustizia. Per i suoi reati, tra cui omicidi e rapine, Battisti ha fatto un solo anno di carcere, mentre la mia vita è stata completamente stravolta. Quello dei famigliari è un carcere a vita, dentro ai ricordi e a causa di una giustizia che non c’è». Non ha più lacrime, non ha più parole. «Avevo 17 anni – racconta Adriano con accanto la mamma Amalia –. Non sapevo nulla del mondo. Stavo in bottega e cominciavo a imparare un mestiere. Ho dovuto arrangiarmi senza chiedere aiuto a nessuno. Quante volte avrei voluto ci fosse mio padre per un consiglio o anche solo uno sguardo di assenso».
 
La strage di Bologna
Sono tante le storie che si intrecciano il 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna. Nazzareno Basso era partito da Milazzo, in Sicilia, dove aveva trovato lavoro. Stava rientrando nel veneziano per le ferie. La sua sfortuna fu quella di perdere il primo treno. Era tornato a casa a prendere un regalo per i bimbi, comprato il giorno prima. Si trovò anche lui, quel mattino, in stazione. Erano le 10.25. Stava attendendo la coincidenza per Padova quando, nella sala d’aspetto della seconda classe, scoppiò un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata. 85 i morti, 200 i feriti. Fu uno degli atti terroristici più gravi compiuti nell’Italia del secondo dopoguerra. All’epoca la moglie Ines, insegnante, si era trasferita in Sicilia per stare vicina al marito. Nell’isola aveva trovato lavoro e un po’ di fortuna. Lei e Nazzareno avevano quattro figli. Quell’estate Ines era tornata a casa dai suoi, insieme con i bambini, per trascorrere le vacanze. Aveva 32 anni, come il marito. «Da quella mattina la mia vita e quella dei miei figli, Francesco di 7 anni, Silvia di 6 e le gemelle Emanuela e Cristina di 5, è cambiata, per sempre. Ho riaperto, solo a distanza di molti anni, il mio cuore ai ricordi. Ci vuole tempo, tanto tempo, per chiudere la porta del dolore». Ines ha cresciuto da sola quei quattro bambini. «Per fortuna facevo l’insegnante. La forza di andare avanti me l’hanno data i figli e i miei alunni. Ho imparato a misurare il tempo su di loro. Ho capito dai bambini, insomma, che bisogna guardare avanti. Di sicuro, anche se ho provato a fare da madre e da padre ai miei figli, la figura paterna è loro mancata. Ho cercato di proteggerli comunque, come farebbe chiunque. Ma credo che non si possano proteggere dal vuoto che lascia, per sempre, la perdita di un padre». Ines parla di perdono. «C’è una sola persona che può concederlo: Dio. Ci sono voluti vent’anni per liberarmi dal rancore. Un male dell’anima che, all’inizio, mi aveva addirittura portato a pensare di farmi giustizia da sola. Nel 2000 stavo rientrando da Roma dopo il Giubileo. Ho detto a mio figlio di fermarsi a Loreto. Lì mi ero sposata il 13 agosto del 1972. Ho deciso che quel giorno do­vevo liberami di un peso che mi aveva torturato per anni. L’ho affidato a Dio, all’unica persona che può disporre di noi. Mi sono chiesta più volte se fosse il caso di incontrare chi aveva ucciso mio marito. Anche in questo caso ho conclu­so che, a decidere se le nostre strade dovranno un giorno incrociarsi, potrà essere solo Colui che sta più in alto sia delle vittime che dei carnefici».
 
Il giardino di papà
«Di lui ricordo poco: una sculacciata, i momenti in cui mi portava a spasso sulle sue spalle e i suoi piedi, mentre io ci giocavo». Giorgio Bazzega aveva due anni e mezzo quando suo padre Sergio fu ucciso. Il maresciallo dell’antiterrorismo Bazzega, friulano di Gemona (Udine), viene assassinato insieme al vicequestore Vittorio Padovani il 15 dicembre 1976. Quel giorno, all’alba, i due fanno irruzione nell’appartamento dove abita il terrorista Walter Alasia, a Sesto San Giovanni, nel milanese. Cercando di sfuggire alla cattura, Alasia apre il fuoco. Il maresciallo e il vicequestore perdono la vita. Viene ucciso anche il terrorista, al quale sarà poi intitolata la colonna milanese delle BR. «Mia madre Luciana, all’inizio, non mi ha raccontato nulla. Ma io, col tempo, ho capito. È un’ infanzia molto dura quella che ti accompagna senza un papà. Ho passato l’adolescenza a cercare nella droga un’anestesia. Era solo una fuga, i problemi rimanevano irrisolti. Poi la depressione e il desiderio di vendetta. Ho trascorso serate a tirare di boxe per vendicarmi, perché io, gli assassini di mio padre, volevo ucciderli davvero». Qualche anno fa la svolta. «Una mattina mi sono guardato allo specchio. Ero irriconoscibile. Mi sono detto che non potevo buttar via la mia vita, papà non l’avrebbe mai voluto. Sono convinto che, in quel momento, accanto a me c’era lui». Giorgio ha incontrato il capo storico delle BR, Renato Curcio. «Avevo bisogno di guardarlo dritto in faccia per capire se avevo concluso il mio percorso di riconciliazione con la verità e con me stesso. Avevo paura sì, ma di prenderlo a pugni. Invece, sembrava spaventato. Ha finto di non aver mai conosciuto mio padre. Per la prima volta mi sono sentito libero, senza fardelli, non più ostaggio loro e del passato».
Al maresciallo Bazzega il Comune di Sesto San Giovanni ha intitolato un giardino pubblico. «Sono felice – afferma il figlio – che a ricordarlo sia un luogo di vita, pieno di futuro, dove giocano i bambini in compagnia dei loro genitori».
 
La Casa della Memoria
«Ho incrociato i suoi occhi e ci siamo salutati con la mano. In quel momento è scoppiata la bomba. Mi sono buttato in quell’inferno, ma quando l’ho trovata era già morta». Manlio Milani è un sopravvissuto della strage neofascista di piazza della Loggia a Brescia. L’ordigno, nascosto in un cestino della spazzatura, dilania la moglie Livia Bottardi, insegnante di lettere. È il 28 maggio 1974. Quella mattina Manlio e Livia erano andati in piazza per partecipare a una manifestazione contro la violenza. Oggi capita di trovare Manlio tra i banchi di scuola più che a casa. Dopo la strage ha scelto la strada dell’impegno per conservare il ricordo. Racconta la sua storia agli studenti, dalle elementari alle superiori. Nel 2000 fonda la «Casa della Memoria» di Brescia. «Il processo di conoscenza è l’unica strada per guardare avanti. Trasmettere la memoria significa capire il senso del tempo storico e cogliere i percorsi dai quali veniamo». Sul tema del perdono Milani non ha dubbi. «Chi dovrei perdonare? Per la strage di piazza della Loggia non ci sono colpevoli – afferma –. Il processo è ancora in corso, l’appello è iniziato appena un mese fa (la prima udienza si è svolta lo scorso 14 febbraio, ndr). Il perdono è un elemento individuale, non è un sostituto delle condanne, della ricerca giudiziaria, dell’analisi storica. Il grande rischio, come denuncia Giovanni Moro, figlio di Aldo, è che “il perdono diventi non lo stimolo per capire e conoscere le cose, ma semplicemente la pietra tombale sotto cui chiudere tutto”». Un aiuto importante, in questi anni, è arrivato proprio dalle associazioni dei famigliari. «È servito a mantenere il ricordo di fronte alle istituzioni che non lo volevano conservare. Ora è necessario andare oltre. Per questo, insieme con Comune e Provincia di Brescia, abbiamo creato la “Casa delle Memoria”. Non bastano i documenti: al centro deve esserci l’elaborazione della memoria, possibile, prima di tutto, attraverso la testimonianza». Tra le battaglie di Milani c’è anche la stesura di un progetto europeo insieme con le famiglie di Londra, Madrid, Colonia e altre città colpite dal terrorismo. Al centro la vittima, vista dal punto di vista giuridico. «Che cosa mi ha sorretto finora? Il desiderio di ricerca della verità, la volontà di non rinunciare alla vita che mi è stata data. Non bisogna mai lasciar nascere conflitti dai ricordi».
 
C’è sempre un’altra strada
Da questi come dai tanti e differenti percorsi di ricerca della verità, mai scontati, intrapresi da madri, mogli, figli e parenti, arriva un segnale chiaro. L’itinerario da seguire «per dar luce a ognuna delle vittime che non ci sono più» è obbligato. Lo descrive bene Silvia Giralucci alla fine del suo libro: «Una delle due squadre fondate e allenate da papà, il Cus Padova Rugby, aveva ottenuto la promozione. Alla grande festa fummo invitate anche io e mia mamma. Quando ci consegnarono la targa mi resi conto che era la prima volta che papà veniva ricordato per quello che aveva fatto da vivo. Un regalo inestimabile per me che, non avendo ricordi miei, vivo tuttora di quelli degli altri. Durante la festa mi avvicinò un ex giocatore che lo aveva conosciuto. “Ero di sinistra – mi disse – lui di destra, ma per non darcele fuori, ce le davamo in campo”. C’è sempre un’altra strada».        
 
I libri
 
Agnese Moro, un uomo così. Ricordando mio padre, Rizzoli, € 9,00
 
Silvia Giralucci, l’inferno sono gli altri, Mondadori, € 17,50
 
Benedetta Tobagi, come mi batte forte il tuo cuore, Einaudi, € 19,00
 
Giovanni Fasanella, Sabina Rossa, Guido rossa, mio padre, Rizzoli, € 8,80
 
Alberto Torregiani, Stefano Rabozzi, ero in guerra ma non lo sapevo, Agar Edizioni, € 18,00
 
 
 
Marc Lazar
L’Italia degli «anni di piombo»

 
Violenza, bombe, stragi. In queste poche parole si riassume, nell’immaginario collettivo, l’Italia degli anni Settanta. Una pagina dolorosa, con tanti, forse troppi, interrogativi che attendono ancora una risposta. Una fase storica che registra, negli ultimi tempi, un rinnovato interesse da parte degli studiosi. Tra questi, Marc Lazar, professore a Sciences Po (l’autorevole Università parigina di studi politici) dove dirige il Dipartimento di Storia, e alla Luiss di Roma, dove presiede la School of Government. Lazar è il curatore de Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, pubblicato in Francia da Autrement e, in Italia, da Rizzoli.

Msa. Professor Lazar, in Italia gli anni Settanta sono segnati da una violenza che non si riscontra in nessun’altra democrazia occidentale. Da dove nasce tanto odio?
Lazar. È questa la grande domanda a cui solo un’attenta ricostruzione storica può dare risposta. In Italia gli «anni di piombo» si caratterizzano per una violenza che causa più di 360 morti, per ragioni politiche, dal 1969 ai primi anni ‘80. Non esiste un paragone analogo in Europa. Si tratta di una specificità tutta italiana. In Italia esiste, infatti, una tradizione di violenza sociale e politica forte, di rapporti tesi e aspri, di lotte dure. Tale argomentazione è scottante, complicata e scomoda, ma non possiamo fare a meno di ricordare come, nel passato, si siano spesso verificati scontri assai duri e violenti, ad esempio dopo la prima guerra mondiale o alla fine della seconda, tra il 1943 e il 1945. Se si aggiunge la scarsa legittimità dello Stato, che è una caratteristica strutturale della storia italiana, possiamo dire che gli elementi per l’insorgere della violenza c’erano proprio tutti.

Perché il «caso» italiano è così diverso dagli altri?
Quattro, a mio avviso, le ragioni. La prima: la stagnazione politica di quegli anni, con una Dc al potere dal 1947 e all’opposizione, come principale partito, il Pci. Se ci fosse stata un’alternanza avremmo assistito, con ogni probabilità, a un rovesciamento delle alleanze internazionali. Ora sappiamo, grazie agli archivi finalmente aperti, che Parigi, Bonn, Londra e Washington studiavano il «caso» italiano quasi con ossessione, fortemente preoccupati per il possibile insediamento del Pci al governo. La stasi politica ha favorito forme di radicalizzazione sociale sia a sinistra che a destra. La seconda: lo Stato italiano ha alternato, nei confronti del terrorismo ma non solo, una politica di repressione a volte molto dura con momenti di grande lassismo. È un’oscillazione molto complicata da ricostruire: fatto sta che la repressione ha favorito la radicalizzazione e, stranamente, il lassismo ha consentito all’ultrasinistra di organizzarsi. Senza dimenticare il gioco dell’estrema destra che piazzava bombe e firmava stragi dietro alle quali pare ci fossero servizi deviati dell’apparato di Stato pronti ad alimentare la strategia della tensione. La terza: l’importanza che assunse, in quel periodo, l’ideologia sia dell’estrema destra che, ancor di più, dell’estrema sinistra. In questo contesto si collocano le accuse al Pci di essere diventato un partito riformista. Attraverso la violenza si cercava di essere rivoluzionari, di cambiare la società. Basti pensare all’inno di «Potere Operaio», col quale, già negli anni Sessanta, si richiamava alla guerra civile. C’era tutta un’ideologia marxista rivoluzionaria che rivendicava la violenza. La quarta: entrambe le fazioni puntavano sull’aspetto mitologico, col richiamo, da parte dell’estrema sinistra, alla Resistenza e, dell’estrema destra, al fascismo.

Veniamo all’oggi. Negli ultimi anni si sono ricostituite le nuove BR. Esiste il pericolo di un ritorno del terrorismo?
Credo che l’Italia sia stata ampiamente vaccinata dalla violenza politica degli «anni di piombo». Dalle ricerche, condotte anche dai miei studenti, si evidenzia come quel periodo sia stato caratterizzato dalla violenza, da una grande passione politica, ma prima ancora dalla paura. È un sentimento lacerante e diffuso in quell’Italia: ha paura la gente comune, hanno paura magistrati, poliziotti, carabinieri, quelli che mettono le bombe, quelli che fanno la lotta clandestina. Oggi, da Nord a Sud, ogni volta che si verificano attentati o anche semplici manifestazioni politiche violente, si assiste subito a un’ampia reazione di condanna. Da quegli anni l’Italia è uscita con l’idea che la democrazia non può accettare il ricorso alla violenza.
 
Roberta Peci
«Io, la figlia del terrorista»

 
Vittima due volte. Per non aver mai conosciuto suo padre, ucciso due mesi prima che lei nascesse. Per essere stata a lungo etichettata come la «figlia del terrorista».
Roberta Peci oggi ha trent’anni. Vive tra Roma e San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno). In questa cittadina, di quasi 50 mila abitanti, si incrociano le storie dei fratelli Peci, Roberto (il padre di Roberta) e Patrizio. Quest’ultimo è esponente di spicco delle Brigate Rosse. Nell’organizzazione terroristica, a un certo punto, entra anche il fratello Roberto, più giovane di tre anni, antennista. L’ingresso dura giusto il tempo di un assalto. È quello messo a segno alla Confapi, nella sede delle piccole e medie imprese, di San Benedetto. All’appello, quella mattina, manca un componente del commando. Patrizio recluta il fratello. Poco dopo Roberto esce dalle BR. La violenza non fa per lui. Ma il suo destino, purtroppo, è già segnato.
Quando Patrizio, diventato il primo grande pentito delle Brigate Rosse, con le sue dichiarazioni, raccolte dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fa individuare covi e militanti e aiuta a fare luce su un decennio di terrorismo di sinistra, la risposta delle Brigate Rosse è immediata: il 10 giugno 1981, su ordine di Giovanni Senzani, sequestrano Roberto Peci, condannandolo a morte per tradimento. Una vendetta senza precedenti nella storia del terrorismo, filmata dai carcerieri in tutte le sue fasi, fino all’atto estremo: l’uccisione dell’ostaggio, dopo 54 giorni di prigionia. Anche Roberta ha intrapreso un viaggio nella memoria. Cercare di capire gli avvenimenti le restituisce, almeno in parte, quel padre mai conosciuto. Il percorso tutto personale di Roberta è al centro del documentario La via di mio padre, girato dal giovane regista Luigi Maria Perotti, anche lui di San Benedetto del Tronto. Il film uscirà entro l’anno all’interno del programma La Storia siamo noi.

Msa. Solo trent’anni dopo la sua morte è stata intitolata una strada a tuo padre Roberto, definito «vittima delle BR». Eppure a San Benedetto c’è ancora qualcuno che lo considera un terrorista alla pari del fratello.
Peci. Purtroppo esiste da sempre una grande confusione, una dualità difficile da spezzare se non attraverso la conoscenza dei fatti, della verità. Mio padre era fratello di un terrorista. Ma continua a essere ricordato più per questo che per il fatto di essere stato ucciso, invece, proprio a causa del fratello. Papà non era un terrorista. L’azione, simbolica e marginale, alla Confapi fu sporadica, casuale. Lui non aveva mai preso in mano un’arma. Era convinto che, per raggiungere certi ideali, non servisse ricorrere alla violenza e, tanto meno, alla lotta armata.

Il viaggio alla ricerca di tuo padre te lo ha, in qualche modo, restituito?
È difficile farsi un’idea di qualcuno che non si è mai conosciuto. Tra le poche cose che ho avuto di lui, c’è la voce. L’ho sentita ascoltando i nastri registrati dalle BR e da Senzani, durante la sua prigionia. E poi, attraverso i pochi oggetti restituiti dalle BR: la camicia e il pennello da barba, nient’altro. Mia madre non mi ha mai parlato di lui. Non lo fa nemmeno ora. È lei la vera vittima, più di me. La morte di papà è una ferita che non le si è mai rimarginata. La sua vita, dopo quel momento, è una linea interrotta. Credo che papà, che all’epoca aveva 25 anni, fosse un uomo coraggioso, un ragazzo semplice in procinto di farsi una famiglia. Tempo fa un’anziana mi ha detto che ricorda ancora «quel ragazzo gentile e sorridente che andava per il paese a montare le antenne».
Penso ogni giorno a quello che avrei potuto essere se fosse stato al mio fianco. Mi

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017