La medaglia dell’integrazione

Lo sport è un’ottima occasione per far gareggiare insieme normodotati e diversamente abili. Il sano agonismo è bello da praticare, prima ancora che da vedere come spettatori. E l’atleta disabile deve essere valorizzato per le sue qualità.
27 Giugno 2012 | di

«Mare, mare, mare, ma che voglia di arrivare lì da te». Così cantava Luca Carboni qualche anno fa, e questo ritornello è divenuto l’inno d’inaugurazione di ogni mia stagione estiva. Ho un dubbio che in questa calda estate mi accompagnerà sulle spiagge, e perfino in montagna, lo stesso dubbio che perseguiterà milioni di sportivi italiani. Va bene l’abbronzatura. Benissimo l’aria pura delle Alpi, ma senza un moderno tablet, c’è il serio rischio di perdersi le poderose bracciate della nuotatrice Federica Pellegrini alle Olimpiadi di Londra. O, a fine agosto, le performance dei nostri atleti alle Paralimpiadi (sempre a Londra). Da vero appassionato, non mi perderò un solo secondo di questi eventi. Eppure mi domando: siamo sicuri che lo sport favorisca sempre l’integrazione? Non è che, in alcuni casi, porti piuttosto, e involontariamente, a forme di «disintegrazione»?
 
Una prima considerazione di fondo: lo sport è un fantastico strumento per integrare, ma come tutti gli strumenti va usato correttamente. Sottolineo che sto parlando di sport, non di semplice gioco, e questo presuppone impegno, costanza, perseveranza, rispetto dell’avversario, regole condivise; e il conseguimento di un obiettivo finale: la vittoria. Lo sport, non dimentichiamolo, è un’attività di confronto, ma anche un’attività agonistica, con tutti i problemi che ne possono derivare.
Per una persona con disabilità, le prime difficoltà cominciano direttamente dall’approccio stesso allo sport.

Di norma, infatti, chi arriva in una polisportiva chiedendo di prendere parte a un’attività agonistica, viene indirizzato verso corsi assimilabili alla fisioterapia, oppure verso attività semplici, e già collaudate, come il basket e l’hockey in carrozzina. Eppure, la parte fondamentale è proprio quella iniziale in cui all’atleta con disabilità va assegnato un ruolo attivo, capace di valorizzare le sue qualità.
Partire dal gioco per costruire lo sport non è uno slogan, ma un punto di partenza imprescindibile: cogliere la peculiarità delle varie disabilità permette di inquadrare il deficit e le potenzialità da sviluppare. Solo in questa maniera è possibile modificare o adattare l’attività ludico-sporti­va a seconda delle capa­cità del soggetto coinvolto. Numerose, per fortuna, sono oggi le esperienze che si muovono in questa direzione. Recentemente, nel corso del programma di Raiuno A Sua Immagine, mi sono imbattuto in un’intervista al mio amico Marco Calamai, ex giocatore e allenatore della Fortitudo Bologna, oggi impegnato in una squadra sperimentale di pallacanestro: esempio di sport senza barriere e di vera integrazione. Lo stesso vale per le attività di baskin (basket integrato), sport nato da poco a Cremona grazie all’Associazione Baskin, dove normodotati e diversamente abili gareggiano insieme con la stessa ambizione: vincere. Anche perché l’obiettivo più grande l’hanno già raggiunto: inte­grare. E voi siete sportivi? Il vostro sport integra o disintegra? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017