La logica del dono

È un bene fare regali a Natale, perché ogni presente parla di noi, ci riporta a un Dono più grande. Come non cedere al consumismo e trarre il meglio da questo atto così radicato nelle nostre tradizioni? Risponde Martin M. Lintner, teologo morale.
27 Novembre 2012 | di

Cosa raccontano di noi i regali che ci stiamo apprestando a fare per Natale? L’atto del donare quali dinamiche innesca? E ha rilevanza nella nostra cultura? I regali possono essere di ispirazione alla catechesi? Per rispondere a queste domande e indagare la figura del dono abbiamo incontrato il professor Martin M. Lintner, sacerdote nell’ordine dei Servi di Maria, già docente alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum e ora ordinario di teologia morale allo Studio Teologico Accademico di Bressanone.

Msa. A Natale vi è chi decide di non fare regali in segno di sfida al consumismo che vuole snaturare questa festività. Condivide la decisione?
Lintner. No. A mio avviso è bene farli perché Natale è la festa del dono di Dio all’umanità e noi esprimiamo la nostra gioia per la nascita del Figlio scambiandoci regali. Piuttosto, per vivere pienamente questa festività senza darla vinta allo spirito consumistico, è decisivo riflettere sul significato del dono che riceviamo da Dio e domandarci come possiamo trasmettere la nostra gioia attraverso i regali. Non è questione di quanti soldi spendiamo, l’importante è comprendere che i doni aiutano a creare e sostenere quei legami buoni che rispondono al grande comandamento di Gesù: l’amore reciproco.

Nella cultura contemporanea la figura del dono non ha molta rilevanza. Per quale ragione a suo avviso?
Anzitutto l’economia ha un peso enorme nella vita pubbli­ca: le leggi del mercato sono diventate pervasive ed esse escludono dal loro orizzonte la dimensione del donare. In secondo luogo, la nostra è divenuta una società dei diritti: noi vogliamo – addirittura pretendiamo – ricevere molte cose perché ci spettano, perché è un nostro diritto averle. Questa mentalità mal si concilia con la logica del dono. E poi è divenuta imperante la visione utilitaristica.

La scarsa rilevanza della figura del dono può avere fra le cause anche il fatto che questa è l’epoca di Narciso, tutto chiuso nella cura e nell’amore di sé?
Certamente, il narcisismo ha un peso significativo. Un individuo che vive solo per sé, intento a volersi bene e a star bene con se stesso, ha molte difficoltà a capire il dono perché esso è sempre espressione della capacità e del bisogno dell’uomo di vivere in relazione con gli altri.

Quale processo si avvia quando decidiamo di fare un regalo a qualcuno?
È giusto definirlo un processo perché si tratta proprio di questo. Quando decidiamo di fare un regalo (materiale o immateriale) a qualcuno, vogliamo trasmettere affetto, amicizia, benevolenza. Il dono è portatore dei nostri sentimenti positivi ed esprime il nostro bisogno e desiderio di rendere felice l’altro e costrui­re o approfondire la relazione affettiva con lui, secondo uno stile che è quello della gratuità. Per questa e altre ragioni ritengo sia possibile pensare a una catechesi a partire proprio dalla categoria del dono.

Vuole illustrare questa tesi?
Nel cristianesimo il dono è la qualifica principale dell’azione di Dio per l’uomo, che la tradizione teologica definisce «grazia». Ritengo che le nostre esperienze concrete dei regali ci aiutino a penetrare nel mistero della grazia di Dio: ci aiutano, ad esempio, a prendere coscienza del fatto che, quando affermiamo che la nostra vita è dono di Dio, noi stiamo dicendo che essa è espressione dei suoi sentimenti positivi, del suo amore per noi. E, allo stesso modo, i doni con i quali accompagna la nostra esistenza esprimono il suo desiderio di renderci felici e di costruire e approfondire la relazione affettiva con noi. Vi è poi un secondo aspetto: quando porgiamo un dono a qualcuno, noi non offriamo solo qualcosa, ma ci «espropriamo» di una «parte» di noi per darla all’altro. Un regalo viene anche definito un «presente» proprio perché in esso rimane presente il donatore, che ha dato se stesso. Dire quindi che la vita – la mia, la vostra – è dono di Dio significa affermare e capire che lui rimane presente nella mia e nelle vostre vite. La creazione conserva la presenza di Dio.

Nel linguaggio corrente spesso si iscrive l’azione di Dio nella forma assoluta del dono «puro», che l’uomo deve prendere a modello. Molti credono che «puro» designi il gesto della donazione a perdere, disinteressata allo scambio e al legame. Ma è un errore.
Certo. Il filosofo Jacques Derrida sosteneva che il legame, la relazione, se sono implicati nel dono puro, lo distruggono perché lo riconducono alla logica economica. Ritengo che, argomentando con questa radicalità, sbagliasse: il dono vive nelle relazioni, che proprio attraverso il dono desideriamo far crescere. Pensare al dono puro come contrario all’utilitarismo va bene, ma diventa sbagliato se lo pensiamo come contrario alla reciprocità e alla relazione. La reciprocità non è solo mercantile: noi viviamo di scambi e relazioni. Dio desidera essere ricambiato e ci offre i suoi doni perché vuole costruire e approfondire il legame di agape (amore) con noi, che ci dà felicità.

Proprio perché il dono è un processo, quando ha termine?
Quando l’altro lo accoglie. Anche l’atto di ricevere è incluso nel processo del donare. Può capitare che un nostro regalo sia rifiutato: in questo caso il processo non raggiunge il suo fine, che è un approfondimento qualitativo del legame tra noi e colui che riceve. Pensando a Dio, diciamo che i suoi doni sono incondizionati perché sono offerti anche se poi vengono rifiutati: lui si ostina a porgerli, con pazienza e amore.

Nell’esperienza del donare cosa scopriamo di noi stessi?
Insieme al nostro bisogno di riconoscimento scopriamo la nostra identità. Mi spiego: con i regali noi desideriamo offrire anche noi stessi all’altro. Ebbene, facendo così scopriamo la ricchezza della nostra persona e la nostra identità: l’essere capaci di amare e di donare. Potremmo dire che «donandoci, ci riceviamo in dono». Quando chi fa volontariato afferma di «ricevere molto di più di quello che offre» è proprio per questo motivo. La nostra identità può manifestarsi solo in un contesto intersoggettivo: Martin Buber, filosofo e teologo, affermava che è l’altro, il tu, che mi dice chi sono: è nella relazione affettiva instaurata dal dono che noi troviamo la nostra identità e la viviamo.

Il volontariato è una realtà bellissima e tutti dovrebbero coltivarne l’esperienza e lo spirito. Ma nella società occidentale non corre il rischio di legittimare, senza volerlo, il crescente cinismo del mercato? Il mercato continua a vivere secondo le proprie leggi, perché tanto le sue inadempienze sono compensate dal volontariato.
Effettivamente ciò accade. Di questo fenomeno possiamo però considerare anche l’aspetto positivo: facendo affidamento sul volontariato, il mercato esplicitamente riconosce che le sue sole leggi e dinamiche non sono in grado di soddisfare tutte le necessità dell’uomo e non riescono a instaurare quelle relazioni di giustizia che sono fondamentali per la convivenza sociale. In questo senso il mercato riconosce che la sua logica deve essere integrata in una più ampia, quella della gratuità, della donazione. Questa è la sfida che abbiamo davanti, è uno dei grandi temi affrontati da papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate, un testo importantissimo. Ritengo che la categoria della gratuità debba diventare oggetto di una profonda riflessione perché è la dimensione fondamentale della nostra vita.

Come definirebbe la gra­tuità?
La gratuità, potremmo dire, è una «sporgenza» presente nelle nostre relazioni, alla quale siamo tutti sensibili. L’altro sta dando se stesso oppure si limita a instaurare con noi una relazione secondo la logica utilitaristica? Quando ci accorgiamo che manca questa «sporgenza», questo «di più» del dono di sé, noi ne patiamo l’assenza. E manca qualcosa di profondamente umano nelle nostre relazioni.
L’intervista è terminata. Mentre saluto il professor Lintner, ripensando al nostro lungo colloquio non posso esimermi da un’ultima considerazione: pensiamo alla radiosità che vediamo accendersi sul volto di chi ce la fa nella vita anche grazie a qualcosa che noi gli abbiamo dato (cure, pensieri, competenze). In quei momenti – dobbiamo ammetterlo – proviamo una felicità struggente. Ecco, quando siamo intimamente toccati dalla felicità di un altro, felici della sua riuscita, alla quale abbiamo contribuito anche a costo di sacrifici, noi siamo parte di una catena che comincia da Dio: i doni che offriamo, infatti, non sono nostri, provengono da lui. E noi non potremmo provare questa esperienza di felicità – che è ciò per cui vale la pena vivere – se Dio non ci avesse predisposto a sperimentare ciò che lui sente, perché lui è felice quando vede che noi ce la facciamo nella vita: la sua felicità vuole farla provare anche a noi.
 
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017