La carica dei riparatori

Gli italiani comprano sempre meno e riparano sempre di più. Una tendenza ormai consolidata, fotografata dalle indagini di mercato, che inizia a cambiare anche una fetta di economia e a richiedere una nuova generazione di riparatori.
28 Ottobre 2013 | di

Ricordate le sartorie piene di scampoli e di fili colorati? I piccoli laboratori di calzolai che sanno di cuoio e di colla? Le officine dei meccanici di biciclette coi loro arnesi alle pareti e le ruote che penzolano dai soffitti? Li pensavamo estinti, ultimo retaggio di un mondo che non c’è più, soppiantati dall’usa e getta, e invece oggi tornano a ripopolare i nostri quartieri, a volte sotto veste rinnovata, alcuni persino strizzando l’occhio alle nuove tecnologie, messaggeri di un cambiamento che i pessimisti vedono come un ritorno al passato e gli ottimisti come un ritorno al futuro, come possibilità, insomma, di ricominciare, partendo proprio dalla crisi.

Il dato è ormai certo, lo rileva un sondaggio Swg-Cna del 4 ottobre scorso: gli italiani comprano molto meno, piuttosto riparano, rattoppano, riutilizzano. Due su tre hanno ridotto l’acquisto di vestiario, il 60 per cento ha fatto ricorso a riparazioni di sartoria nell’ultimo anno e l’87 per cento tende a recuperare un capo danneggiato e usurato. Discorso analogo per gli elettrodomestici: in caso di rottura, solo il 13 per cento dei connazionali ricorre a un nuovo acquisto, la stragrande maggioranza, l’85 per cento, propende per la riparazione, affidandosi nel 43 per cento dei casi a riparatori professionisti e nel 42 per cento al fai da te, magari chiedendo aiuto ad amici e parenti.

La tendenza a riparare è cresciuta esponenzialmente pro­prio dall’inizio della crisi, raggiungendo dal 2008 un più 48 per cento nell’abbigliamento, più 29 per cento nelle calzature e più 21 per cento negli elettrodomestici. Gli esperti, tuttavia, pur confermando che il motore di questa tendenza è proprio la difficoltà economica delle famiglie, ci intravedono anche l’inizio di un cambiamento culturale: «C’è una necessità oggettiva, ma c’è anche una maggiore consapevolezza ambientale e dei danni provocati dalla produzione incontrollata di rifiuti – spiega Gianfranco Bongiovanni del Centro di ricerca ambientale Occhio del Riciclone –; ormai da molti anni i luoghi di aggregazione pullulano di iniziative, workshop, laboratori sul tema del riuso e della riparazione, che coinvolgono anche i bambini».
 
Alla conquista del telefonino
Il comparto, invece, dove l’acquisto resiste a ogni sensibilità ambientale e vento di crisi è quello dell’elettronica di consumo. Tra computer e telefonini la riparazione è ancora una cenerentola, un po’ perché mettere le mani su un telefonino sembra roba da cervelloni, un po’ perché è difficile resistere alle sirene del marketing e ai veloci sviluppi del settore. Fatto sta che, come ha rilevato Confcommercio solo qualche settimana fa, gli acquisti in telefonia sono aumentati del 77 per cento tra il 2007 e il 2012 e quelli per tv, hifi e accessori del 21 per cento. Ma anche qui il terreno comincia a scricchiolare.

La prima crepa visibile è arrivata in Italia il 4 ottobre scorso. Si chiama «The Restart Project», ed è una via di mezzo tra un’associazione di solidarietà e un’impresa sociale. Nata a Londra circa un anno fa, ha come mission «la diffusione della riparazione collettiva come strumento per diventare cittadini più liberi e consapevoli». A parlare è Ugo Vallauri, originario di Bra (CN), un passato nella cooperazione, cofondatore del progetto. Il mezzo di azione sono i Restart Party, incontri gratui­ti aperti a tutti, per imparare, con l’aiuto di alcuni volontari, a riparare gli oggetti elettronici di qualsiasi natura. Perché aggiustare il nostro telefonino è un modo per essere liberi?

«Il nostro rapporto con l’elettronica di consumo – spiega Vallauri – è spesso più di dipendenza che di uso: abbiamo un’attrazione fatale per tutto ciò che è innovazione, senza però una visione critica. La maggior parte di noi teme di smontare un telefonino, cosa che invece è possibile imparando qualche piccolo trucco. Alcuni modelli sono costruiti appositamente in modo da rendere difficile persino la sostituzione della batteria. In altri casi la batteria è facilmente sostituibile, ma non trovi il pezzo di ricambio attraverso i canali ufficiali. Tutto è funzionale all’usa e getta. Risultato? Lo butti e lo ricompri, ma l’hai davvero deciso tu? Aggiustare significa rendersi conto di tutte queste logiche».

Al primo Restart Party in Italia la gente è arrivata con computer e telefonini, stampanti ed elettrodomestici, come chi va a un incontro a lungo atteso: nel 90 per cento dei casi sono riusciti ad autoriparare i loro oggetti. «Chi viene ai nostri eventi diventa ambasciatore di riparabilità e tende a insegnarlo agli altri» continua Vallauri. L’usa e getta in questo campo crea migliaia di tonnellate di rifiuti, fatti di oggetti potenzialmente funzionanti, contenenti tra l’altro sostanze rare, il cui accaparramento è causa di guerre nei Paesi del Sud del mondo. «Pensavamo di essere tra i primi a condurre quest’opera di sensibilizzazione – commenta Vallauri –, ma attraverso il sito abbiamo scoperto in pochi mesi già trenta realtà al mondo che fanno un lavoro di questo tipo».
 
Un’economia dal basso
Il successo riscosso in pochi mesi dai Restart Party e la virata verso il riuso nello stile di vita degli italiani dimostrano che nel nostro Paese, e in Europa in generale, esiste un grande potenziale di riparabilità e che molti oggetti non vengono riutilizzati perché non si sa come ripararli o a chi farli riparare senza spendere fortune. Potrebbe questa potenzialità avere anche un risvolto economico?

«A mio avviso la tendenza a riparare potrebbe portare a due effetti economici importanti – afferma Guido Viale, economista ambientale –. Il primo è un aumento rilevante dell’occupazione, perché la riparazione, contrariamente alla produzione industriale, è un settore ad altissima intensità di lavoro. Ci vogliono tempo e competenze per mettere mano su qualsiasi oggetto, dai mobili usati ai prodotti di elettronica; è un comparto che in molti casi richiede lavoro qualificato e dà una certa soddisfazione professionale. Il secondo effetto, più a lungo termine, dipenderà dalla diffusione nel territorio di persone capaci di riparare a costi accettabili, magari avendo competenze certificate. È chiaro che, a quel punto, anche per i produttori potrebbe ridiventare un vantaggio competitivo il ritornare a produrre beni durevoli, apribili e riparabili, oggetti, insomma, diversi per qualità e sensibilità ecologica da quelli frutto della tendenza dominante che porta a costruire oggetti destinati a durare solo per alcuni mesi o anni. Sulla riparabilità ci si potrebbe giocare un nuovo marketing».

Le potenzialità perché si rafforzi un’economia del riuso ci sono tutte, però nessuna pianta attecchisce se non trova un terreno fertile. Tanti i problemi concreti, dalla formulazione di un quadro di nuove leggi che considerino e regolino il fenomeno alla formazione professionale dei futuri riparatori. Su quest’ultimo punto l’economista Guido Viale rileva una novità tutta italiana: «Si sta sviluppando dal basso una serie di iniziative di formazione negli spazi autogestiti, soprattutto nelle fabbriche occupate dai lavoratori rimasti senza impiego o nei centri sociali dove forte è avvertita la mancanza di lavoro per i giovani. Prima in questi luoghi si facevano soltanto politica, musica o iniziative culturali; oggi si aprono officine di meccanica, di elettronica, di sartoria, con il preciso intento di creare lavoro. Una novità che dovrebbe essere guardata con interesse dalle istituzioni».
 
Ritorno in officina
L’esempio emblematico sono le Officine Zero, a un passo dalla stazione Tiburtina di Roma. All’interno dell’ex Rsi (Rail service Italia), azienda che riparava i vagoni letto, dismessa da Trenitalia dopo 150 anni di attività, gli operai in cassa integrazione, insieme con un nutrito gruppo di studenti, di lavoratori autonomi e di associazioni sociali – la vecchia e la nuova precarietà, si definiscono loro – hanno cominciato un ambizioso progetto di riconversione industriale e ribattezzato il sito Officine Zero. I laboratori di falegnameria, elettronica, meccanica, tappezzeria, idraulica sono stati riaperti, con un preciso scopo: creare il più grande polo di recupero, riparazione, riuso della Capitale e fornire competenze e opportunità di lavoro a chi voglia entrare nel settore.

Non è l’unico caso. Il Centro di ricerca Occhio del Riciclone, la realtà più rappresentativa del mondo del riuso in Italia, che tra l’altro è un facilitatore del lavoro che si sta facendo nelle Officine Zero, registra un forte interesse dei lavoratori per esperienze di questo tipo: «Attualmente ci hanno contattato alcuni operai di Taranto, ex dipendenti, che vorrebbero costituirsi in cooperativa e hanno professionalità analoghe a quelle di Officine Zero. In Sicilia ci sono gruppi di onlus nel campo del riuso, che vorrebbero fare il salto di qualità e diventare a loro volta cooperative».

Insomma, quella della riparazione è una realtà ancora nel bozzolo, quasi in cerca di autore, di un contorno che la definisca, di un’istituzione che la riconosca, di una legge che la regoli. L’ultimo Rapporto nazionale dell’Occhio del Riciclone la inserisce all’interno della filiera dell’usato, una galassia composita che già oggi conta, soprattutto al Nord, oltre 80 mila addetti, divisi tra circa cinquecento negozi di usato in conto terzi, ambulanti, cooperative sociali. «Ma è difficilissimo fare una stima del numero dei lavoratori o del fatturato del settore – spiega Bongiovanni –, perché il 70-80 per cento del lavoro è ancora nell’informalità». A tutt’oggi non esiste una filiera strutturata del riutilizzo e una legislazione propria, tanto che un negozio dell’usato in conto terzi paga alcuni oneri sulle ormai ex Tares e Tarsu uguali a quelli di un centro commerciale, senza produrre alcuno scarto ma anzi riutilizzando, mentre non è regolata ancora per l’Italia la possibilità data da una direttiva europea, la 98/2008, recepita dal nostro Paese nel 2010, di intercettare, rigenerare e riparare i beni ancora usabili, prima dello smaltimento definitivo.

E mentre l’Italia delle istituzioni, purtroppo, ancora una volta è in ritardo, tra mille fatiche nascono i nuovi riparatori: «Spesso sono giovani – afferma ancora Bongiovanni –, recuperano vecchi mestieri artigiani ma in chiave innovativa, stanno occupando nuove frazioni di riuso, la rigenerazione dei computer, l’utilizzo del software libero, i canali di acquisto attraverso l’on line. Alcuni imparano a riparare oggetti elettronici sempre più complessi, altri sono nel campo creativo, inventano prodotti nuovi, a volte artistici, partendo dai materiali di scarto».

Tra le pieghe di questa storia italiana, che racconta di famiglie che resistono riusando e riparando e di nuovi riparatori che rispondono in modo creativo alla crisi, riemerge un’Italia che non vedevamo da tempo, un’Italia che non si arrende, non si lamenta e che prova a ricominciare da capo. Un Italia più disillusa, forse, ma più consapevole e solidale. Un ritorno al futuro.
 
 

Il filosofo analista
Riparare per ritrovarsi

 
Può la necessità legata alla crisi economica che stiamo attraversando spiegare, da sola, il ritorno alla riparazione? Risponde Romano Madera, ispiratore di un nuovo ramo della filosofia che utilizza l’analisi biografica per leggere i disagi esistenziali e le difficoltà di trovare un senso alla vita.

«Tale tendenza alla riparazione è inevitabile e non è solo di oggi. È ormai comprensione comune che la crescita affannosa e affannata che caratterizza l’epoca consumistica alla fine non è soddisfacente sul piano personale ed è insostenibile sul piano ambientale. Oltre a questo, però, c’è dell’altro. “Riparazione” è un termine importante nella psicanalisi, significa recuperare, in un’altra relazione e in un altro tempo, qualcosa che si è rotto nel passato e ha provocato conflitti e distruttività. Credo che l’usa e getta abbia infranto un’abitudine alla parsimonia vecchia quanto il mondo e che la rottura che ciò ha provocato abbia generato in noi un sotterraneo, inconsapevole, senso di colpa. L’abbondanza diffusa a tutti i ceti sociali è una novità assoluta nella storia dell’umanità, prima il di più era riservato ai giorni di festa o riguardava piccole parti della popolazione. Ma non è questa l’unica causa di dissidio interiore: il mondo globalizzato e interconnesso ci sottolinea costantemente che questa ricchezza riguarda solo una parte del Pianeta a discapito di un’altra e ciò alimenta ulteriormente quel sotterraneo senso di colpa».

Msa. Perché cedere all’usa e getta alla fine non appaga?
Madera. Qualsiasi cosa in noi ha una misura. Per esempio, non possiamo continuare a mangiare oltre un certo limite, lo sforzo che ciò richiederebbe non porta a nessuna soddisfazione. Se io tolgo il limite, allora il desiderio diventa per sua natura insoddisfacente. Il desiderio di infinito fa parte dell’uomo ma se lo applico ai bisogni naturali e necessari come il cibo o il sesso, che sono per loro natura limitati, allora il desiderio diventa profondamente insoddisfacente.

Quanto gli oggetti rappresentano la persona e quali le conseguenze nel cambiarli continuamente?
Insieme alle cose rischiamo di buttar via anche pezzi di noi stessi. Quante volte conserviamo un oggetto perché è memoria di una persona cara, di una storia che ci ha preceduti? La psicologia stessa fa spesso riferimento, per quanto riguarda i neonati, al concetto di «costanza dell’oggetto», cioè alla capacità da parte del bambino di apprendere che l’oggetto o la persona esiste anche se è fuori dalla sua vista. Questa capacità, secondo me, conta molto nella formazione del carattere, per cui è possibile pensare che persone che nascono e crescono in ambienti in cui gli oggetti e i contesti cambiano continuamente abbiano difficoltà a raggiungere una personalità stabile.

Le nuove esperienze di riparazione sono spesso esperienze di reinvenzione di ambiti di lavoro e di relazione. Secondo lei perché?
Viviamo in un sistema economico e produttivo in cui il lavoro è sempre più raro, mal pagato, precario, poco soddisfacente. Oggi meno del 3 per cento di americani (quelli impiegati nell’agricoltura intensiva) è in grado di produrre cibo per 270 milioni di abitanti e rendere l’America il maggior Paese esportatore di prodotti agricoli nel mondo. Inutile negarlo: fondamentalmente il lavoro non c’è. Ma il lavoro non è solo pane, è dignità. Possiamo continuare a vivere in un mondo in cui buona parte degli abitanti si sente escluso ed emarginato? È chiaro che da questa consapevolezza, che ognuno di noi ha nel fondo, nasce l’esigenza di creare nuovi ambiti di lavoro, fuori dal sistema dominante. È uno sforzo collettivo per più ragioni, perché nella complessità in cui viviamo nessun singolo può avere tutte le competenze che servono, e i nuovi mezzi di comunicazione incoraggiano l’incrocio delle conoscenze. Ma è uno sforzo collettivo anche per una ragione più profonda: la necessità di nuove relazioni per creare nuovi orizzonti di senso.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017