Ivan, un giovane in fuga dalla guerra

Solo in Italia i rifugiati sono oltre quindicimila. Scappano da guerre, violenze e persecuzioni. Quasi sempre hanno perso tutto: famiglia, amici, casa. A loro è dedicata, ogni anno, una Giornata, promossa dalle Nazioni Unite.
23 Maggio 2006 | di


Il 20 giugno di ogni anno si celebra la Giornata mondiale del rifugiato. Lo scopo è di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema davvero drammatico. Sono milioni in tutto il mondo le persone costrette a lasciare famiglia, casa, terra, affetti, a causa di guerre, violenze e persecuzioni. Solo in Italia i rifugiati sono oltre quindicimila; nel 2005 sono state poco meno di diecimila le domande d’asilo. Per capire il dramma di questa gente, non c’è nulla di meglio della storia che vi proponiamo di seguito, così come l’ha scritta lo stesso protagonista, Ivan, giovane rifugiato serbo.


«Ho avuto una bellissima infanzia, bellissima e breve. Adesso, ripensandoci, sono cosciente che la mia infanzia è finita a sedici anni.
L’ultimo anno che sono andato al mare con la mia famiglia in Croazia, ricordo che era più forte l’odore della guerra che non del mare.
Il nazionalismo aveva preso forma, pervadeva tutto, era il nutrimento del popolo, del mio popolo. Proprio per questo mi sentivo, quell’estate, come forse si sarebbe potuto sentire un croato in Serbia, il mio Paese, nello stesso momento.
E perché tutto questo? Perché le mani oscure del potere, le ombre influenti che dirige-vano il governo dovevano soddisfare i propri capricci perversi.
Perché si è disfatta la mia patria?
Le versioni sono tante e a me nessuna piace; niente può giustificare quello che è successo, perché non esiste possibile giustificazione.
Guerra. Mi ricordo il suo inizio: una colonna di carri armati e una folla esultante. Nella folla c’ero anch’io e mi chiedevo: “Ma chi è il pazzo? Io o loro?”.
Non riuscivo a esultare perché il fiato mi si era spento in gola; avrei voluto dire a tutta quella gente in festa che i loro figli, i loro mariti stavano andando a morire o a uccidere. Ma non l’ho fatto... avevo paura! Ero lì e avevo la possibilità di studiarli, di vederli da vicino. Stranamente non c’era tra di loro un solo intellettuale, non c’erano gli studenti; c’era unicamente una massa che ignorava quello che realmente stava succedendo, e gente senza scrupoli che voleva raggiungere i suoi obiettivi a qualunque costo, anche disprezzando la legge o le basilari regole del vivere civile.
Grazie al sotterraneo lavoro dei media, finalmente ci odiavamo, e un popolo aveva finalmente trovato i motivi per odiare un altro popolo.
Suona tremendamente stupido».


«L’odio si insinua nella mia vita»

«A quei tempi io non odiavo nessuno. Ho imparato dopo.
Intanto incominciavano a far ritorno i reduci della guerra: a qualcuno mancava una mano, a qualcun altro una gamba, ma avevano avuto una grande fortuna... tornare a casa; tanti non sono più ritornati.
Ho cominciato a odiare Slobodan Milosevic.
E quest’odio mi ha dato la forza di esprimere le mie opinioni, di esternare il mio disprezzo, la mia rabbia. Ma i miei amici erano ormai dei delinquenti forgiati dal regime e parte integrante di esso. Le mie idee non hanno avuto nessuna approvazione, anzi sono stato definito un “traditore”.
Al crescere della consapevolezza che il regime stava rovinando tutto, la vita di ognuno di noi, le amicizie, la stessa società, cresceva sempre di più il mio odio.
Nel frattempo anche per me era arrivato il momento del servizio militare. Ero però consapevole che evitarlo avrebbe significato la prigione e io proprio non volevo lasciare da sole mia madre e mia sorella. Per cui decisi che se mi avessero mandato in guerra sarei scappato, lasciando il mio Paese.
Grazie a Dio, sono stato fortunato perché non mi hanno mandato in guerra, ma a garantire la pace in una regione che in quel momento era molto fragile, il Kosovo.
Pensando che la follia che aveva pervaso tutto il Paese sarebbe finita, prima o poi, e tutto sarebbe tornato alla normalità, quando ho finito il servizio militare ho deciso di iscrivermi all’Università e di lottare contro l’ignoranza, contro il regime. Attraverso un movimento, nato all’interno della Facoltà, organizzavamo manifestazioni di protesta contro il regime, stampavamo dei giornali, cercavamo di rendere visibile tutto il nostro dissenso. Tutto, sempre senza violenza».


L’agguato e la fuga
«Il mio quartiere era prevalentemente abitato da poliziotti, funzionari di governo, generali dell’esercito; si può immaginare con quale facilità mi abbiano segnalato e poi denunciato, tanto che i miei amici mi hanno consigliato di non farmi vedere più lì, perché erano già venuti a cercarmi.
Ho dovuto, quindi, stare lontano, non solo dalla Facoltà ma anche dalla mia famiglia, per un po’ di tempo.
I modi di repressione erano tanti: lettere dal tribunale, mandati di cattura ingiustificati. Ma questo ha avuto l’effetto di riaccendere con più forza le nostre proteste. Non era questa meschina dimostrazione di potere a farci paura. Vedendo che i mezzi legali non aiutavano, hanno iniziato a sperimentare dei metodi un po’ meno legali. Proverò a spiegarmi: il regime prevedeva due forze parallele, una legale, la polizia e i servizi segreti, e una illegale, formata da criminali scelti e addestrati dai servizi segreti stessi. Questi criminali, in pratica, facevano dei favori al regime, in cambio dell’impunità per le proprie attività illegali. Dunque, vedendo che gli arresti e le minacce non sortivano gli effetti sperati, il regime sfruttò questi ragazzi che non avevano nulla da perdere, pensando che se non era possibile spezzare l’anima dell’opposizione, si poteva, molto più facilmente, spezzare il suo corpo.
E ci sono riusciti, almeno per quanto mi riguarda. Tornavo a casa mia molto raramente, per vedere la mia famiglia e per prendere qualcosa che poteva servirmi. Un giorno ho trovato qualcuno ad aspettarmi. Ho saputo dopo che mi aspettavano da parecchio tempo. Mi hanno accerchiato e mi hanno picchiato con bastoni e spranghe di ferro. Non ricordo esattamente cosa sia successo perché mi si è annebbiata la vista ai primi colpi, ma ero cosciente e l’ultima cosa che ho potuto sentire, prima che mi lasciassero in pace, è stata: “Basta così ragazzi, non dobbiamo ucciderlo!”. Era la voce di un amico d’infanzia, cresciuto insieme a me nello stesso quartiere, che aveva voluto darmi il benvenuto dopo le mie lunghe assenze da casa.
Ancora cosciente ho deciso a quel punto che era necessario lasciare il mio Paese, ma non sono state le botte a convincermi: mi bruciava molto di più il riconoscere nelle braccia violente del regime gli amici che avevano vissuto con me l’infanzia, l’adolescenza, una parte della mia vita».

(Ivan)


Ivan ha dovuto così abbandonare la Serbia. È salito su un camion e ha raggiunto l’Italia. Per i primi tempi è stato ospite in un centro d’accoglienza collegato all’associazione Astalli (dove è stata raccolta la sua testimonianza), poi ha chiesto e ottenuto asilo nel nostro Paese. Adesso, Ivan ha una fidanzata italiana, una casa e un lavoro. Vive le difficoltà dei nostri giovani: le rate del mutuo da pagare, la precarietà del lavoro. «Da qualche tempo – dicono al Centro Astalli – non lo vediamo. Un buon segno: il suo passato, ormai, è lontano».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017