Io ti ascolto dentro me

250 mila italiani ogni anno diventano vedovi. Un’esperienza lacerante, aggravata dall’indifferenza di una società che ha bandito la morte e il lutto. Per risorgere è importante rielaborare la perdita e scavare in sé spazi di rinascita.
24 Ottobre 2007 | di

Sergio se ne è andato da tre anni e tutto intorno parla ancora di lui. Le sue foto, i suoi vestiti nell’armadio. Una presenza-assenza che impregna le stanze, il cuore, l’anima. Raffaella, 49 anni, sa che ancora i conti col dolore non sono finiti e si sta facendo aiutare. «L’ho perso e di colpo ho perso il mio futuro. Se penso alla vita, io penso ancora a quella con lui. Svegliarsi insieme, la tazzina di caffè, i viaggi, i discorsi». Anche Mara se n’è andata da due anni, un aneurisma, improvviso. Lui, Angelo, 52 anni, le ha provate tutte per fuggire il dolore: «Cercavo di distrarmi, di uscire, di non parlarne. Tanto a che serviva? Ma la sera, quando poggiavo la testa sul cuscino la disperazione saliva come un fiume in piena, tracimava al di là del mio respiro. Dell’uomo spensierato e un po’ egoista che ero non c’è quasi più traccia. Lei era tutto. Lo sapevo anche prima. D’improvviso mi sono trovato senza, senza il sorriso e le litigate, senza tutte le cose che avremmo potuto fare. Maledette tutte le volte che non le ho detto quanto era importante. Perché proprio a noi?».

Lei, lui, un dolore altalenante, continuo, senza tempo e una marea di sentimenti contrastanti: è questa la condizione in cui si trovano circa 250 mila italiani ogni anno, in maggioranza donne, sopra i 60 anni. La vedovanza colpisce più di qualsiasi guerra o cataclisma ma è completamente ignorata dalla società. Una società che nega il lutto ma esalta la morte sensazionale, aspira all’efficientismo ma non è in grado di affrontare la notte dell’anima, sogna l’eternità ma ha abolito i pensieri eterni, il senso della vita e della morte, quello del limite e del dolore. E chi cade in questa terra di nessuno che è la perdita della persona amata, sperimenta la più grande delle solitudini, pur sapendo d’esser uno dei tanti: «Dopo il gioco sociale delle condoglianze – racconta Raffaella, con amarezza – dapprima i più vicini fanno a gara per invitarti, poi, d’improvviso il telefono rimane muto. E allora capisci che per loro il tuo dolore è un inferno».

«Accettiamo l’icona della morte perché fa spettacolo – incalza Luigi Colusso, psicoterapeuta, responsabile del progetto “Rimanere insieme per l’elaborazione del lutto” dell’Advar di Treviso – rifiutiamo il lutto perché è silenzio, fatica, impegno, cambiamento, discesa agli inferi». Chi resta ha davanti un lungo e faticoso lavoro con il mondo, con i familiari, gli amici, i colleghi, i conoscenti. Nulla più potrà essere come prima. «All’inizio c’è un grande spaesamento. Non ci si riesce a capacitare di ciò che è successo. Non si sa come reagire. Affiorano i sensi di colpa, la percezione di non aver fatto tutto quello che era possibile per salvare l’altro. Con facilità si passa alla rabbia o alla depressione. Si sperimenta che questa solitudine è peggiore di qualsiasi difficoltà della vita di coppia».

Il lutto sconquassa tutte le relazioni. Innanzitutto quelle con se stessi. C’è chi raccoglie i cocci cercando di recuperare scampoli di vita dell’altro: «Mio marito curava l’orto, lavava la macchina, imbiancava: non posso deluderlo, lo farò io per lui – spiega Luisa, 70 anni, vedova da sei mesi –.

Mi accorgo, però, di non riuscirci, mi sento frustrata. Lo sto deludendo? Poi una fitta di dolore: se lo faccio io è perché lui non c’è. E allora, chiamo un altro? No, è come se lo tradissi». Pensieri che s’avvitano uno sull’altro in un crescendo doloroso. «È normale – afferma Colusso – che nei primi mesi ci si senta sempre peggio: è importante saperlo, altrimenti si crede di non aver via d’uscita. Prima di ritornare a galla bisogna accettare di vedere il fondo».


Lui e lei un lutto diverso

Lo sconvolgimento passa nelle relazioni con gli altri. Prima fra tutte, quella con i figli. Questi, quando ci sono, rimangono comunque la risorsa più importante. Stando ai dati Istat, circa il 60 per cento delle vedove e il 51 per cento dei vedovi vedono almeno un figlio tutti i giorni. Ma anche qui, i problemi non mancano. La causa più frequente di conflitti sta nel modo diverso di vivere il lutto da parte degli uomini e delle donne: «L’uomo fa di tutto per non stare in casa – spiega Colusso, con l’ironia tipica di chi conosce il dolore –. Ha difficoltà ad esprimere le sue emozioni, per cui mal sopporta forti esposizioni emotive. Per esempio, il figlio maschio, ancor più se convivente, se potesse metterebbe una tenda in giardino. S’inventa il convegno sulla barbabietola quadrata pur di non rincasare. Torna sempre più tardi. Tende a non parlare del defunto, “tanto è morto”». La donna, al contrario, è geneticamente portata alla narrazione, ritorna di continuo con la mente e il cuore al defunto, ricorda ogni più piccolo dettaglio. «Si chiude in casa, esce il meno possibile, interiorizza».

Ed ecco il gioco degli opposti: la mamma si lamenta perché è sempre sola. Il figlio risponde che a quel convegno non poteva mancare. Lei piange, lui le consiglia di uscire con le amiche o di frequentare l’università della terza età. Lei vorrebbe un appoggio spirituale, e lui invece le chiede: «Hai mangiato oggi?». Lei naviga nella pozza del dolore e lui non sopporta la sua immobilità: «Perché non vieni anche tu al convegno?». Lei si risente ma nell’intimo sa che il consiglio del figlio ha un fondo di verità: dovrebbe reagire, non riesce a farlo, si sente inadeguata, se la prende ancora di più con il figlio perché le sottolinea la sua inadeguatezza.


Imparare a condividere

«In realtà ognuno è chiuso nel proprio dolore e non riesce a capire il dolore dell’altro» spiega Colusso. Sono storie ordinarie, rese ancora più dure dalla completa ignoranza delle dinamiche del lutto, tipica di questa età moderna.

Ma se dal lutto si vuole uscire ricostruiti e aperti al futuro, le strade sono le stesse e spesso, purtroppo, in salita: «Bisogna darsi tempo – afferma Colusso –. Poi lasciare che le proprie emozioni affiorino, qualunque esse siano. Narrarsi e narrare la propria storia finché se ne ha bisogno. Infine venire a patti con quel che è successo, senza comunque mai dimenticarlo. Non si esce facilmente dal dolore senza guardarlo in faccia, senza dargli comunque un senso».

Chi sta vicino alla persona in lutto deve a sua volta mettersi in gioco, usando sensibilità e intelletto: «Ciò che è più sensato è una vicinanza emozionale – afferma Colusso –. Prima di elargire consigli, meglio ascoltare. Permettere all’altro di esprimersi e raccontarsi, anche nelle espressioni più forti e laceranti, anche in quelle all’apparenza più assurde. Se tua madre ti dice che è angosciata perché fuori piove e tuo padre in cimitero si bagna, non dire la frase più semplice, “sei pazza”, consolala: è il suo modo di esprimerti che vorrebbe ancora far qualcosa per lui ma non può. E allora accompagnala, nel modo più congeniale al suo carattere: “Mamma, facciamo insieme qualcosa per lui, raccogliamo le sue foto più belle”».


C’è un tempo per risorgere

C’è un tempo per il dolore ma c’è anche un tempo per la serenità. Lo spazio del lutto non deve e non può essere infinito altrimenti sconfina nella patologia, nella depressione e a quel punto l’aiuto viene anche da uno specialista.

«Se dopo il primo anno – afferma Colusso – la persona non nota segni di cambiamento, bisogna iniziare a preoccuparsi e rivolgersi al medico. Dopo due anni ci dovrebbero essere cambiamenti significativi. Insomma, si dovrebbe aver imparato a lasciare andare la persona defunta senza però dimenticarla e senza essere esenti da sofferenze».

«Nel giorno del compleanno di mia moglie, a distanza di cinque anni, io provo ancora dolore – racconta Alessandro, 60 anni – però questo dolore non occupa più la stanza principale della mia vita: io lavoro, ho riallacciato tutte le relazioni con l’esterno, riesco a gestire le mie emozioni. Ho sofferto tantissimo ma mi sento un uomo migliore, più consapevole delle cose importanti. Non mancherei all’appuntamento con un amico o al parco con i miei nipoti. Ho un piccolo spazio che dedico a lei, quasi un rito: curo ancora i suoi gerani, anzi sono diventato un esperto. Il ricordo di lei è dolce, malinconico, ma non più lacerante. A volte cedo alla tentazione di comprarmi un gelato con i gusti che piacevano a lei. E mi scopro a pensare che, nonostante tutto, io amo la vita anche per lei».


Auto-mutuo aiuto nel lutto. La forza della condivisione


Ad accogliere il lutto e il suo dolore, in una società che non ha orecchie per ascoltarlo, sono una serie di esperienze dal basso: da un lato, i gruppi di preghiera, da molti anni presenti in alcune parrocchie; dall’altro, molto più di recente, i gruppi di auto-mutuo aiuto per il lutto. I primi fondano il loro lavoro sulla fede, i secondi sulla comune esperienza del lutto. Questi ultimi, in particolare, sono un fenomeno nuovo. Nascono una decina di anni fa, sulla scia dell’esperienza degli alcolisti anonimi; sono spesso emanazione delle associazioni e degli hospice che si prendono cura dei malati terminali. Come ogni fenomeno spontaneo, crescono a macchia di leopardo – soprattutto al Nord – ma stanno pian piano diffondendosi anche al Sud. È un fenomeno laico ma a volte si collega a singole realtà religiose. Dopo un periodo di sperimentazione sul campo, hanno iniziato, nel 2001, a mettersi in contatto tra loro, anche per scambiarsi esperienze e affinare metodologie. Nel 2002 è nato un Coordinamento nazionale, di cui oggi fanno parte dieci membri, sparsi in tutta Italia. Il gruppo di auto-mutuo aiuto è composto da un massimo di quindici persone, che si incontrano a scadenza quindicinale. In genere c’è un facilitatore, cioè una guida, spesso una persona che ha concluso positivamente la sua elaborazione, ha fatto degli studi appositi e offre il suo aiuto agli altri. La frequenza è gratuita.

Su che cosa i gruppi basano la loro efficacia? «Chi viene ai gruppi si sente immediatamente accolto e capito – risponde Ornella Scaramuzzi, pediatra di Bari, fondatrice del gruppo “Fuori dal buio” –. E soprattutto non è più solo. Sa di poter essere se stesso nella verità del suo dolore e può confrontarsi con il dolore degli altri. Chi è nel gruppo ha tipi di lutto e stadi di elaborazione differenti e ciò aiuta il lavoro degli altri, perché porta a non assolutizzare il proprio dolore. Se uno è pronto ad andarsene, io gli chiedo di venire un’ultima volta per testimoniare agli altri membri perché non ha più bisogno del gruppo. Tutto ciò dà sollievo a chi ha un percorso più faticoso».

Non c’è il rischio del dolorismo o dell’improvvisazione? «Ai gruppi non ci si piange addosso, si cercano le strategie per uscire, spesso basandosi su esperienze “altre” della vita comune. Certo il rischio del dolo­rismo è in agguato, ed evitarlo sta alla bravura del facilitatore. Per quanto riguarda la metodologia, tutti i gruppi lavorano sulla scorta della preparazione psico-relazionale. Poi bisogna capire che frequentare il gruppo di auto aiuto non è come anda­re da un medico o uno psicologo che ti offre un servizio ma è altro da te. Esso si basa sulla condivisione e soprattutto sulla capacità di mettersi in gioco e scambiarsi esperienze a tutti i livelli: emozionali, pratiche, affettive, psicologiche e spirituali».

Da qualche tempo, un’altra associazione, il «Gruppo eventi», sta sperimentando alcuni gruppi di auto-mutuo aiuto via internet: due di questi riservati ai vedovi e alle vedove. I gruppi sono privati, quindi si accede su invito, sono senza facilitatore e con un massimo di otto partecipanti. E soprattutto sono gratuiti. Ci sono però delle regole d’oro da seguire: parlare in prima persona, mettersi in gioco, far risuonare l’esperienza dell’altro nella propria, non commentare o esprimere giudizi sulle emozioni degli altri e non offrire soluzioni e consigli. Dopo la sperimentazione, quali i vantaggi e gli svantaggi? «Lo svantaggio più grande – afferma Lorenza Raponi, una delle responsabili del progetto – è quello di non poter incontrare le persone e quindi non poter cogliere il valore dei messaggi non verbali, le espressioni del volto, il tono della voce. Da qui nasce anche il bisogno di avere continui feedback sui propri messaggi, “li avete ricevuti, li avete letti?”. Di contro, i vantaggi sono molti: si può partecipare a un gruppo di auto-mutuo aiuto anche se non c’è nessuna esperienza simile sul territorio o se si è particolarmente riservati. I tempi più lunghi della scrittura permettono una maggiore riflessione e un’elaborazione più attenta. In più la registrazione on line di tutti i messaggi e il potersi in ogni momento collegare dà la sensazione di una porta sempre aperta».



Spiritualità. Quando la morte è l’humus della vita


Nella Chiesa come nella società è necessario rieducarci al morire per poter rieducarci al vivere.

 

Il lutto scuote la fede. E le domande di senso si moltiplicano. Domande da girare a un sacerdote che con il lutto fa i conti tutti i giorni. Luigi Corciulo, parroco, cappellano dell’ospedale di Siracusa e fondatore del gruppo di auto-mutuo aiuto per il lutto «Il girasole». Sarà lui il prossimo coordinatore dell’annuale convegno dei gruppi di auto-mutuo aiuto che si terrà a Siracusa dal 29 febbraio al 2 marzo. Tema: la spiritualità.

Msa. Che cosa risponde a chi le chiede: «Don Luigi perché Dio mi ha fatto questo»?

Corciulo. È la reazione più immediata, un grido di dolore, una richiesta disperata di ascolto. Credo che l’atteggiamento più giusto sia farsi strumento di questo ascolto senza tante parole. Nel tempo ognuno di noi arriva a comprendere che se Dio è amore, questo dolore non Gli appartiene: è frutto della nostra creaturalità. E che anzi è Lui l’unico in grado di accompagnare le nostre fragilità.

L’incapacità di accompagnare le persone in lutto spesso coinvolge anche le comunità parrochiali. Che fare?

Penso che nella Chiesa, come nella società, sia necessario rieducarci al morire per poter rieducarci al vivere. Oggi spesso i funerali sono lo specchio di ciò che succede fuori: veloci, anonimi, soprattutto in città. Tutto per non coinvolgerci troppo e perdere l’efficienza. Il dolore invece imbarazza, impone una sosta intorno alla Croce. E così chi è in lutto non trova quella consolazione che un tempo era patrimonio delle nostre comunità. Eppure nel lutto c’è una grande domanda di Dio.

Il consiglio che in genere si dà è quello di rifugiarsi nella preghiera.

È il consiglio più facile, ma non è detto che funzioni per tutti. Il lutto è un evento complesso che mette in gioco tutta la persona, non solo la sua fede, con il rischio di mortificare la dimensione umana, fondamentale nel percorso di elaborazione, anche per chi ha fede. E allora noi possiamo diventare strumenti di viaggio. Penso che l’immagine più emblematica dell’accompagnamento sia quella di Emmaus: Gesù avrebbe potuto far risparmiare tempo e strada ai discepoli svelando subito loro che era risorto. Invece si è messo accanto, ha ascoltato i loro lamenti perché essi avevano bisogno di cercare Dio attraverso il confronto con il loro dolore. A noi, uomini contemporanei, il dolore sembra solo tempo sprecato e invece è il momento in cui l’umanità diventa spiritualità.

La fede aiuta?

La fede è una risorsa in più. Non lo dico perché sono prete ma in base all’esperienza. Però anche quando la fede manca, credo che la spiritualità, come raggio un po’ più ampio, sia una dimensione che l’uomo deve essere aiutato a scoprire, perché appartiene a tutti. La fede può essere un obiettivo ma la spiritualità è una sosta obbligata. Nel mio gruppo non ho mai imposto la mia fede ma alla fine del percorso di elaborazione le persone mi chiedono di pregare.

Il lutto è solo dolore?

È anche un viaggio nell’essenzialità perduta. Nel lutto i ruoli, i successi, ciò che abbiamo raggiunto nella vita, magari a discapito di cose importanti, vengono ripensati e rimessi in ordine di priorità. Le persone in lutto parlano sempre di un prima e di un dopo, e il dopo è sempre più autentico ed essenziale.

Rimane il bisogno di contatto con il defunto, e c’è chi si rifugia nel paranormale.

Ho molto rispetto anche per queste persone, anche se io sono molto scettico. All’inizio mi limito ad ascoltare, se la relazione si approfondisce cerco di far capire loro che ciò che ora dà sollievo potrebbe tramutarsi in un limite. Il rischio è di bloccare il lutto e di rovinarsi sia psicologicamente che economicamente, perché c’è chi specula su questo dolore. Dobbiamo invece educarci a sentire i nostri defunti dentro di noi, a riconoscerli in ciò che ci hanno insegnato.

Uno dei problemi delle persone vedove è di vivere l’apertura al futuro come colpa.

Il senso di colpa è ciò che più blocca l’elaborazione del lutto. È una reazione normale nei primi tempi, ma poi si deve arrivare a distinguere che ciò che noi facciamo nella nostra dimensione non intacca il cammino dell’altro. Anzi alcune forme di fedeltà, specie nelle vedove, rischiano di diventare ossessioni. Quell’amore ci ha arricchito, ma si è concluso. È tempo di tornare a vivere.


Scrivi al messaggero

Il «Messaggero di sant’Antonio» svolge da decenni un servizio di assistenza via lettera o e-mail che coniuga gli aspetti spirituali con quelli psico-sociali dell’elaborazione del lutto. Vi rimandiamo, per ulteriori informazioni, all’articolo a pag. 60.

Chi volesse intervenire sul tema del lutto e inviare il suo punto di vista alla redazione può spedire una e-mail a redazione@santantonio.org o scrivere a Redazione – Messaggero di sant’Antonio, via Orto Botanico 11, 35123 Padova (PD).


Indirizzi auto-mutuo aiuto

- Rimanere insieme, Advar – Treviso tel. 0422 432603; cell. 348 0012773; sito www.advar.it

- Gruppi arcobaleno – Milano tel. 02 71511214; cell. 335 366496 sito www.automutuoaiuto.com

- Associazione Gruppo Eventi tel. 06 86207554; sito www.gruppoeventi.it

- Fuori dal Buio – Bari tel. 080 5044294; cell. 338 9155818

- ll Girasole – Siracusa tel. 0931 68453; cell. 338 3555080


Servizi ai vedovi

- Il Melograno – Roma. Associazione per i diritti civili delle persone vedove
tel. 0832 352383; cell. 328 9282766



LIBRI.


Sulla morte e l’aldilà. Trentacinque domande, trentacinque risposte, edizioni Messaggero, euro 8,00.


I giorni rinascono dai giorni. Condividere la perdita di una persona cara in un gruppo di auto-mutuo aiuto, a cura di Livia Crozzoli Aite - Roberto Mander, edizioni Paoline, euro 20,00.


Senza di te. Come sostenere chi è in lutto, di Rosette Poletti, Barbara Dobbs edizioni Città Nuova, euro 8,00.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017