Indagine sull’uomo che ha cambiato il mondo

Chi era Gesù di Nazaret? Uomo o Dio? Profeta o Messia? La discussione non inquieta più solo gli studiosi, ma, sulle ali del successo di libri e film, ha coinvolto il grande pubblico.
22 Febbraio 2008 | di

Chi era veramente Gesù di Nazaret? Oggi la domanda non inquieta più soltanto, come in passato, una cerchia ristretta di studiosi, ma vola sulle ali del successo strepitoso di libri e di film che raggiungono il grande pubblico e lo coinvolgono. Sono in tanti, anche qui in Italia, ad aver letto Il Codice da Vinci (Milano 2003) e ad averne visto la trasposizione cinematografica. Sono in tanti anche ad aver letto Inchiesta su Gesù (Milano 2006), l’intervista di Corrado Augias a Mauro Pesce, che sulla storia del cristianesimo è considerato un esperto. Senza parlare del libello provocatorio – ma anch’esso vendutissimo – di Piergiorgio Odifreddi Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) (Milano 2007).


L’accusa

Opere diverse, ma che hanno in comune la negazione della divinità di Cristo. Anche tralasciando la lettura romanzata di Dan Brown, ci troviamo di fronte a un vero e proprio «processo» che ha come imputato il personaggio umano e al tempo stesso divino che da duemila anni è oggetto della fede e del culto della Chiesa. L’accusa è la stessa di allora: in termini giuridici, «millantato credito»: «Perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33).

Secondo l’autore de Il Codice da Vinci, tutto sarebbe cominciato con il concilio di Nicea, convocato, a quasi trecento anni dagli eventi, per volontà dell’imperatore Costantino: «Fu tutta una questione di potere (...) Cristo come Messia era indispensabile al funzionamento della Chiesa e dello Stato» (p. 274). «Fino a quel momento storico, Gesù era visto dai suoi seguaci come un profeta mortale: un uomo grande e potente, ma pur sempre un uomo» (p. 273), per di più regolarmente sposato con Maria Maddalena, dalla quale avrebbe avuto una figlia.

Con ben altra pretesa di scientificità, anche Pesce sostiene che Gesù era, in realtà, soltanto un entusiasta rabbi ebreo, che non voleva fondare un nuova religione e la cui dottrina rientrava pienamente nella tradizione del suo popolo: «Non c’è una sola idea o consuetudine, una sola delle principali iniziative di Gesù che non siano integralmente ebraiche» (p. 26). E la fede in lui come Figlio di Dio, allora? Sarebbe nata molto più tardi, nel II secolo, a opera della Chiesa, che ne nascose la vera fisionomia di ebreo per farne una figura celeste.

Più riduttiva ancora la ricostruzione di Odifreddi: per lui Gesù era «un uomo nato da un padre naturale diverso da Giuseppe, abile guaritore di malattie psicosomatiche e morto in croce come disturbatore della pubblica quiete: il resto è favola, pure per i biblisti (o almeno, per quelli seri)» (p. 105).

Certo, davanti a queste liquidazioni sommarie non si può evitare di chiedersi come mai un simile individuo, del tutto comune, sia stato – come dice il sottotitolo dell’opera di Augias e Pesce – «l’uomo che ha cambiato il mondo». Saremmo davanti a un miracolo forse più grande ancora di quelli che i vangeli attribuiscono a Cristo!


Le prove

Ma su che basi gli accusatori costruiscono la propria arringa? Decisivi, secondo loro, sono stati i ritrovamenti di Nag Hammadi (Alto Egitto, 1945), e di Qumran (presso il Mar Morto, 1947), specialmente il primo, grazie al quale siamo venuti a conoscenza di alcuni documenti – i cosiddetti «vangeli gnostici» – comprovanti, secondo questi autori, che «all’inizio, nel primo cristianesimo, i cosiddetti “vangeli” erano molto numerosi» e non si riducevano ai quattro «canonici» che la Chiesa ha conservato. «A un certo punto si decise di sceglierne alcuni proclamandoli i soli “autentici”, ed escludendo di conseguenza tutti gli altri» (Augias-Pesce, p. 9).

Se ciò fosse vero, saremmo effettivamente davanti a una grave manipolazione. Ma lo è? Lasciamo la risposta a Elaine Pagels, la più accreditata studiosa (citata anche da Pesce) della corrente di pensiero che va sotto il nome di gnosticismo e, in particolare, dei vangeli che vi si ispirano. La Pagels spiega chiaramente che, per gli gnostici, Gesù era un maestro dal quale prendere le mosse per andare oltre. Nei discorsi che gli attribuiscono, perciò, essi non esitano a mettergli in bocca i loro personali pensieri: «Come i circoli artistici d’oggi, gli gnostici consideravano l’invenzione creativa originale un segno di raggiunta vitalità spirituale (…). Chi si limitava a ripetere le parole del maestro era giudicato immaturo» (I vangeli gnostici, Milano 2005, p. 62).

Ancora più netto il giudizio del maggiore specialista italiano di questi vangeli, Luigi Moraldi: «Ci si domanda come mai opere di questo genere si intitolano ancora “vangeli”», visto che sono «così poco interessati della vita terrestre, storica, di Gesù» (Introduzione a Apocrifi del Nuovo Testamento. I più antichi testi cristiani, Milano 1989, p. 25). Anche se ci troviamo davanti delle raccolte di discorsi attribuiti a lui, «i maestri gnostici, autori dei nostri Vangeli, non presentano queste e tante altre espressioni del genere come “detti” di Gesù; sono loro pensieri scaturiti dalla riflessione» (Introduzione a I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo, Milano 1991, p. XII).

La scelta della Chiesa primitiva di seguire soltanto i vangeli «canonici» appare a questo punto assolutamente ragionevole, se si voleva salvaguardare l’identità storica di Gesù. Ed è veramente strano che Augias e Pesce, il cui libro mira dichiaratamente a riscoprire il vero volto di Cristo «nella sua storicità», «com’era, prima che sparisse sotto la coltre fitta della teologia» (Augias-Pesce, p. 3), non lo abbiano spiegato ai loro lettori.

Ma ancora più strano è che essi pensino di poter stabilire l’ebraicità di Gesù puntando su questi testi che sono nutriti di filosofia greca e si pongono in netta antitesi con l’ebraismo, rifiutando tutto l’Antico Testamento. Recuperare in pieno la consapevolezza che Gesù era un ebreo – troppo spesso rimossa dalla civiltà cristiana – è una delle più importanti acquisizioni della letteratura recente. Ma non sono certo i «vangeli gnostici» che potranno servire a questo scopo!


Il verdetto

In ogni caso, c’è da chiedersi se questa riscoperta dell’appartenenza di Gesù all’ambiente ebraico implichi davvero, come questi autori sostengono, che egli non si considerasse affatto Figlio di Dio e non intendesse fondare una nuova religione. Una smentita drastica a questa tesi viene da una precisa circostanza: lo stesso Pesce ricorda che «Paolo scrive a metà degli anni cinquanta» l’inno della lettera ai Filippesi, dove si dice che Cristo, «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (2, 6 ss). E lo studioso sa bene che «Paolo non inventa tali interpretazioni, le prende da tradizioni già esistenti, formatesi dopo la morte di Gesù» (Augias-Pesce, pp. 92-93). Ora, se Cristo non fosse stato altro che un pio maestro ebreo e non avesse mai preteso di essere più che uomo, come si spiegherebbe che – in un ambiente rigidamente monoteistico – egli sia stato considerato (e per di più all’indomani della più infamante esecuzione capitale!) «di natura divina»?

Ma proviamo a guardare senza pregiudizi i vangeli. Ci accorgiamo che l’affermazione così spesso ripetuta secondo cui Gesù «non trascese mai i limiti del giudaismo» (J. Roloff, Gesù, Torino 2002, p. 117) si rivela insostenibile. A dirlo è un noto studioso ebreo, Jacob Neusner, il quale spiega pacatamente che il motivo per cui si ritiene costretto a rifiutare il messaggio cristiano è che «quella Torah, che Mosè ricevette sul Sinai, si contrappone alla Torah di Gesù» (Un rabbino parla con Gesù, Cinisello Balsamo 2007, p. 32). In un punto, soprattutto: «Secondo il criterio della Torah, Gesù ha chiesto quello che la Torah concede soltanto a Dio» (p. 63). Quale maestro potrebbe dire, infatti, di fronte ai comandamenti divini: «Avete inteso che fu detto agli antichi (...). Ma io vi dico…» (Mt 5,21 ss)? Quale maestro potrebbe mettersi così al centro del regno di Dio da ritenerlo realizzato per il solo fatto della sua presenza (cfr. Lc 11,20)? Quale maestro potrebbe affermare: «Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me» (Mt 10,37)? Gli uomini eccezionali sono quelli che non mettono se stessi in primo piano. Se Socrate avesse avanzato una simile pretesa noi non potremmo ammirarlo come facciamo. E neanche gli altri fondatori di religioni lo hanno fatto. Solo se Gesù era più che un uomo possiamo apprezzarlo anche come uomo. Odifreddi termina il suo esame emettendo il proprio «verdetto sul Cristianesimo. Che, ovviamente, è la condanna capitale» (p. 223). Ma la conclusione del processo a Gesù è, piuttosto, la condanna di tutti i tentativi contemporanei di ridurlo alla dimensione puramente umana. La divinità di Cristo non è un’invenzione della Chiesa. E, nel moltiplicarsi dei tentativi negazionisti, i cristiani sono chiamati a mostrarne l’inconsistenza non solo di fronte alla fede, ma alla ragione e alla storia, obbedendo alla raccomandazione di essere sempre pronti a rendere ragione della loro speranza.    



Un falso letterario     

Il «Codice da Vinci»: storia di una mistificazione

di Massimo Introvigne

 

Analisi di un fenomeno editoriale discusso, che ha sollevato numerose proteste nel mondo cattolico.


Avendo scritto su Il Codice da Vinci (in particolare nel mio libro Gli Illuminati e il Priorato di Sion, Piemme, Casale Monferrato 2005), mi è capitato spesso di essere invitato a parlarne in pubblico: e di fronte a pubblici, con i tempi che corrono, di dimensioni strabilianti. Che cosa vengono a sentire queste centinaia, talora migliaia di persone? Non la critica di un romanzo: se un romanzo sia bello o brutto è cosa che ciascuno può decidere da solo.

No: l’autore, Dan Brown, si affanna a spiegare in ogni sede che il suo non è un romanzo. Dichiara che la pagina più importante del libro è pagina 9, peraltro scomparsa dalle ristampe italiane successive alla sesta, ma ora ricomparsa. Sotto il titolo «Informazioni storiche», Brown assicura che tutto quanto afferma a proposito del Priorato di Sion – la misteriosa società che custodirebbe il segreto secondo il quale Gesù Cristo e la Maddalena, sposati, avrebbero avuto figli i quali avrebbero dovuto (loro, non gli apostoli) governare la Chiesa e i cui discendenti esistono ancora oggi – è rigorosamente provato da pergamene «note come Les Dossiers secrets» che sarebbero state «scoperte presso la Bibliothèque Nazionale di Parigi nel 1975».


In realtà, presso la biblioteca parigina sono stati non «scoperti» ma «depositati», e nel 1967 non nel 1975, una serie di documenti – tra i quali alcuni chiamati Les Dossiers secrets – che non sono pergamene, ma testi che parlano del modo di interpretare certe pergamene. Vi emerge un primo abbozzo della storia del Priorato di Sion, poi rielaborata nel 1982 dall’ex attore inglese Henry Lincoln e dai suoi collaboratori Baigent e Leigh nel loro Il Santo Graal, in una forma così simile a Il Codice da Vinci che solo per ragioni tecniche Dan Brown ha vinto a Londra una causa nella quale Baigent e Leigh gli chiedevano i danni accusandolo di avere scopiazzato il loro libro.

Gli storici sanno da almeno vent’anni che i documenti del 1967 sono falsi. Non hanno neppure più bisogno di analizzarli, perché le tre persone coinvolte nella fabbricazione dei testi e nel loro deposito alla Biblioteca Nazionale di Parigi – Pierre Plantard, Philippe de Chérisey e Gérard de Sède – hanno tutte confessato, ampiamente e per iscritto, di avere confezionato documenti falsi a sostegno di una storia dalla quale speravano di ricavare fama e quattrini. Chérisey, l’autore materiale del falso, è morto nel 1985 lasciando scritto nel suo testamento che vent’anni dopo avrebbe dovuto prima essere inviato a un certo numero di studiosi (tra i quali il sottoscritto, che aveva conosciuto a suo tempo l’ambiente e i protagonisti dell’invenzione del Priorato di Sion) e poi pubblicato (nel 2006) un suo testo, Pierre et papier, dove spiega anche i più minuti dettagli della fabbricazione dei falsi documenti. È dunque un fatto del tutto certo che Il Codice da Vinci riposa su una mistificazione smascherata come tale da vent’anni e i cui rei sono confessi.


Perché allora ha venduto sessanta milioni di copie? Posso proporre tre piste. Più la storia delle vicende umane si fa complicata, più riemerge la tentazione di spiegarla in modo semplice come un unico grande complotto: del Priorato di Sion, degli Illuminati (protagonisti dell’altro romanzo di Brown Angeli e Demoni) o del Vaticano. Cadute le ideologie, torna la voglia di irrazionalismo e di esoterismo. Inoltre – bisogna pur dirlo – la Chiesa e il Papa danno fastidio a lobby potenti, e tutto quanto è anticattolico si vende anche grazie a media che battono immediatamente la grancassa.

La notizia, però, è che Il Codice da Vinci ha determinato anche salutari reazioni.

Dagli Stati Uniti all’Italia i cattolici si sono mostrati stufi di essere pubblicamente diffamati e si sono radunati in gran numero per protestare. Certo, è stato loro insegnato a porgere l’altra guancia. Ma – come ebbe a dire Giulio Andreotti dopo uno dei suoi processi – il Maestro, nel dare questo insegnamento, sapeva bene che abbiamo solo due guance.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017