Imparare a vivere insieme

Come sta cambiando il nostro Paese? Il XVIII Dossier statistico di Caritas e Migrantes sull’immigrazione nel nostro Paese offre lo spaccato di una situazione in veloce mutamento.
25 Settembre 2008 | di


Ma proviamo a essere sinceri fino in fondo, almeno con noi stessi se non proprio con gli altri: quanti di noi la pensano allo stesso modo? Quanti vivono quotidianamente sulla propria pelle le difficoltà concrete dell’integrazione?
Si fa presto a tuonare contro il razzismo quando il problema non ci tocca più di tanto. Ma quando vengono messe in crisi le nostre abitudini di vita, gli interessi dei nostri figli o il nostro portafoglio, le cose cambiano. Sarebbe il caso, allora, di conoscere più da vicino questo universo, l’impatto che ha sulla nostra realtà quotidiana, partendo dai dati e dalle proiezioni statistiche per poi andare oltre, con una riflessione più profonda.
Un carattere determinante viene offerto dalle anticipazioni che è possibile dare del prossimo «Dossier Statistico Immigrazione» Caritas/Migrantes. Dal 1991 il Dossier descrive le vicende dell’immigrazione in Italia. Il XVIII Rapporto dedica gran parte delle 512 pagine di statistiche commentate a descrivere la situazione attuale; sono quasi uno spaccato «in presa diretta» del nostro Paese, di come sta cambiando, di che cosa è destinato a diventare.

Il primo termine di confronto sono i dati dell’Istat. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica − che lo scorso 19 giugno ha pubblicato le previsioni sulla popolazione per il periodo 2007-2051 − i cittadini stranieri residenti (ossia iscritti nelle anagrafi comunali) sono passati, tra la fine del 2006 e il 2007, da 2 milioni 939 mila a 3 milioni 460 mila. Per il Dossier, invece, la popolazione straniera regolare è più numerosa: si eleva fino a 3,8-4 milioni di persone, più della metà concentrate nelle regioni del Nord che, insieme con quelle del Centro, offrono le maggiori opportunità lavorative. Sempre secondo il Dossier Caritas/Migrantes, l’incidenza sulla popolazione è del 7 per cento, con una diffusione disuguale sul territorio. Un’incidenza destinata, in un prossimo futuro, ad aumentare, se si considera che i nuovi nati stranieri sono circa 65 mila e i minori quasi 800 mila (600 mila dei quali frequentano le nostre scuole). Passando al mondo produttivo, i dati del Dossier affermano che i lavoratori stranieri sono circa 2 milioni, con un’incidenza del 10 per cento sul numero complessivo delle persone occupate.
«L’immigrazione risulta una dimensione strutturale della società italiana – spiega Franco Pittau, coordinatore dell’indagine –. Facciamo fatica, però, a prenderne atto perché, fino a ieri, ci siamo considerati, e per certi versi lo siamo ancora, un Paese di emigrati: sparsi in tutto il mondo, infatti, ci sono più di tre milioni di italiani (ma se si considerano tutte le persone di origine italiana, compresi i discendenti, si superano i 60 milioni), numero destinato a essere presto superato proprio dagli immigrati. Dobbiamo prepararci a questo “sorpasso”».

Che cosa avverrà domani?

Caritas e Migrantes insistono in modo particolare sulle prospettive di evoluzione della presenza immigrata. Secondo l’indagine, la previsione più realistica di nuovi ingressi dall’estero non viene ritenuta quella di 150 mila o 200 mila unità l’anno (scenario definito «medio/basso»), bensì quella di 250 mila (scenario «alto»). Per capire che cosa questo significhi, è sufficiente utilizzare come termine di paragone la quota di nuovi lavoratori entrata in Italia nel corso del 2007: sarebbero stati 170 mila i nuovi ingressi (esclusi gli stagionali), circa 90 mila le persone giunte per ricongiungimenti familiari e altre poche decine di migliaia arrivate per motivi non strettamente di lavoro.

Le previsioni, per quanto attendibili, devono però fare i conti con tutta una serie di variabili. Tra le più importanti, il livello e la composizione dei flussi, il loro spostamento nel Paese, l’atteggiamento delle donne nei confronti della maternità, le possibili modifiche normative. A tale riguardo i dati del Dossier fanno emergere una tendenza al rialzo: nel 2051 gli stranieri oscilleranno tra i 12,4 milioni prospettati dallo «scenario alto» e i 9 milioni dell’improbabile «scenario basso», raggiungendo un’incidenza del 16-18 per cento pari, o molto vicina, a quella che attualmente si riscontra nei Paesi con più alta presenza di stranieri (Canada, Australia, Svizzera).
«Quando si parla di aumento dell’immigrazione – prosegue Pittau – si rischia di provocare il panico, quasi che la popolazione italiana sembri destinata all’estinzione. Bisogna imparare a pensare, invece, secondo un criterio di complementarità. Stiamo più che tranquilli: noi italiani ci saremo ancora, ma avremo bisogno degli stranieri». Secondo le proiezioni, infatti, gli italiani non sono una popolazione a rischio demografico, almeno immediato, ma sono comunque destinati a diminuire. Anche a questo riguardo si possono prevedere due scenari: in quello «alto», più realistico, la prospettiva è di 54,9 milioni di italiani; in quello «basso» scendiamo invece fino a 46,7 milioni, con una diminuzione, rispettivamente, di 1,3 milioni nella prima ipotesi e 9,5 milioni nella seconda. «Sarà dunque una fortuna se il numero degli immigrati aumenterà – sottolinea ancora il coordinatore del Dossier –. Essendo più giovani, si dimostreranno assolutamente indispensabili non solo in campo assistenziale (come badanti o collaboratori familiari, per esempio), ma anche per tenere in piedi il sistema produttivo e previdenziale. Oggi gli ultrasessantacinquenni italiani sono 12 milioni, nel 2051 saranno 22 milioni, 1 ogni 3 residenti, una proporzione che deve indurci a ragionare».

Se dunque già oggi siamo un grande Paese di immigrazione, siamo destinati a diventarlo ancora di più. Ma questa sarà per noi un’opportunità, non una condanna. Serve allora una politica aperta e realistica, chiamata a rapportarsi, su più fronti, con questa presenza indispensabile per ragioni demografiche e lavorative.
La politica migratoria non si esaurisce nei provvedimenti di sicurezza. Perché immigrazione non è sinonimo di delinquenza. Per questo alcuni provvedimenti del cosiddetto «pacchetto sicurezza» possono suscitare qualche perplessità.
«Se il futuro dell’Italia non può essere pensato senza un consistente contributo degli immigrati – insiste Pittau –, il contenimento, la repressione, le misure penali non possono essere proposte come l’essenza della politica migratoria, in quanto sono una parte residuale che entra in azione in presenza di comportamenti difformi rispetto alla norma».

Gli immigrati che giungono nel nostro Paese sono decisi a rimanervi, e sempre di più in maniera stabile. Se si analizzano in maniera approfondita i dati, si coglie, ad esempio, che gli immigrati regolari (i vicini di casa, per intenderci), di solito non hanno pendenze con la giustizia e il loro tasso di criminalità è uguale a quello degli italiani. Si tratta di circa quattro milioni di persone che, da una parte, sono i primi a essere d’accordo con le misure necessarie per garantire l’ordine pubblico, e, dall’altra, sostengono che serve un «pacchetto integrazione» del quale poco si parla e che ci vede molto in ritardo rispetto ad altri Paesi.

Il «pacchetto integrazione»

La questione di fondo parte quindi da un paradosso: non si può avere strutturalmente bisogno dell’immigrazione senza volere gli immigrati. Non basta considerarli lavoratori indispensabili nelle fabbriche e nelle famiglie, ma bisogna ritenerli partner accettabili nella quotidianità delle nostre città e in ogni contesto di vita, anche dopo l’orario di lavoro. Bisogna, in definitiva, parlare di integrazione, che significa dedicare a questo scopo maggiori risorse e impegno, a tutti i livelli. Come ha osservato monsignor Vittorio Nozza, direttore della Caritas, presentando una delle sezioni del Dossier, il collante di cui necessita una società multiculturale sono «le disposizioni in grado di accogliere i nuovi venuti, sostenendoli con l’offerta di pari opportunità, incentivando e fluidificando la convivenza».

In sintesi: stanziare investimenti consistenti per risolvere il problema della carenza di alloggi a fronte di un così gran numero di arrivi; rivedere i meccanismi d’ingresso e di soggiorno che vanno regolati affinché, sul piano pratico, le presenze siano gestibili dal punto di vista normativo e burocratico; stabilire sostegni adeguati ai processi di integrazione (negli uffici pubblici, nella scuola, nella società), pensando a offrire spazi di partecipazione sempre più ampi (è il caso della revisione della legge sulla cittadinanza e dell’apertura al voto amministrativo).

Perché integrazione significa imparare a vivere insieme. Molti italiani pensano che ad apprendere questa lezione debbano essere solo gli immigrati.

È tempo, invece, di convincere noi stessi – ed è questo, in fondo, il tema conduttore del Dossier – che tutti siamo chiamati in causa.        

i numeri

3 milioni 460 mila i cittadini stranieri residenti in Italia nel 2007 per l’Istat;

4 milioni secondo il Dossier Caritas/Migrantes;

> 7% l’incidenza sulla popolazione complessiva;

65 mila i nuovi nati;

800 mila i minori, di cui 600 mila iscritti nelle scuole di vario ordine e grado;

2 milioni i lavoratori, con un’incidenza del 10% sul totale delle persone occupate;

40 mila le nuove acquisizioni di cittadinanza;

170 mila i nuovi lavoratori in un anno, stagionali esclusi;

90 mila i ricongiungimenti;

16-18% l’incidenza sulla popolazione nel 2051, pari o vicina a quella di Canada, Australia e Svizzera.

Emilia-Romagna

All’avanguardia nella costruzione dei diritti

È la prima Regione in Italia ad aver fatto una legge in materia di politiche per l’integrazione dei cittadini stranieri. Oggi in Emilia-Romagna ci sono 365 mila immigrati, pari all’8,2 per cento della popolazione, valore che però supera il 10 per cento in 79 Comuni. Una presenza sempre più stabile e destinata a crescere visto che più del 20 per cento dei nuovi assunti è composto da lavoratori stranieri, oltre il 20 per cento della popolazione da minori stranieri, e più del 20 per cento dei nuovi nati ha la madre senza cittadinanza italiana. E per il futuro lo scenario non è destinato a cambiare, anzi.

«La prospettiva, semmai, è quella di un costante aumento del fenomeno migratorio anche nei prossimi anni – conferma Andrea Stuppini, dirigente regionale del Servizio Politiche per l’Accoglienza e l’Integrazione Sociale –. Si può ipotizzare che, nel futuro, diminuiranno gli arrivi dall’Europa orientale, ma aumenteranno quelli dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. È ovvia la necessità di politiche adeguate».

Dalle parole, l’Emilia-Romagna è passata ai fatti. Sono stati individuati sei grandi obiettivi, contrassegnati da tre principi di fondo: rimozione degli ostacoli al pieno inserimento; reciproco riconoscimento delle diverse identità; valorizzazione della consapevolezza, da parte dell’immigrato, dei propri diritti e doveri. La Regione li realizza insieme alle istituzioni del territorio, dalle Province ai Comuni, dalle Usl alle scuole, fino al Terzo settore e ai sindacati. Tra gli strumenti attivi anche quelli della partecipazione e della rappresentanza nelle istituzioni locali. È esplicita, ad esempio, la volontà di procedere all’introduzione del diritto di voto amministrativo, qualora fosse consentito dal quadro delle competenze legislative. Gli stranieri sono un’ utenza crescente anche nell’ambito dei servizi sociali tradizionali, soprattutto nelle aree minori e adulti. «Vorremmo evitare – prosegue Stuppini – la costruzione di un sistema di welfare parallelo, o comunque di interventi separati per gli stranieri. Occorre qualificare i servizi abitativi, sociali, scolastici e sanitari salvaguardando le specificità linguistiche, culturali e religiose di cui i cittadini stranieri sono portatori. L’aumento della fruizione dei servizi di welfare non è, di per sé, un indicatore di effettiva integrazione: potrebbe essere, infatti, solo indice di un crescente bisogno di assistenza. Decisivo, invece, il “valore aggiunto” delle politiche di integrazione».

Restano aperti molti interrogativi legati alla Bossi-Fini, conclude l’assessore all’Immigrazione, Anna Maria Dapporto, ad esempio sul meccanismo dei flussi. «La Corte Costituzionale ha ribadito che le competenze dell’integrazione sono di Regione ed enti locali, mentre flussi e contrasto della clandestinità spettano allo Stato. Quando però si è arrivati al nodo risorse, il nuovo Governo prima ha eliminato il Fondo per l’inclusione sociale (100 milioni), poi ha tagliato di circa un terzo (300 milioni) il Fondo nazionale Politiche sociali. Davvero una brutta sorpresa che ci mette tutti in difficoltà».

La storia

Mircea Lipovanda clandestino a imprenditore

Tenacia, capacità di sacrificio e un sogno da rincorrere. Questi gli ingredienti di un successo. Professionale e umano.

In Italia ci è arrivato come tutti. Da clandestino. Con sé, in quel lungo viaggio, dalla Romania di Ceausescu all’Italia della speranza, solo una valigia. Al suo fianco, in un’avventura che non sapeva come sarebbe andata a finire, anche la moglie Gabriela, all’epoca incinta di sei mesi. Nel suo Paese Mircea Lipovan, di Bucarest, quarant’anni in questi giorni, era una giovane promessa della squadra di calcio Steaua. Nel nostro Paese si è inventato di tutto pur di sopravvivere. Ha fatto, di volta in volta, lo stalliere, il cameriere, il parcheggiatore e il giardiniere. Oggi, dopo anni di sacrifici, è un affermato imprenditore alla guida di un’azienda che si trova a Padova, specializzata nella vendita e nella manutenzione di giardini. Un lavoro e una passione che gli hanno valso prestigiosi riconoscimenti di settore.

Msa. Perché è fuggito dal suo Paese?

Lipovan. Vivevo a Bucarest, in un quartiere alla periferia della città. Nella Romania di allora la mia strada era già stata, in qualche modo, tracciata: a 8 anni ero già «pioniere con cravatta rossa», quindi, comandante di classe al liceo, infine giovane comunista. Mio padre era un carpentiere, mia madre lavorava in fabbrica. A scuola ero bravo in matematica. E poi giocavo a calcio, ero attaccante. Sin da piccolo ho imparato a guardare avanti. Desideravo qualcosa di meglio, per me e per la mia famiglia. Nella Romania di quel tempo sarebbe stato impossibile. Ho deciso così di partire. Non avevo nulla.

In Italia come si è arrangiato?

Per due anni sono stato irregolare. Ho svolto numerosi lavori, anche quattro contemporaneamente in un giorno: la mattina giardiniere, poi stalliere, la sera cameriere e di notte parcheggiatore. In Italia ho trovato lavoro grazie a un amico. Ho cambiato molte occupazioni, sempre per crescere.

Quando ha deciso di mettersi in proprio?

Due anni fa. Ero già a Padova. Lavoravo al mercato ortofrutticolo, il turno di notte. Così, di giorno, potevo fare il giardiniere. Ho messo da parte un po’ di soldi e ho comprato il primo furgoncino, usato; l’attrezzatura, invece, era tutta nuova. Ho aperto una partita Iva, mi sono iscritto all’Upa (Unione provinciale artigiani) e ho seguito dei corsi di formazione. Poi, ho rilevato un’azienda che era sull’orlo del fallimento. Ne sono titolare con mio cognato. Lavoriamo anche 12-14 ore al giorno, sabato incluso. Ho personale stagionale, tutto straniero. Ma non è una scelta mia: per un italiano fare il giardiniere, come il manovale, è umiliante. Io credo, invece, che non ci si debba vergognare di nessun lavoro, nemmeno dei più umili. Nel nostro settore, se si ha voglia di fare, le opportunità non mancano.

Com’è cambiato il nostro Paese rispetto a quindici anni fa?

Oggi c’è molta più diffidenza. È più difficile far capire che anche se sei straniero sei una persona onesta e non un delinquente. Con le banche, ad esempio, non ho avuto problemi. Con gli enti pubblici, invece, è impossibile lavorare. Gli appalti sono blindati nei confronti degli imprenditori stranieri. Non riesco nemmeno a fare manutenzione nell’aiuola pubblica davanti al mio vivaio.

Ha un sogno nel cassetto?

Mia figlia frequenta l’istituto agrario. Un giorno sarà al mio fianco. Vorrei riuscire a insegnare a lei, e ad altri giovani, quello che ho imparato dalle persone che, all’inizio, mi hanno dato una mano, anche solo permettendomi di star loro vicino per apprendere un mestiere. Mi piacerebbe, poi, quando avrò un po’ di tempo libero, fare l’allenatore. Ovviamente di calcio e nelle squadre giovanili. Sognavo una carriera da attaccante, ma un’epatite mi ha fermato. Lo sport mi ha dato molto, inclusa la capacità di stringere i denti e andare avanti per rincorrere un sogno.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017