Immigrazione: numeri e storie

Il flusso migratorio ieri e oggi. I punti deboli della legge "Bossi-Fini". Stereotipi e pregiudizi. Il confronto per evitare lo scontro. Clandestini a Lampedusa. Quelli che ce l'hanno fatta.
31 Ottobre 2003 | di

Prendo lo spunto da una spiritosa canzone di Giorgio Gaber sulle cose di destra e di sinistra. L'immigrazione non può essere considerata di sinistra, bensì della società : punto e basta. Era abbastanza diffusa l'opinione che i flussi migratori fossero determinati da certi partiti politici e, naturalmente, dalla Caritas italiana: a due anni dall'insediamento del governo di centro destra, si riscontra una maggiore maturità , favorita dal confronto con una realtà  complessa, che non può essere governata con gli slogan.
L'immigrazione è aumentata in questi ultimi anni ed è destinata ad aumentare in futuro. Una quota di irregolari si infiltrava nel nostro Paese durante il precedente governo. Succede lo stesso con quello attuale. Erano di più allora od oggi? La risposta ci porterebbe troppo lontano. Gli sbarchi c'erano allora e ci sono oggi. Per un confronto sulle cifre, rimando alla lettura del Dossier statistico immigrazione 2003.
L'immigrazione è una dimensione strutturale della realtà  italiana. A fine 2001 i soggiornanti erano 1 milione 362 mila, un anno dopo erano 1 milione 512 mila: Se aggiungiamo i minori e le 700 mila domande di regolarizzazione arriviamo a circa 2 milioni e mezzo. Cioè un immigrato ogni 25 residenti (la media europea è di 1 ogni 20, la media svizzera è di 1 ogni 5).
Gli immigrati in Italia si fanno raggiungere dai coniugi e dai figli (o si sposano e hanno i figli in Italia); iniziano ad avere una certa anzianità  di presenza; sono attaccati al lavoro e vogliono restare da noi. Tutti questi aspetti si possono confermare con una serie di dati statistici attendibili: cito in particolare il rapporto sugli Indici di inserimento territoriale (www.cnel.it).
È a partire da questa situazione di fatto e non da ipotesi fantastiche che bisogna porsi alcune domande di fondo.

La legge Bossi-Fini

È notevole la continuità  tra la legge Turco-Napolitano (40/1998) e la legge Bossi-Fini (189/2002). Ad esempio, la parte sulle politiche di integrazione è stata lasciata intatta, ma è anche caduta in disuso.
Non si fanno studi, non si promuovono incontri, non sono stati valorizzati gli organismi di consultazione, o almeno questo è quanto lamenta coralmente il mondo sociale insieme agli immigrati.
Il discorso sulle quote non convince perché impostato, finora, in prevalenza sui lavori stagionali. Purtroppo a una programmazione debole non può che fare seguito una maggiore presenza irregolare e una sanatoria corposa, come è avvenuto in maniera molto vistosa nel 2002.
I meccanismi di collocamento sono attualmente una sorta di imbuto, perché non possono essere basati solo sulla chiamata nominativa dall'estero, che penalizza le famiglie e le piccole realtà  aziendali interessate a conoscere previamente le persone da assumere: da questo punto di vista, è risultata quanto mai inopportuna la soppressione della possibilità  di far venire gli immigrati sotto sponsorizzazione. Ancora si attendono spiegazioni convincenti al riguardo.
Inoltre, sono state introdotte misure restrittive non solo nei confronti di chi specula sugli immigrati, ma anche sugli stessi immigrati. Qualche esempio? È controproducente aver portato da cinque a sei anni il requisito per la concessione della carta di soggiorno e la conseguente garanzia della permanenza; deludente il fatto che non si parli neppure della necessità  di modificare la vecchia e inadeguata normativa sulla cittadinanza.
L'idea di fondo che si rischia di dare agli immigrati è che ci serve la loro presenza, ma li consideriamo estranei. Questa impressione può costituire il più serio pregiudizio della politica migratoria e creare seri problemi per la convivenza.
C'è chi pensa che l'immigrazione sia un'anomalia del tutto italiana, dimenticando che le migrazioni sono uno tra i più significativi fenomeni sociali a dimensione mondiale (175 milioni secondo una recente quantificazione dell'Onu, di essi 4 milioni sono italiani) e dimentica del tutto le pesanti cause strutturali che portano i Paesi più poveri a cercare nell'emigrazione un filo di speranza.
L'andamento della demografia e dell'economia a livello mondiale dicono con tutta evidenza che i flussi aumenteranno. Per molti altri l'immigrazione è innanzitutto un problema.

Clandestini per disperazione

Arrivando a Lampedusa in un torrido venerdì d'estate, mi aspettavo di trovare una città  caotica, confusione totale, strade invase dai clandestini e lampedusani furiosi. Da come i media presentavano la vicenda, legittimo aspettarsi questo. Invece, all'aeroporto, traffico regolarissimo, con i diciotto voli del fine settimana estivo pieni di turisti, e negozi, bar, ristoranti, hotel, tutti aperti normalmente. E i clandestini?
Non li vediamo neppure - dice Antonietta Maggiore, proprietaria di una cartolibreria in via Roma, l'unico corso dell'isola -. Quando arrivano, lo sappiamo dai giornali e dalla tv. Non ci danno fastidio: mi sembrano dei poveri disgraziati. Per Pedavino Gaetano, albergatore, il problema non sono i clandestini, ma ciò che si dice in tv e l'uso politico che si sta facendo di una notizia umanitaria. Tranne quelli che lavorano al porto, molti lampedusani non vedono i clandestini che, appena approdati, vengono prelevati dalle forze dell'ordine: controllo dell'identità  e inoltro al Centro di prima accoglienza.
Aperto nel '95, il Centro è a ridosso dell'aeroporto. Un accampamento di containers gialli. L'ingresso è vietatissimo al pubblico e ai giornalisti per motivi di sicurezza e di privacy. Capace di 85 posti letto, ha accolto fino a 600 clandestini nei periodi di emergenza.
Quando arrivano - dice Karim, tunisino e interprete del Centro -, cambiati gli indumenti, vengono visitati dal medico e assegnati a una stanza. Sono palestinesi, iracheni, somali, eritrei, liberiani, sierraleonesi, ghanesi, marocchini e tunisini. Sono donne, bambini - anche neonati -, giovani, anziani, intere famiglie. Una triste storia li accomuna: l'aver attraversato il Mediterraneo con mezzi precari e insicuri, con il rischio di non arrivare a destinazione; e lo stesso sogno: di vivere, in Italia o in Europa, una vita migliore, in pace e in libertà . Quasi tutti hanno dato false generalità  per non essere rimpatriati dopo aver pagato fino a 1500 dollari per il viaggio.
Quei 7 mila 600 e più clandestini sbarcati in Sicilia in sei mesi sono arrivati tramite la Tunisia o la Libia. Il tragitto è semplice da descrivere ma sicuramente traumatico per chi è costretto per motivi economici, politici, religiosi o di guerra a lasciare il proprio Paese.

Le mafie dietro i clandestini

Secondo le nostre indagini esiste tutta una rete di trafficanti che raccoglie i clandestini in Tunisia o in Libia. I somali, per esempio, risalgono il Nilo in barca o percorrono la strada in camion fino a raggiungere l'Africa del Nord. Raccolto un certo numero di persone, vengono trasferiti in luoghi nascosti, di notte, da dove, ammassati sui mezzi più diversi, intraprendono il viaggio della speranza verso l'Europa. Se la fortuna è dalla loro parte, approdano; altrimenti, è carne buona per i pesci: i pescatori lampedusani ne sono convinti.
Vivono bene nel Centro - racconta Karim -. Possono giocare a calcio o a carte. Hanno la tv, la radio; possono telefonare. C'è anche un barbiere. Ma quello che più di tutto vogliono è sapere che cosa  li aspetta; si informano sui loro diritti. Se hanno parenti o amici in Italia, chiedono di parlare con loro per essere aiutati.
Rimanere in Italia: ecco un'altra incognita, forse la più dolorosa. Infatti, Lampedusa è solo un Centro di prima accoglienza; da lì i clandestini vengono poi trasferiti ad Agrigento, Crotone o Bari. Tunisini e marocchini, o altri provenienti da Paesi che hanno siglato accordi con l'Italia sull'immigrazione clandestina, vengono rimpatriati; secondo i casi, alcuni ottengono, in virtù della Convenzione di Ginevra, l'asilo politico. Il resto ha l'obbligo di lasciare la Penisola entro 15 o 30 giorni, ma il tempo è più che sufficiente per proseguire verso un altro Paese europeo o scegliere di vivere nella clandestinità . Un'avventura senza fine.
Quando si può parlare di un percorso migratorio riuscito? Cosa ci permette di dire che un immigrato ce l'ha fatta? Ci possono essere diverse risposte, a seconda dei punti di vista. L'immigrato musulmano che ha trovato casa, lavoro e magari mangia polenta e salsicce e beve vino alle sagre di paese, ad esempio, rappresenta un perfetto esempio di integrazione per chi fa coincidere questa con l'assimilazione. Ma, specularmene, si potrebbe dire che ha avuto successo anche il progetto migratorio del cinese che in Occidente ha lavorato e fatto i soldi senza mai uscire dalla sua Chinatown, senza imparare la lingua o le usanze del Paese ospite, e poi è tornato a casa sua per godersi i risparmi accumulati.
Il progetto di vita che sta dietro la decisione di lasciare la propria terra è in genere qualcosa di più complesso di un percorso di assimilazione in una nuova cultura, di una sfida economica, di un allontanamento temporaneo dal proprio Paese, e questo anche oltre le stesse intenzioni manifeste dei protagonisti.
La migrazione è, prima di tutto, un processo di scambio, in cui chi parte porta con sé - accanto alle proprie aspirazioni e alle proprie competenze e disponibilità  professionali - quel complesso sistema di valori, linguaggi, punti di vista, che costituisce la sua vita precedente. Da questo punto di vista, dunque, l'immigrato di successo è - a mio parere - colui che riconosce il valore preciso di quanto ha portato con sé, sa che cosa dovrà  via via abbandonare per strada per rendere più leggero il suo cammino, ma anche quello che non dovrà  mai lasciare, per non perdere anche la propria identità  più profonda; ma, al tempo stesso, il suo percorso avrà  un esito positivo se riuscirà  a interagire positivamente con chi lo accoglie.
Ecco allora che quando mi viene chiesto di indicare degli immigrati che ce l'hanno fatta, mi viene spontaneo pensare - più che all'imprenditore asiatico di successo, o magari allo sportivo africano italianizzato - al mediatore che mette a disposizione dei propri connazionali le sue nuove competenze nella nuova cultura, e traduce per gli italiani i bisogni e le aspirazioni dei connazionali, oppure all'intellettuale, al giornalista, al volontario che ha saputo fare della propria condizione di straniero una risorsa valoriale ed espressiva.

Alcuni nomi per intenderci

Penso a dei nomi precisi: in primis il giornalista e scrittore Jean Leonard Touadi, congolese di 45 anni, che conduce alla Rai la trasmissione Un mondo a colori e racconta magistralmente la sua Africa su Nigrizia e su altri giornali. Penso alla capoverdiana Maria De Lourdes Jesus, voce e volto storico della radio e della televisione con trasmissioni come Non solo nero e Permesso di soggiorno, espressione tipica di una cultura della doppia appartenenza, con i suoi venticinque anni di vita in Italia, il marito friulano, la sua viva sensibilità  nei confronti dei problemi delle immigrate.
Ecco poi Elisa Kidanè, 47 anni, suora comboniana eritrea, approdata in Italia, a Verona, per lavorare nella rivista missionaria Raggio, che ha fondato il sito internet Femmis sulla condizione femminile nel mondo, e scrive poesie in cui riversa la sua nostalgia per il suo Paese, le sue inquietudini di credente mai appagata, la sua acuta percezione delle ingiustizie e delle sofferenze dei più deboli. E potremmo continuare con un altro veronese di adozione, il togolese Jean Pierre Piessou, operatore sindacale e vice presidente nazionale dell'Anolf, l'Associazione per gli immigrati promossa dalla Cisl; con Edgar Serrano, venezuelano, diventato assessore comunale alla partecipazione nel suo nuovo paese, Piazzola sul Brenta; o con Okechukwu Anyadiegwu, ex bancario nigeriano, poi vu cumprà  e operaio nel padovano, ora scrittore e docente al master per mediatori culturali dell'Università  di Padova.
Ma non ci sono solo intellettuali, in questo elenco: una delle figure più interessanti è la filippina Cecilia Silva, una ragioniera quarantottenne che vive di lavori domestici, ma che con la sua umanità  e disponibilità  è diventata un punto di riferimento per tutti i connazionali nel Veneto, e ha ottenuto per questo il premio Bagong Bayani (Nuovi eroi) che il governo filippino attribuisce ogni anno a una decina di immigrati nel mondo.
Infine, un'altra donna, Regina Nyirabaforoma, già  titolare di una sartoria in Congo e ora colf a Mestre, ha fatto della sua permanenza in Italia una missione per aiutare i suoi connazionali, raccogliendo soldi e vestiti dimessi per finanziare la costruzione di una scuola al suo Paese e aiutare le vittime delle recenti catastrofi naturali.

 

La proposta Fini: il voto agli immigrati
di  Luciano Bertazzo

Le migrazioni sono un fenomeno antico. Da sempre la gente si è messa in cammino, perché pressata dalle calamità  o dalla penuria di cibo, alla ricerca di posti più generosi dove piantare le tende. L'Italia, con il suo clima mite e le sue pingui pianure, è sempre stata meta ambita. La nostra civiltà  è il prodotto anche di un crogiolo di popoli migranti inseritisi nella nostra realtà  arricchita dalla loro cultura. 
Anche l'Italia è stata terra di migranti. Spinti dalla povertà  e dal desiderio di migliorare le condizioni di vita, milioni di connazionali hanno cercato altrove fortuna, spesso riuscendovi pur tra incomprensioni e fatiche, lasciando sempre abbondanti segni del loro lavoro e della loro genialità .
L'Italia di recente è tornata a essere terra di immigrazione. Per necessità . Sia di chi, fuggendo dalla miseria, cerca da noi nuove opportunità , sia del Paese che, a causa del  declino demografico, ha bisogno di manodopera per poter agganciare la ripresa mondiale in atto. Gli immigrati, quindi, come ricchezza da valorizzare e non da emarginare.
La proposta del vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini di permettere anche agli immigrati regolari residenti in Italia da almeno sei anni, il voto alle elezioni amministrative, al di là  dei tatticismi e dei giochi tutti interni alla maggioranza, affronta  un problema reale che va prima o poi risolto, magari in accordo con gli altri Paesi europei: quello di un'integrazione effettiva degli immigrati che potrà  risultare arricchente per tutti. Come è successo ai nostri connazionali emigrati all'estero.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017