Il Vecchio Cronista alla Festa dell'Alterità

Una sera piovosa di giugno, a Giavera del Montello con don Baratto e gente di ogni colore...
30 Giugno 2004 | di

Questa è la cronaca, necessariamente succinta, d'una serata che il Vecchio Cronista ricorderà  a lungo. Dedico, la cronaca, soprattutto a quei lettori che mi scrivono, e sempre più numerosi, da quando han scoperto l'indirizzo della Stampa, il mio giornale. Non manca, grazie a Dio, chi crede nella vita buona e dunque si preoccupa dell'Altro. Già  carsica, esplode alla luce del sole quella che chiamerei la Cultura dell'Alterità .
E così succede che il Vecchio Cronista venga precettato da un giovine animoso sacerdote della Caritas Tarvisina, don Bruno Baratto, che dice messa a Giavera del Montello (TV) ma lo trovi solo sul telefonino poiché è in giro mane e sera. Perché non affiancare ai compiti diremo istituzionali della Caritas la celebrazione della Festa  che, divertendo, aiuti la gente a riflettere su questo nostro tempo boreale? Questo s'è domandato don Baratto e grazie all'incoraggiamento del suo (relativamente) giovine Vescovo, sono anni oramai che festeggia l'Alterità .

Pioveva quella sera di giugno, faceva sinanco freddo ma dentro  l'auditorium parrocchiale, sembrava di essere in Togo, in Ruanda, in Africa insomma. Drums scatenati e danze travolgenti tutte scandite dal sorriso di donne e uomini, di vecchi, di fanciulli. Se il palcoscenico offre un colpo d'occhio  variopinto, mosso, festoso, che dire della platea?  Tutti accompagnano, battendo le mani, agitando i piedi, i ballerini-cantanti  che saccheggiano il palcoscenico. Ad un segnale di don Bruno, i drums tacciono, la danza collettiva si conclude, la sala finisce di riempirsi e tocca agli ospiti foresti salire sul palco.
Il tema è: Incontriamoci e raccontiamo. Moderati dal giovine ma già  noto sociologo Renzo Guolo (autore di preziosi testi volti alla conoscenza dell'islà m), toccherà  parlare a Marie Louise Niwemukobva, a padre Vinicio Albanesi, presidente della Comunità  di Capodarco, e al sottoscritto. Maria Louise è una statua d'ebano. Cantante, poetessa e danzatrice, madre di tre figli, è nata in Ruanda dove si trovava al tempo di quel folle genocidio (1994). Rientrata in Italia ha composto il suo primo cd musicale: un inno alla pace e alla convivenza. Alla danza alterna la cura dell'Associazione, da lei fondata, Donne immigrate Solidaires (Asdisve). Marie Louise ci racconta storie terribili donandoci, tuttavia, un briciolo di speranza col suo invito, incisivo ma sommesso, a partecipare alla negazione del facile oblio. Ma a scuotere il mio vecchio cuore di incallito cronista del mondo, a ridarmi la grazia dura della sofferenza e della solidarietà , è stato don Vinicio Albanese, evangelizzatore della strada.

Da anni, con pochi amici, lavora e si batte per l'inserimento sociale (e lavorativo) dei portatori di handicap, dei tossici, degli immigrati.
A mezza voce ci parla dei suoi cari, ce ne racconta la storia. Sul suo volto tormentato erra una sorta di sorriso amaro, dove delusione e speranza drammaticamente si intrecciano. Si potrebbe (si dovrebbe) scrivere un libro sulle disumane storie umane ch'egli ci racconta. Nel campionario spaventevole del dolore umano ch'egli, don Albanese, sciorina, spicca una vecchia donna della sua Comunità . Quando aveva sei anni ed era una bambina particolarmente vivace qualcuno pensò bene di metterla in manicomio. Ne è uscita viva - da vecchia - per puro miracolo e se non fosse stato per don Albanese, sarebbe morta come muoiono tanti barboni che al mattino presto la nettezza urbana raccoglie fra l'immondizia. Pietà  l'è morta, dunque? No, finché esisteranno sacerdoti come don Baratto, come don Vinicio. Infaticabili praticanti  del Dialogo cui ci esorta quel profeta postmoderno ch'è il Papa.


 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017