Il ponte sul fiume Mvoulman

Il piccolo ma prezioso progetto consente oggi a donne e anziani di Doumé, in Camerun, di raggiungere più facilmente la zona rurale, distante 15 chilometri, risparmiando grandi fatiche ed evitando insidiosi pericoli.
27 Agosto 2012 | di


«Nell’aprile del 2011 incontrai tre donne anziane dell’entroterra – racconta Jan Ozga, polacco di origine e vescovo di Doumé, nel Sud est del Camerun, una cittadina di 20 mila abitanti, ultimo avamposto di civiltà al margine dell’immensa foresta equatoriale, crocevia dei commerci di legname e oro –. Mi chiesero: “Vescovo, tu ci vuoi bene”? Rimasi colpito. Conosco la tradizione africana e il loro modo di comunicare: c’era un senso profondo in quelle parole. Gli risposi all’africana. “Ditemi mamme, che cosa portate nel vostro ventre?”, (ovvero che cosa vi angustia?) Rispose una di loro, la rappresentante: “Tu fai molte cose qui: hai ristrutturato la cattedrale, costruito la sorgente, le scuole, il dispensario, ma non conosci ancora la sofferenza della nostra vita. Partiamo ogni mattina all’alba per coltivare il nostro campo, che si trova a 10, 15 chilometri da casa. Dobbiamo attraversare il fiume, l’acqua stagnante e il fango, e questo ci provoca malattie come il tifo, la malaria, le diarree. Alla sera facciamo lo stesso percorso, ma con il carico pesante che raccogliamo al campo per nutrire le nostre famiglie. Nessuno ci vede, vescovo. Ma se tu vuoi, puoi venire e vedere».

Le mamme nel fango
Il campo si trovava a circa un’ora di macchina da Doumé, nell’entroterra della sua diocesi. Il giorno dopo Jan Ozga andò e vide. Vide, sotto il sole cocente e l’aria pesante dell’umidità tropicale, file di donne spesso anziane percorrere chilometri nel fango del fiume Mvoulman, con i piccoli aggrappati addosso e cariche di banane, arachidi o legna sulle spalle. Una via crucis per la sopravvivenza che era fatica inumana e spesso morte. Morte per malattie, ma anche per annegamento, quando la stagione delle piogge rendeva l’acqua più violenta. Jan il vescovo era là da decenni, ma una cosa del genere non l’aveva ancora vista.

Aveva scelto di venire a Doumé da giovane sacerdote, quando nessuno ci voleva andare, aveva sofferto e condiviso, aveva lottato accanto a loro e messo le basi per un futuro diverso. Un lavoro che lo aveva promosso vescovo sul campo. La sua gente aveva imparato ad amarlo e a riconoscere il suo cappello da cow boy quando andava di persona a visitare i cantieri dei progetti di sviluppo. Con il suo passato alle spalle, gli sembrò forse quasi una mancanza non aver visto le mamme del fiume. Sulle loro spalle gravava il peso di tutte le contraddizioni in quest’angolo di mondo: una terra florida e ricca eppure poverissima, dove si muore per una malattia banale o semplicemente perché non c’è la strada per arrivare al dispensario. Senza strade non c’è commercio e non c’è lavoro, non ci sono utensili, né varietà di cibo, né medicine. L’unica via è emigrare in città. Lasciarsi alle spalle vecchi e bambini per un miraggio, finire i propri sogni in periferie maleodoranti, vittime dell’alcol, della droga, dell’aids. Le vecchie e i bambini nel fango sono l’ultimo anello di quella miseria.

Occorreva una strada per tornare a vivere, una strada per ricominciare a sperare, e il vescovo Jan iniziò a bussare a mille porte, fino ad arrivare a quella di Caritas Antoniana. «Chiamerò questo progetto “la Strada per la vita”, costruitela insieme a noi» fu l’invito. Il progetto, sulla carta, era semplice: 200 metri di strada strappata alla foresta e un ponte di pochi metri sul fiume. Tanto bastava per arrivare ai campi accorciando il percorso di un terzo e senza mettere piede in acqua. Il costo per realizzarlo era di circa 80 mila euro, ma a noi il vescovo ne chiedeva 25 mila, la cifra per costruire il ponte, la parte più importante: gli altri sperava di racimolarli nel tempo da altri benefattori. Intanto aveva trovato una ruspa e formato un piccolo esercito di lavoratori volontari, provenienti dai villaggi della zona. La Caritas Antoniana approvò subito il progetto, i fondi arrivarono in tre rate: i 9 mila euro di agosto 2011 servirono per ripulire gli argini e posizionare due ampi tubi drenanti nella sede del ponte; i 9 mila euro del dicembre 2011 per acquistare cemento e ferro; gli ultimi 7 mila del marzo 2012 per la costruzione effettiva della struttura.

Un grazie africano

Ad aprile il ponte era concluso e il vescovo, sostituendo il cappello da cow boy con lo zucchetto viola, più consono all’occasione, lo inaugurò. «Gloria a Dio e grazie ai benefattori che hanno permesso di migliorare la vita di tante persone». Nonostante sia stato costruito da pochi mesi, il ponte sta già sconfiggendo alcune cause di povertà. Ora le merci possono essere trasportate per buona parte del percorso con la bici o i moto taxi. Ciò ha portato alla nascita di un piccolo commercio e ha rallentato l’emigrazione: «Le persone – scrive il vescovo Jan – possono trasportare i loro raccolti, e con il ricavato delle vendite della mercanzia possono curarsi o mandare i figli a scuola. A nome di questa popolazione, povera ma felice, io vi ringrazio».

Ma il dono più bello per i benefattori di Caritas Antoniana è il suo ultimo racconto, un cammeo africano: «Subito dopo la benedizione del ponte, ho visto un anziano che usciva dalla foresta con il suo carico di banane sulla testa. Nella mano destra teneva un bastone che serviva per tastare il terreno all’interno del fiume, per evitare le buche e l’annegamento. Il vecchio, vedendo che il ponte era concluso, iniziò a parlare con il suo bastone: “Amico mio, mi hai accompagnato per molti anni in questo tragitto, ti sono riconoscente ma ti devo lasciare perché ora posso oltrepassare il fiume a piedi asciutti e senza paura di cadere”. Così dicendo lanciò il bastone verso il fiume, come per un rito, si avvicinò al ponte e lo attraversò». Era la fine di un’epoca.   

Il progetto in breve

Progetto: costruzione di un ponte

Periodo: agosto 2011 - aprile 2012

Beneficiari: mamme, anziani e bambini

Costo: 25 mila euro

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017