Il destino dell’anima: rottamazione o rivalutazione?

Sembra un discorso d’altri tempi, bandito dalla conversazione e rimosso dalla riflessione colta. Eppure, ci sono segnali in controtendenza.
22 Febbraio 2008 | di

Come scrive la storica Lucetta Scaraffia nel suo intervento Noi illetterati dell’ars moriendi (che sarebbe l’arte del ben morire), raccolto nel volume a più voci Appunti per il dopo (2007), oggi viviamo in una «cultura amputata dell’aldilà». Ognuno, insomma, sul dopo-morte la pensa un po’ come vuole, oppure non pensa affatto. «Si fa come se nulla fosse – sottolinea la Scaraffia – come se non ci fossero domande, angosce, speranze e terrori». Magari nel frattempo elaborando versioni modificate o surrogati (rispetto alla credenza religiosa di una continuazione della vita, in un certo qual modo, dopo la morte) di immortalità: la fama, l’essere ricordato dai posteri, ma anche la «decostruzione» o la banalizzazione, come spiega il sociologo Bauman nel suo ultimo libro Paura liquida. Sostanzialmente aveva ragione Geoffrey Gorer che già a metà degli anni ’50 parlava della «pornografia della morte» in sostituzione di quella riguardante la sessualità, quindi di un vero e proprio tabù nei confronti dell’ultimo, drammatico e solenne passaggio della vita.

Insieme alla rimozione della morte, poi, ha preso posto nella coscienza contemporanea anche un’altra convinzione, vale a dire la «rottamazione dell’anima»: fuori dalla Chiesa, per il superamento di una visione religiosa ritenuta insostenibile e infantile; all’interno della Chiesa per la volontà (non sempre andata a buon fine) di restituire il cristianesimo a una comprensione dell’uomo il più possibile unitaria.

Pochi mesi fa di anima si è parlato perfino in televisione: lunedì primo ottobre, durante il programma 8 e mezzo. Non avevo mai ascoltato un confronto televisivo sull’anima, e la cosa mi sembrava perlomeno strana. Introducendo l’incontro col teologo laico Vito Mancuso, autore del provocatorio volume L’anima e il suo destino (2007, una decina di edizioni per 80 mila volumi in pochi mesi), il giornalista Giuliano Ferrara si esprimeva così: «Se pensate che non si debba obbligatoriamente sempre e soltanto parlare di Welfare o dell’ultima dichiarazione del primo ministro o del capo dell’opposizione, e che si possa parlare anche dell’anima, della sua salvezza e del suo destino, questa è la vostra serata». Quella sera ho accettato la sfida, non me ne sono pentito e ora, in qualche pagina, la giro a voi lettori.


Salvarsi l’anima si, certo, ma…

Salvarsi l’anima, insisteva trent’anni or sono un mio docente di teologia, è un’espressione riduttiva (non errata, per carità) dal punto di vista cristiano almeno per tre motivi. L’uomo non si salva con le sue sole forze, e quand’anche la collaborazione che egli offre al progetto di Dio fosse piena abbisognerebbe sempre e comunque del sussidio della grazia divina. Nessun tipo di stacanovismo spirituale rende l’uomo autonomo in ordine alla salvezza. L’espressione, inoltre, sottende un certo individualismo, poiché la salvezza viene agognata come meta del proprio singolare percorso di vita, al di fuori di ogni solidarietà con la comunità umana e ancor più con il creato. Obiettivo della salvezza, infine, è mettere al sicuro la propria «anima», ritenendo il corpo un peso di cui sbarazzarsi e quindi da abbandonare al suo destino di corruzione, irreparabilmente. «Da cristiani – scrive però Benedetto XVI nella recente enciclica Spe salvi (2007) – non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso?» (48). La salvezza è anche e soprattutto affare comunitario, addirittura cosmico, includendo il mondo creato. Inoltre non è esclusiva di quel «nocciolo spirituale» chiamato anima, ma fa riferimento alla persona nella sua integrità: il Credo cristiano osa parlare di «risurrezione della carne».

Nonostante chiare affermazioni in proposito, è cambiata di molto la percezione del cristiano medio dei nostri giorni? Forse sì, forse no. «Certo è che la visione di un oltrevita sostanzialmente modellato sull’immortalità dell’anima – scrive il biblista Ravasi nel suo Breve storia dell’anima (2003) – è ancora profondamente insediata nella mentalità dei fedeli. Le stesse omelie funebri sono spesso centrate sull’anima del defunto che è in Dio, dopo aver deposto la spoglia mortale, affidata alla polvere della terra o alla cenere della cremazione. È questa la concezione spontanea di molti cristiani che faticano a formulare la speranza nella risurrezione e preferiscono adottare la prospettiva dell’immortalità dell’anima, senza tante precisazioni». Ma questo è solo uno degli aspetti della complessa questione dell’anima.


Cristianesimo alle origini

Quando san Paolo si reca all’areopago di Atene (Atti 17), luogo pubblico dove si incontravano e discutevano i notabili del tempo, e formula quello che è il vertice dell’annuncio cristiano, la risurrezione di Cristo, si trova a essere contestato da uomini che avevano familiarità con la credenza dell’immortalità dell’anima. La risurrezione della carne non appariva agli ateniesi come buona notizia, poiché non riuscivano a capire – se è vero che l’anima alla fine, dopo tribolazioni e affanni, si libera del corpo ed entra così nella beatitudine – che bisogno ci fosse di un recupero e di un coinvolgimento del corpo nel processo di salvezza. Per Platone, infatti, il mondo altro non è che una caverna, una prigione, un luogo dal quale comunque evadere e fuggire, per cui non c’è salvezza della carne e del mondo, ma dalla carne e dal mondo. Non a caso intorno al 170 d.C. il filosofo neoplatonico Celso, dopo aver studiato a fondo i libri dei cristiani, ne contrasta le tesi sia in rapporto al credo ebraico sia in rapporto alla mentalità greca. Ai giudei, che sulla base dell’Antico Testamento credono alla risurrezione dei morti alla venuta del Messia, chiede con tono di sfida dove e quando questa venuta si sia realizzata, non avendo Gesù offerto prove pubbliche di essere risorto con il suo stesso corpo; tra l’altro, aggiunge, i testimoni di quell’evento sono pochi e dubbi. Mette poi in bocca a un greco la seguente obiezione: «Come fate a dire che il corpo è ostacolo alla vita dell’anima, e poi sostenere che risorgerà ancora identico a se stesso?» (Origene, Contro Celso, VIII, 49). Contro gli gnostici che ritengono la carne indegna di accogliere ciò che è incorruttibile, Ireneo, vescovo di Lione, richiama con forza il fatto che il Figlio di Dio si è incarnato e che al cuore del cristianesimo sta la salvezza della carne, per cui è un grave fraintendimento ridurre la risurrezione a risurrezione dell’anima. Diffondendosi nel mondo della cultura greca, il cristianesimo manterrà dunque salda la sua radice ebraica, là dove la visione unitaria dell’uomo (carne, anima e spirito) non può mai essere compromessa. Eppure, anche se il cielo dei cristiani non è lo stesso di quello di Platone, una certa dose di platonismo si insinuerà nel pensiero cristiano, soprattutto in termini di dualismo. Inutile negare, come sottolinea con forza Umberto Galimberti (Gli equivoci dell’anima, 1987) che l’idea di separazione prima e di autosufficienza poi dell’anima rispetto al corpo costituisce uno dei filoni determinanti dell’antropologia occidentale.


Suggestioni contemporanee

Oggi, in un tempo di caduta delle tensioni ideali, nel quale i processi di frantumazione dell’io sono spesso andati a braccetto con quelli della rottamazione dell’anima, è necessario per il cristianesimo individuare un linguaggio che dica con chiarezza la continuità nella discontinuità dopo il darsi dell’evento drammatico ed esistenzialmente decisivo della morte. Che ne è del soggetto (dell’io), della sua specifica identità, della sua storia personale? C’è da superare non solo quel dualismo spiritualista del passato che mette in contrapposizione nell’uomo il principio materiale con quello spirituale, senza intravederne l’inestricabile unità, ma anche e soprattutto quel diffuso dualismo contemporaneo di segno materialista che vuole sottomettere il soggetto al suo corpo, nel godimento come nel lavoro. Il corpo, una volta svincolato dall’anima che lo àncora alla trascendenza, viene destinato ai fini più disparati, non sempre così valorizzanti come si vorrebbe dare a vedere. Al dualismo platonico si dovrebbe dunque ricordare tutta la bellezza del corpo e del suo dispiegarsi nella trama della storia, delle relazioni e degli affetti, mentre al dualismo materialista dei nostri giorni, che carica il corpo di responsabilità alle quali non potrà mai corrispondere, andrebbe invece segnalata la grande fragilità del corpo, la sua pesantezza e opacità, il suo essere luogo di molte contraddizioni. Secondo Lacroix (Il corpo e lo spirito, 1996) nessuna dissociazione vuol dire non abbandonare mai una delle due polarità a se stessa, facendola prevalere e quindi fuoriuscire dalla sua vocazione nativa all’unità. Se da una parte è necessario limitare quell’euforia che porta a battere ossessivamente il tasto spirituale, stressandolo e alla fine deformandolo, è altrettanto doveroso non lasciarsi conquistare da frettolose idealizzazioni del corpo, sia quando lo si intende come destinato alla gloria celeste, sia quando si vuole sottometterlo ai capricci del desiderio. Quella che Péguy chiamava «la misteriosa inscrizione del carnale nello spirituale», vero capolavoro del cristianesimo, è frutto di equilibrio e di saggezza, ma anche di slanci e di passioni, di tempi lunghi come pure di decisioni pertinenti e perentorie. Mai però di unilateralità e di soggiogamento a schemi ideologici.


L’uomo, unità di anima e corpo

«Unità di anima e di corpo, l’uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Allora, non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno». Un testo davvero felice questo passaggio della Gaudium et spes (1965) n. 14 del concilio Vaticano II, poiché mette in chiaro che a nessuno è concesso di disprezzare il corpo, ma nemmeno di esaltarlo in modo idolatrico e paganeggiante. Né biologismo né angelismo, né materialismo né spiritualismo disincarnato. Ma quando, con la morte, viene a scindersi l’unità di anima e di corpo, che ne è dell’uomo? Il Catechismo della Chiesa cattolica (1992) risponde che «con la morte, separazione dell’anima e del corpo, il corpo dell’uomo cade nella corruzione, mentre la sua anima va incontro a Dio, pur restando in attesa di essere riunita al suo corpo glorificato. Dio nella sua onnipotenza restituirà definitivamente la vita incorruttibile ai nostri corpi riunendoli alle nostre anime, in forza della risurrezione di Gesù» (n. 997). Non si parla di due principi separati, ognuno dei quali prenderebbe la sua strada in tutta autosufficienza: più l’anima che il corpo, in verità. Di fatto, mentre il corpo attende la risurrezione finale, l’anima resta in attesa del ricongiungimento con il corpo. Come afferma con chiarezza un documento della Congregazione per la dottrina della fede del 1979, l’anima separata non è «tutto l’uomo», poiché nello stato di separazione è privata del «complemento del suo corpo». D’altra parte essa è in grado di garantire, anche se limitata (per la mancanza del corpo, appunto), l’identità del soggetto.

Sono molto importanti queste sottolineature, perché impediscono di pensare da una parte un’anima completamente autonoma che si sgancia in modo definitivo dal corpo, come fa la farfalla quando abbandona il bozzolo (è la visione dualista), mentre dall’altra rifiuta la prospettiva di una morte che cancellerebbe totalmente l’identità del soggetto (visione protestante radicale). Viene così confutata l’accusa che la teoria dell’immortalità dell’anima non prende sul serio la drammaticità della morte, e al contempo si garantisce il permanere d’identità dell’uomo destinato a risorgere. Come cristiani dobbiamo imparare a pensare, come ha affermato papa Benedetto XVI il 6 giugno 2005, che l’uomo è «anima che si esprime nel corpo e corpo che è vivificato da uno spirito immortale». Vale la pena di ricordare che il teologo Ratzinger fin dalle sue prime opere Introduzione al cristianesimo (1968) ed Escatologia. Morte e vita eterna (1977) tende a riabilitare i concetti allora tabù di «immortalità» e di «anima». Attenzione però, l’uomo non è immortale in sé, ma come interlocutore di Dio. L’espressione «avere un’anima spirituale» significa concretamente essere conosciuti e amati da Dio, nella sua memoria, in dialogo (consapevole o meno) con lui, e quindi nell’impossibilità di essere abbandonati nel nulla. Relazione e dialogo sono quindi le prospettive più corrette per parlare cristianamente dell’anima. E cosa ne è del corpo alla risurrezione? «La risurrezione nel giorno del giudizio – risponde Ratzinger intervistato da Peter Seewald: Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio, 2001 – è una nuova creazione, in cui viene preservata l’identità di ogni singolo individuo, che si compone di anima e di corpo… L’identità significa dunque che l’anima, ridestata a nuova vita dalla risurrezione, riacquista la sua capacità di plasmare il corpo e si costruisce quindi un corpo intimamente identico». Come? «Mi pare gratuito – continua Ratzinger – speculare sulla conformazione di una corporeità e di una materialità che scaturiscono dalla risurrezione».       


i libri

– Joseph Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna

Cittadella Editrice, 1977

– Appunti per il dopo. La carne, la morte e il diavolo nella letteratura del Foglio

I libri del Foglio, 2007

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017