Il cardinale amico del Santo

Il cardinale Albert Malcolm Ranjith parla del suo legame con sant’Antonio e con la Basilica del Santo, che ogni primo maggio raduna oltre diecimila srilankesi.
26 Marzo 2013 | di

Patabendige Don Albert Malcolm Ranjith, nato a Polgahawela il 15 novembre 1947, creato cardinale da Benedetto XVI nel 2010 (secondo cardinale nella storia dello Sri Lanka), ha una grande devozione per sant’Antonio e, come lui, ha a cuore Vangelo e Carità. Il 2 e 3 marzo scorsi, a pochi giorni dall’inizio del conclave, è venuto a Padova nella Basilica del Santo. Una visita che era stata preceduta da un viaggio nello Sri Lanka, nel gennaio scorso, di tre frati del Santuario antoniano: il rettore fra Enzo M. Poiana, fra Mario e fra Remo. Del resto, è di lunga data il legame dell’arcivescovo di Colombo con la Basilica del Santo, dove ogni anno, il primo maggio, ha luogo la più grande festa degli abitanti dello Sri Lanka fuori dal loro Paese.

Msa. Cardinale Ranjith, come è nato il suo legame con Padova e con il Santo?
Ranjith. Sono già stato qui come pellegrino di sant’Antonio tanto tempo fa, quando ero studente seminarista a Roma. Negli ultimi anni sono venuto anche per aiutare la comunità srilankese che ogni primo maggio organizza un pellegrinaggio nazionale a questo santuario. Per l’occasione giungono a Padova oltre 10 mila miei connazionali che vivono in tutta Italia. Quando lavoravo nella Curia romana, e qualche volta arrivando anche dallo Sri Lanka, ho partecipato anch’io a questa giornata così importante per i pellegrini e devoti del mio Paese. Sant’Antonio è davvero il santo più amato nello Sri Lanka.
Ho un rapporto speciale e personale con il Santo. Quando, dopo il periodo trascorso a Roma, feci ritorno nel mio Paese, l’arcivescovo di allora mi mandò come curato in una parrocchia dedicata a sant’Antonio: lì i fedeli mi fecero avvicinare al Santo.

Come ha origine questa particolare devozione per sant’Antonio nel popolo dello Sri Lanka?
Sicuramente è legata al fatto che i portoghesi vennero nello Sri Lanka nel 1505 e da Lisbona «portarono sant’Antonio». Inoltre, i primi missionari, arrivati nel 1543, erano dei francescani: così il legame tra  loro e sant’Antonio naturalmente influì sull’introduzione della devozione al Santo nel nostro Paese.

Non sono solo i cristiani a essere devoti al Santo…
Sì certo, anche molti altri. Quando, nel marzo 2010, abbiamo portato nello Sri Lanka, da Padova, le reliquie del Santo, si sono presentate a onorarle circa tre milioni e mezzo di persone. Molto più dei cattolici dello Sri Lanka, che raggiungono il milione e 700 mila (circa il 7 per cento della popolazione). Perciò c’erano anche persone di altre religioni: buddisti, induisti e musulmani. Durante questo pellegrinaggio con le reliquie, a un certo punto alcuni indù si sono seduti in mezzo alla strada e non ci hanno lasciato proseguire con la macchina perché volevano anche loro venerare il Santo.

Poi, secondo il loro rito, hanno versato latte sopra l’automobile per mostrare come «consideravano» sant’Antonio. È una cosa inspiegabile, quasi miracolosa. Quando andiamo al Santuario di Kochchikade, nella città di Colombo, vediamo sempre molte persone, anche musulmani, che vengono a venerare Antonio, a chiedere favori. Sembra addirittura che lui favorisca più i non cristiani che i cristiani! Abbiamo pubblicato un libro, tradotto nelle lingue locali, intitolato A Cristo per Antonio, da distribuire alla gente e utile per fare anche un «discreto» lavoro missionario. Le conversioni ci sono «a causa del Santo».

Quali sono i principali santuari antoniani nel Paese?
Nell’arcidiocesi di Colombo ci sono molte chiese dedicate a sant’Antonio e anche alcuni santuari, dove la frequenza dei fedeli è molto alta. Ma anche nelle altre diocesi: per esempio, nella diocesi di Kandy c’è un santuario molto antico e frequentato, a Wahakotte. Al Nord, nella diocesi di Jaffna c’è un santuario a Passaiyoor. Sant’Antonio è presente dappertutto.

Il Santo è significativo per tutte le etnie, per tamil e cingalesi: possiamo dire che  porta la pace dopo il lungo conflitto che ha insanguinato il Paese?
Possiamo dire che ci porta l’unità, perché noi in questi santuari non facciamo differenze tra etnie e tra religioni. Quando i fedeli vengono, tutti insieme partecipano alle cerimonie liturgiche che noi proponiamo nelle diverse lingue affinché tutti abbiano la possibilità di venerare sant’Antonio secondo la propria lingua e cultura.

Com’è nata la tradizione di venire il primo maggio in Basilica?
Dagli anni Settanta-Ottanta è cominciata una forte emigrazione di abitanti dello Sri Lanka verso l’Italia. Molti di loro provenivano da zone a maggioranza cattolica: perciò la Conferenza episcopale decise di mandare dei sacerdoti cappellani per curare le necessità pastorali e spirituali di questa gente. Gli srilankesi, avendo visto che sant’Antonio aveva un fascino particolare a Padova (tutti lo chiamano sant’Antonio di Padova e non di Lisbona!) venivano qui per onorare il Santo e chiedere grazie. Così, quindici anni fa, l’attuale coordinatore nazionale delle comunità cattoliche srilankesi in Italia ha organizzato questo incontro. Da allora gli srilankesi vengono a Padova ogni anno per questo appuntamento: hanno incominciato a fare una piccola processione come la facciamo da noi, portando le reliquie sulle strade di Padova. Poi questo è diventato anche un modo di incontrarsi, un momento di convivialità per gli srilankesi che vivono in Italia.

Il Santo nel suo Paese è onorato anche come patrono dei pescatori.
La mia prima parrocchia, dedicata a sant’Antonio, era sulla costa. Vedevo che i pescatori, la mattina presto, prima di andare in mare, venivano in chiesa, pregavano, accendevano le candele e partivano. Hanno questo legame personale con il Santo. Anche se è san Pietro, secondo la tradizione della Chiesa, il grande pescatore, pure sant’Antonio dalle nostre parti viene considerato un santo patrono dei pescatori.

Come è sentito sant’Antonio?
È conosciuto come un bravo predicatore, un potente intercessore presso il Signore e così è diventato molto amabile per la nostra gente. Io mi ricordo un fatto avvenuto nella mia prima parrocchia. Dopo il Concilio, un sacerdote disse che bisognava togliere la statua di sant’Antonio che stava sopra l’altare, perché secondo la liturgia del Concilio bisognava mettere al centro Gesù. Ma i pescatori non la presero bene e protestarono così tanto che, alla fine, la chiesa dovette cedere e lasciare la statua dov’era. Perché loro vedono sant’Antonio come un amico, uno vicino, un potente aiuto per la vita. Nelle case hanno la statua di sant’Antonio accanto a quelle di Gesù e di Maria. È un affetto personale: quando vedono una chiesa dedicata a sant’Antonio, vanno sicuramente in visita.  Nei momenti di tristezza corrono da lui. È una cosa commovente.
Su dieci cattolici nello Sri Lanka, almeno quattro si chiamano Antonio. In tutti gli angoli delle strade, dei villaggi, si trova una statuetta. Recentemente un medico ha fatto erigere una statua di sant’Antonio alta dieci metri perché fosse visibile sulla via tra Colombo e l’aeroporto.
Anche a Padova, alla Tomba del Santo, si trovano molte preghiere in lingua cingalese e tamil, e questo mostra la venerazione per il Santo.

Lei è stato Segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. In che modo la liturgia può far «ritrovare il senso del sacro»?
Il culto ha un influsso molto forte sulla fede, su quell’atteggiamento di semplicità con cui dobbiamo accettare la rivelazione divina. Ha un ruolo centrale nel dare a noi la forza e la sensibilità necessarie per ascoltare il Signore, la disponibilità per mettere la parola di Dio in pratica e la determinazione per essere fedeli a questa chiamata. Perciò c’è un intimo legame tra culto, fede e testimonianza della fede. Inoltre, il culto ha un ruolo importante anche nella vita della Chiesa: Benedetto XVI questo lo aveva compreso e aveva cercato di insegnarcelo durante gli anni del suo pontificato. Aveva capito che è la liturgia la chiave del vero rinnovamento ecclesiale auspicato dal Concilio Vaticano II. Con un vero miglioramento della liturgia che ci porta a scoprire la fede, la Chiesa può essere completamente rinnovata nel senso del Concilio.

In base alla sua esperienza, in campo missionario in che modo si può parlare di «nuova evangelizzazione»?
Ogni cristiano è missionario, perché Gesù stesso ci ha comandato di andare e predicare il suo messaggio alle genti. È un obbligo che viene dalla nostra stessa fede e poi anche dalla gioia della fede. Quando uno sente la vera gioia della fede in Gesù è portato naturalmente a irradiarla verso gli altri. Irradiare piuttosto che parlare. Far vedere che è qualcosa che ci libera, che ci aiuta a superare le sofferenze del mondo attuale e della vita umana e a risalire a qualcosa di eterno. Questo diventa un obbligo per tutti noi cristiani, soprattutto nel continente asiatico: qui, in molte zone siamo pochi e, se gli altri vedono che siamo coerenti con quello in cui crediamo, si «aprono» a noi. Questa è la «nuova evangelizzazione».

Lei ha detto che il continente asiatico preferisce «testimoni più che maestri». Come il pakistano Shahbaz Bhatti?
In alcuni Paesi dell’Asia essere cristiani diventa una scelta dolorosa. Shahbaz Bhatti ha dovuto dare la vita per la fede, perché aveva difeso i valori cristiani e anche dell’umanità. Ma, ogni giorno, nei nostri contesti i cristiani sono chiamati a soffrire per la fede. Essere cristiani costa. È successo anche al tempo dei romani. E come cristiani siamo chiamati a evangelizzare non tanto con la predica, ma attraverso il nostro esempio, il coraggio, il senso di fortezza e la disponibilità a soffrire con gioia per la fede.

Lei è stato ordinato sacerdote da papa Paolo VI, elevato ad arcivescovo da Giovanni Paolo II e creato cardinale da Benedetto XVI. Che ricordo ha di questi Pontefici?
Paolo VI mi ha affascinato molto, soprattutto perché nei  difficili anni Sessanta e Settanta essere Papa richiedeva molti sacrifici. Ero studente in Italia: ho visto le lotte sulle strade, il rifiuto dell’insegnamento del Santo Padre, l’Europa che andava in un’altra direzione e la sofferenza che questo Papa dovette incontrare nel suo ministero. Paolo VI ha cercato di dialogare con il mondo moderno, nonostante la sua apparente ostilità, e ha insistito sui valori cristiani. La sua coraggiosa affermazione del valore della vita con l’enciclica Humanae vitae è esemplare.
Papa Giovanni Paolo II ha presentato la fede in chiave moderna, ma allo stesso tempo fedele a Cristo. Erano gli anni difficili della caduta del muro di Berlino, in un certo senso del trionfo del secolarismo e del capitalismo. Lui diceva al mondo che il progresso aveva bisogno dell’etica e dei valori. Con le encicliche Centesimus annus, Sollecitudo rei socialis e altri documenti, ha ricordato che esiste una responsabilità della società verso l’individuo. Con la Redemptor hominis ha posto l’uomo al centro, con i suoi diritti e la sua dignità.
Benedetto XVI è arrivato in un momento in cui la Chiesa cercava il senso vero del rinnovamento interno. Con lui, nella Chiesa è partito il cammino della grande scoperta del Concilio Vaticano II soprattutto attraverso una ermeneutica di continuità. Ha cercato di parlare al mondo della cultura e di dialogare con esso sui temi moderni. È stato un grande ermeneuta dei nostri tempi, che ha cercato di interpretare la storia umana con una chiave di fede. È stato molto profetico nel suo ruolo.
 
biografia

Patabendige Don Albert Malcolm Ranjith è nato a Polgahawela il 15 novembre 1947. Ha studiato dai Fratelli delle scuole cristiane e ha completato gli studi teologici a Roma, dove è stato ordinato sacerdote da papa Paolo VI il 29 giugno 1975. Ha studiato a Gerusalemme con due insegnanti gesuiti che poi sarebbero diventati cardinali: Carlo Maria Martini e Albert Vanhoye.

È stato parroco in un villaggio di pescatori dello Sri Lanka, dal 1983 direttore nazionale delle Pontificie opere missionarie, segretario della Conferenza episcopale del suo Paese, presidente della Commissione episcopale per la giustizia e per la pace.
Elevato alla dignità di arcivescovo da papa Giovanni Paolo II, nel dicembre 2005 è stato richiamato da Benedetto XVI a Roma come Segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti. Nel 2009 è tornato a Colombo come arcivescovo della capitale.

Nel 2010 è stato creato cardinale da Benedetto XVI. Non ha mai esitato ad andare dalla gente in difficoltà, come fece nel dicembre 2004 quando si recò tra la popolazione colpita dallo tsunami.
 
notizie
Più turisti dall’Asia

A crescere considerevolmente negli ultimi anni sono stati proprio i visitatori arrivati nella città del Santo dal lontano continente asiatico (India e Cina soprattutto).
Lo evidenziano i dati diffusi dall’Azienda Turismo Padova Terme Euganee.
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017