Housing sociale ovvero una casa per tutti

Prezzi alle stelle per affitto e acquisto della prima casa, mentre la vita si precarizza e crescono nuove esigenze dell’abitare. Tra le poche ragioni di ottimismo, la nascita di un nuovo welfare per la casa.
24 Ottobre 2006 | di

Poeti e navigatori? Non solo. Da dieci anni a questa parte gli italiani sono anche un popolo di proprietari di case superindebitati, di coabitanti forzati, di inquilini atipici.
La casa, il simbolo della sicurezza per l’italiano medio, sta diventando un lusso.
Il dato positivo è che alla fine del 2005 (dati Censis), l’87 per cento delle famiglie risultava proprietario di una casa; quello negativo è che la fetta più povera di questi proprietari ha un mutuo che incide per il 30 per cento sul reddito, una percentuale pesante per chi guadagna poco più di 1000 euro al mese. Su questi mutui incombe, tra l’altro, la spada di Damocle dell’aumento dei tassi d’interesse.
Non va meglio per l’affitto. Secondo il Sicet, il sindacato per gli inquilini della Cisl, ci sono ben 4,5 milioni di famiglie con un reddito inferiore a 15 mila euro che per pagare l’affitto spendono tra il 60 e il 70 per cento del reddito, con punte dell’85 nelle grandi città e del 50 per cento nelle medie. A Bologna, dalla fine dell’equo canone (1998), l’affitto di un appartamento di circa 80-90 metri quadri, in fascia intermedia, è cresciuto del 640 per cento.
Il maggior numero di affittuari è sui 30 anni, ha un lavoro atipico e fatica ad addossarsi un mutuo a lungo termine. In questa fascia di età, però, solo il 33,9 per cento riesce a pagare il canone d’affitto; la maggioranza, il 56,7 per cento, coabita ancora, per amore o per forza, con i familiari. La coabitazione forzata raggiunge vette impensabili in una città come Napoli, dove ogni membro della famiglia ha a disposizione 13 metri quadri, contro i 51 della media nazionale.
Potremmo analizzare all’infinito le ragioni del caro-case, chiamando in causa la bolla speculativa edilizia, la spinta all’acquisto dovuta ai bassi tassi d’interesse e agli allettanti prodotti finanziari delle banche, o lamentando la mancanza in Italia di una politica coordinata ed efficace sulla casa. Più interessante è, parafrasando un vecchio detto, andare a cercare «la foresta che cresce» e che, come al solito, non fa rumore.


Housing sociale questo sconosciuto
La foresta che sta crescendo si chiama housing sociale, vale a dire l’insieme di tutti i modi vecchi e nuovi per dare una casa a chi non potrebbe permettersela. Un settore in pieno sviluppo, che ancora sfugge a definizioni stabili. C’è chi pensa che questo tipo di edilizia debba concentrarsi soprattutto sull’affitto e chi, invece, ritiene che ci rientrino anche forme agevolate di acquisto della prima casa. C’è chi vorrebbe che fosse il pubblico a farsene carico, e chi è più propenso a dare spazio a soggetti specializzati del privato sociale. Chi infine, ed è la via più promettente, ritiene che il futuro dell’housing sociale stia in un lavoro di rete tra pubblico e privato.
Ma per capire l’intricata matassa dell’oggi, bisogna fare un salto nel passato. «Un tempo – afferma Gabriele Rabaiotti, ricercatore del Politecnico di Milano ed esperto del settore – il ruolo del pubblico era chiaro: costruiva direttamente (edilizia popolare) o dava i soldi (per esempio mutui agevolati) perché i privati costruissero le case». Dal 2001 l’intera materia è passata dalla competenza dello Stato a quella delle Regioni. «Sono le Regioni – continua Rabaiotti – a dover cercare al loro interno i fondi e a fare una programmazione in materia». Di fatto le Regioni hanno ancora a disposizione i residui dei fondi Gescal –i vecchi fondi statali per garantire il diritto alla casa – che un tempo venivano trattenuti dalla busta paga e gestiti dal Comitato di edilizia residenziale del ministero dei Lavori pubblici. «Oggi – spiega Rabaiotti – le Regioni utilizzano i loro fondi prevalentemente per aiutare le famiglie a sostenere l’affitto. Tuttavia mantengono una quota per l’acquisto della prima casa». Ma i fondi stanno finendo e presto le Regioni saranno le uniche responsabili della programmazione della politica della casa e del reperimento dei fondi per attuare tale politica. Un ruolo tutto da inventare.
Intanto l’edilizia popolare, intesa in senso tradizionale, rimane, ma è una soluzione marginale: riesce a rispondere solo all’8 per cento di tutte le domande inoltrate. «Sono proposte obsolete – afferma Maurizio Trabuio, direttore della “Fondazione La Casa” di Padova – con tempi di attesa di circa tre anni: secoli per una famiglia che ha bisogno di un tetto». Risposte lente anche rispetto ai rapidi cambiamenti sociali in corso: «Il lavoro è precario, c’è una forte immigrazione, le famiglie si smembrano e si spostano più facilmente, la casa non è più per sempre». Cambiamenti che creano nuovi disagi e nuove esigenze: «Oggi, avere una casa e basta è come avere un guscio vuoto, senza cuore. Inserirsi in nuovi contesti è sempre più difficile: la casa, dunque, non è più il mero riparo, ma il luogo dal quale partono tutte le relazioni che rendono significativa la vita. Le fasce deboli, i “nuovi poveri”, oggi sono tali non solo perché hanno bassi redditi, ma perché non sono pienamente integrate in una comunità».
Ma non tutti i mali vengono per nuocere. E così le nuove esigenze dell’abitare e la lentezza con cui il pubblico sta rispondendo al problema-casa stanno facendo evolvere una pletora di iniziative dal basso. Motore di questo fermento è il privato sociale. Si tratta soprattutto di cooperative che si sono trovate, in tempi non sospetti, ad affrontare il disagio abitativo di fasce marginalizzate – dagli immigrati agli ex carcerati, dalle persone disabili a quelle con problemi di abuso di sostanze – e che nel tempo hanno sviluppato nuove esperienze e conoscenze specifiche. Iniziative che adesso, in piena crisi economica, il privato sociale sta allargando alle fasce più povere della popolazione, cercando, e questa è l’ennesima novità, un nuovo dialogo e sinergie con il pubblico. «Nel rapporto tra pubblico e privato – sintetizza Trabuio – si gioca il futuro dell’housing sociale nel nostro Paese».


Pubblico-privato sinergia possibile
Le iniziative del privato sociale, per ora concentrate soprattutto a Nord, seguono in genere due filoni: alcune s’impegnano a offrire posti letto o case in affitto a un costo accessibile; altre rispondono all’esigenza, ancora molto sentita nel nostro Paese, di avere una casa in proprietà senza dover sostenere i costi di mercato. Entrambe aiutano la famiglia a integrarsi nel quartiere nel quale andrà a vivere.
Un esempio di privato sociale che opera nel campo dell’affitto è proprio la «Fondazione La Casa» di Padova, veterana in questo tipo di esperienze. «Gestiamo un piccolo patrimonio immobiliare, in parte affidatoci da enti no profit, in parte acquistato – informa Trabuio –. Offriamo sia servizi temporanei sia alloggi a lungo termine. Le persone che si rivolgono a noi devono avere specifici requisiti: per esempio, la disponibilità a impegnarsi per diventare al più presto autonome». Singoli e famiglie sono affiancate da un «facilitatore» che li aiuta, per esempio, a stabilire relazioni di buon vicinato. Da questa esperienza ormai pluriennale è nata di recente l’Aisa, Agenzia di intermediazione sociale all’abitare (www.agenziaisa.org), primo esempio di gestione immobiliare integrata con i servizi abitativi, alla quale hanno aderito numerose realtà dal Veneto al Piemonte, dalla Lombardia al Friuli. «Secondo la nostra esperienza – insiste Trabuio – il nuovo welfare della casa dovrebbe prevedere la costituzione di agenzie sociali capaci di mediare tra domanda e offerta, per garantire e accompagnare tanto chi affitta quanto chi chiede una casa in affitto. Si tratta di nuove professioni ad alta specializzazione, tutte da definire». L’idea si è fatta strada nei palazzi della politica, tanto che è a buon punto una legge quadro per istituire nel territorio nazionale queste agenzie di intermediazione sociale.
Esempi analoghi di dialogo pubblico-privato si possono citare anche per le esperienze che mirano alla proprietà. L’autocostruzione, per esempio (vedi riquadro) – un’iniziativa di privato sociale che abbatte i costi della casa servendosi dell’aiuto manuale dei futuri proprietari – è stata reinterpretata in modo originale dalla Regione Lombardia sotto la forma di autocostruzione in affitto: i futuri inquilini abiteranno la casa pagando per dieci anni un affitto calmierato. Al termine del periodo, potranno decidere se riscattare la casa o meno, con l’assicurazione che l’amministrazione regionale terrà conto di quanto già pagato. Un compromesso tra esigenze di flessibilità e stabilità che è un segno dei tempi.
Sono semi di buone pratiche, prove tecniche di nuovo housing sociale.



Autocostruzione: la casa fai-da-te

Trasformarsi in muratori nei fine settimana per un periodo di due o tre anni. All’estero lo fanno in molti; anzi, buona parte della popolazione del Sud del mondo si è costruita da sola la propria abitazione. Ma anche nel ricco Nord l’abitudine è abbastanza diffusa: basti pensare che nella sola Irlanda il 25 per cento del patrimonio immobiliare popolare è in autocostruzione. Da noi, invece, è una novità; anzi, a voler essere precisi, è una riscoperta: fino al secolo scorso, infatti, nelle zone rurali era consuetudine costruirsi la casa da soli. Dal 2003 a gestire il rilancio dell’autocostruzione in Italia è «Alisei», un’organizzazione non governativa (Ong) attiva da oltre vent’anni nel campo della cooperazione allo sviluppo e all’aiuto umanitario anche all’estero.
«Il percorso – spiega l’architetto Ottavio Tozzo, direttore di Alisei – è semplice: il primo passo spetta all’amministrazione pubblica, in genere un Comune, che deve individuare un’area edificabile e promuovere il progetto presso la cittadinanza. Trovate le famiglie interessate (tra dieci e venti, in parte italiane e in parte straniere), entriamo in gioco noi, attivando i partner finanziari affinché aprano mutui agevolati a favore degli autocostruttori. Quindi inizia la vera e propria opera di autocostruzione durante la quale le famiglie sono assistite da tecnici specializzati (architetti, ingegneri, geometri, operatori di cantiere) forniti dalla nostra organizzazione».
I vantaggi sono notevoli. Innanzitutto, il costo di acquisto si abbatte, in alcuni casi, del 70 per cento: una villetta di 130 metri quadri, con giardino e garage, può arrivare a costare, terreno escluso, 90 mila euro. E poi il fatto che gli autocostruttori iniziano a pagare il mutuo (che non supera di solito i 400 euro mensili) solo a casa finita. Tutti i costi, infatti, sono anticipati dalle banche.
Paradossalmente, però, la principale vocazione dell’autocostruzione non è tanto costruire case in autonomia e a basso costo, quanto creare relazioni tra le persone. «Noi di “Alisei” – sottolinea infatti Tozzo – ci siamo gettati in quest’impresa con l’obiettivo di favorire l’integrazione sociale e di ricreare quell’ambiente familiare, fatto di relazioni quotidiane autentiche con i propri vicini, che un tempo era la normalità: i nostri autocostruttori, dopo due o tre anni di lavoro fianco a fianco, instaurano relazioni di amicizia profonde. Ci avvaliamo per questo della collaborazione di mediatori culturali (persone che facilitano i rapporti soprattutto tra italiani e stranieri), che in cantiere sono importanti almeno quanto gli ingegneri e i geometri. Perché, con una forzatura, se la costruzione delle case a un certo punto si blocca per questioni tecniche, una soluzione si trova: si aggiunge qualche soldo, si appalta a un’impresa esterna e, alla fine, la casa viene su; ma se tra le persone si guastano i rapporti, non c’è modo tecnico per ricostruirli, il cantiere non riparte più».
In questo momento «Alisei» segue tredici cantieri in tutta Italia, suddivisi tra Umbria, Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, con l’obiettivo di raggiungere i venti entro l’anno. Chi può accedere all’autocostruzione e, soprattutto, in quale modo? «In genere – sottolinea il direttore di “Alisei” – ai progetti di autocostruzione aderiscono famiglie che possono contare su un reddito netto annuo compreso tra i 18 mila e i 30 mila euro circa. Al di sotto di tale cifra non riuscirebbero a sostenere le rate di un mutuo, per quanto calmierato; al di sopra, potrebbero affacciarsi al mercato immobiliare normale. Per poter entrare in un progetto di autocostruzione, poi, bisogna sollecitare il Comune. Noi ci muoviamo solo su richiesta di un’amministrazione pubblica, pena il rischio di insuccesso dell’operazione. Se l’amministrazione è ostile o indifferente, i tempi si dilatano con il rischio di affievolire l’entusiasmo degli autocostruttori».

Info: www.autocostruzione.net

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017