Gli italiani e la felicità

Da una recente indagine emerge l’immagine di un’Italia molto diversa da quella che ci si potrebbe aspettare. Nel Bel Paese la felicità dipende, in grande misura, da cose che non si comprano e non si vendono.
28 Ottobre 2008 | di

Il nostro Paese è caratterizzato da una curiosa contraddizione: da un lato, sono in netta maggioranza (e sempre più numerosi) i nostri connazionali che si lamentano di come vanno le cose in Italia, oltre che delle crescenti difficoltà della loro vita; dall’altro, sei italiani su dieci affermano di essere abbastanza (20 per cento) o addirittura molto (39 per cento) felici.
Come stanno, dunque, le cose? Anzitutto la felicità nel Bel Paese ha poco a che fare con i consumi e, più in generale, con gli aspetti materiali dell’esistenza. Chiedendo a coloro che affermano di essere assai appagati quali siano i motivi della loro felicità, si scopre che quest’ultima dipende in grande misura da cose che non si comprano e non si vendono. Guardiamo la classifica degli aspetti della vita davvero più gratificanti. Al primo posto troviamo i nipoti (per i nonni) e i figli, subito seguiti dalla famiglia e dalla propria casa, che di essa è il territorio privilegiato. Poi vengono gli amici, le relazioni interpersonali in genere, i valori e gli ideali, le attività di volontariato.
Ecco perché le crescenti difficoltà economiche incidono poco sul bilancio della felicità: essa non ha a che fare col mercato, mentre c’entra assai col mondo degli affetti e dei principi morali (specie se praticati). Si tratta di una sorpresa rilevante, che racconta di un’Italia molto diversa da quella descritta dalla televisione, dalla radio, dai giornali, ecc. Di più: è possibile sostenere che la soddisfazione esistenziale ha molto più a che fare con la tradizione cristiana di quanto tanti fedeli e sacerdoti pensino. Dominano valori antichi, come la famiglia, l’educazione dei più giovani, la carità, la riflessione sul vivere e sul morire, per molti il rapporto con Dio.


I sondaggi segnalano che sono più appagati coloro che hanno valori forti e una vita spirituale intensa: entrambi non sono patrimonio esclusivo del cattolicesimo, essendo propri anche del protestantesimo, delle confessioni ortodosse, dell’ebraismo e persino di quegli atei che lo sono in maniera profonda, con vivida attenzione alle valenze non materiali del vivere. Hanno, invece, minore probabilità di godere di una qualche soddisfazione esistenziale i menefreghisti, gli scettici superficiali, i conformisti (quelli, per intenderci, che si dichiarano cattolici in quanto battezzati ma di fatto prescindono totalmente dal rapporto con Dio, con la comunità dei fedeli, con la Chiesa, con la Messa e con i sacramenti). La seconda osservazione ha a che fare con il tipo di fede. In ogni religione, infatti, si confrontano due diverse culture, una sola delle quali riesce a tradursi in diffusa felicità. Quest’ultima non è facilitata, né per sé né per gli altri, se la fede è cupa, nega il valore positivo della vita mondana, è certa che questo mondo sia solo una valle di lacrime e un breve, sofferente transito verso la sperata salvezza. Tipici di questo genere di fede, che possiamo definire «cupa», sono il non interesse o l’ostilità per tutti coloro che non condividono la nostra confessione; il rifiuto di qualunque dialogo con chi la pensa diversamente; la demonizzazione del corpo e della legittima ricerca di un po’ di benessere terreno.

All’opposto, le culture religiose che risultano «felicitanti» sono quelle in cui la fede è sì forte, ma anche curiosa di entrare in rapporto con altre confessioni e mentalità; quelle che guardano con simpatia all’umanità, ai suoi desideri, ai suoi sogni, alle sue debolezze; quelle che valorizzano gli aspetti positivi della vita e sono percepite come intimamente cordiali, apportatrici di letizia, semplici e non contorte.
Forse l’esempio più chiaro nella tradizione italiana è quello di san Francesco: un uomo che aveva molto vissuto e peccato; che amava la vita propria e altrui (in­clusa quella degli uccellini, del leone, del lupo). Fu il fraticello di Assisi, in epoca di conflitti acutissimi, a decidere di far visita al leader musul­mano di allora, recandosi personalmente in Medio Oriente (e all’epoca non bastavano tre ore di aereo) per aprire un dialogo col diverso da sé (ma non nemico). Francesco era straordinario dispensatore di una saggezza e di una re­ligiosità serene, ilari, positive, comprendenti sino in fondo le donne e gli uomini di questo mondo.
La terza osservazione concerne il dialogo. Le ricerche sociali sulla felicità chiariscono bene che esiste un’alternativa allo scontro tra le due culture del relativismo (che nega ogni verità od ogni convinzione forte) e del fondamentalismo (che afferma solo la propria verità in dispregio e nello scontro con tutti gli altri).
La terza via, allora, è proprio quella del dialogo, che coniuga le proprie convinzioni attraverso il confronto con l’altro, nell’ambito di un discorso continuo nel quale si afferma la comune umanità, si trovano punti di contatto, si mettono in luce le differenze insuperabili senza che esse portino al disconoscimento reciproco.

Va fatta, comunque, un’annotazione importante: almeno per la maggior parte degli italiani il semplice credere aiuta solo in parte a essere felici. In effetti, ciò che migliora davvero l’esistenza è l’insieme coerente di valori e della loro testimonianza concreta. Dunque, per dirla con termini antichi, ma sempre validi, il mix di fede, speranza e carità.


Il piacere di fare del bene

In particolare è proprio il ruolo della carità a risultare, per molti aspetti, cruciale. Le ricerche segnalano, infatti, che ci sono poche cose nella vita capaci di dare vera felicità quanto il far del bene agli altri, il dedicarsi gratuitamente, tramite il volontariato o altre forme, a sostenere i deboli, i bisognosi, i malati, i disabili, le persone sole.

Di più, sul nostro bilancio della felicità incide positivamente non la semplice generosità, ma proprio l’impegno personale, il dedicare tempo e sforzi agli altri. In altri termini, donare del denaro è certamente utile a molte buone cause, ma non procura soddisfazione esistenziale. Essa deriva invece, come si sarebbe detto un tempo, dal sudore della fronte, dalla fatica e dalla passione, tutte risorse non monetizzabili.       



I dati. “Come siamo felici”


Quanti sono gli italiani che si dichiarano molto felici? Le indagini sociali di cui parla il professor Enrico Finzi in queste pagine sono alla base del suo recente libro Come siamo felici, edito da Sperling & Kupfer. Esso analizza cos’è la felicità per gli italiani, quali sono i comportamenti (una cinquantina) che accrescono la soddisfazione esistenziale, quali sono le principali strategie per aumentare la probabilità di essere, per quel che è possibile, appagati nella vita.
Tornando ai numeri, secondo le ricerche di Finzi gli italiani felici sono circa 19,8 milioni su 50,8 milioni di persone dai 15 anni in su. Prevalgono le donne, soprattutto perché sono meno infelici e più mature sin dall’adolescenza rispetto ai loro coetanei maschi e perché sanno invecchiare meglio e persino reggere meglio all’eventuale vedovanza. L’Italia «felix» si concentra tra Piacenza e Ascoli Piceno: la regione con più persone dichiaratamente felici è le Marche, seguita dall’Umbria, dalla Toscana e dall’Emilia-Romagna. L’ignoranza sfavorisce, mentre l’essere diplomati o laureati (a pari merito) favorisce un buon grado di soddisfazione esistenziale. Infine, l’età più infelice della vita è l’adolescenza, specie quella dei maschi, anche per la carenza di modelli di riferimento adulti, quindi del buon esempio da parte delle generazioni precedenti.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017