GEREMIA, O REI DO CAFÈ

Dai
08 Maggio 1997 | di

Nel quarto di secolo che corre fra il 1876 e il 1900, quasi un milione di veneti (per la precisione furono 949.711) scelsero la via dell'espatrio, ben intenzionati a riscattarsi da una condizione sociale umiliante. Erano in gran parte contadini, che i padroni di città  tenevano in conto di niente. La classe rurale era ritenuta colpevole della propria miseria, a causa della irrazionalità  in cui viveva: nel gergo positivista dei signori voleva dire che la colpa di questi abitanti delle campagne era quella di essere devoti ai loro parroci, fedeli alla religione, e quindi, secondo loro, rozzi, arretrati, estranei alla modernità . Per conseguenza erano trattati come bestie, coperti di insulti e sfruttati oltre ogni limite. Una situazione insopportabile per molti, specie i più arditi e volonterosi. Decisi a dimostrare il loro valore a famiglie e talvolta a villaggi interi, lasciarono la regione per cercare nuovi cieli e nuove terre dove ricominciare la vita con dignità  e giustizia. Erano gli antenati di quegli imprenditori che, in un ben diverso contesto storico, avrebbero realizzato la più straordinaria e pacifica rivoluzione veneta: l'industrializzazione diffusa, che intorno al 1970 si avviò su base familiare, trasformando nei vent'anni successivi questa regione in una delle più attive e prospere d'Europa.

 

Brasile, la terra promessa

Ecco una vicenda veneta che ha inizio giusto 111 anni fa: la storia di un bambino e della sua famiglia, emigranti come tanti, che da ogni parte d'Italia, affollavano i vapori per le Americhe sul finire del secolo scorso. Tra loro, nel 1886, anche Nicolò e Luigia Lunardelli, giovani sposi contadini, 25 anni lui, 22 lei. In braccio a loro, Geremia, di un anno appena. Avevano lasciato la casa e i parenti a Fossabiùba di Mansuè, nella Marca trevigiana, dove la pianura opitergina incontra la Livenza, il fiume che segna il confine tra le terre venete e l'antica patria del Friuli. Nella mente dei ragazzi diretti verso l'immensità  del Brasile c'era il paesaggio verdissimo dei Gai, i prati che servono di sfogo per le piene della Livenza. Una bella distesa d'erbe che prende il nome da un termine latino per indicare la boscaglia estirpata in secoli di fatica. Il foraggio che si ottiene da quei prati ancora oggi è profumato e prezioso. Come il latte che offre il bestiame, ottimo per i saporiti formaggi locali. I Lunardelli sono conosciuti dai compaesani con il soprannome di Cimità n, secondo l'antico costume di indicare la provenienza del ceppo originario, in questo caso il villaggio di Cimetta (Siméta), non molto lontano da Fossabiùba. Lavorano la terra da generazioni, amano i campi, sanno governare la stalla. Per questo gli sposini e il neonato attraversano il grande mare. Hanno una speranza forte come la fede in Dio. In giro per i mercati e le osterie si dice che laggiù in Brasile non è difficile ottenere una campagna in proprietà , dove mettere alla prova l'intelligenza e il lavoro, a proprio vantaggio: finalmente andare a star sul suo! Senza padroni. Il sogno di tutti. Anche il piccolo Geremia ha nel sangue questo attaccamento alla terra, come valore che non delude. La sua storia ha dell'incredibile, ma lo accomuna a tanti altri italiani che si sono fatti onore all'estero da protagonisti, nel condurre al progresso le nazioni che li hanno accolti.

 

L imperatore del caffè

Per la giovane famiglia Lunardelli le cose non andranno tanto bene, all'inizio. Il papà  muore dopo qualche anno. La giovane mamma si risposa. Ancora bambino, Geremia lavora sotto padrone nelle fazendas. Ma la sua voglia d impresa insorge quando ha solo sedici anni. Nei ritagli del lavoro faticoso alleva per sé una vaccherella, qualche maialino; appena sono pronti per il mercato tratta da solo la vendita. La terra tutto attorno a San Paolo verdeggia di piante di caffè. Una coltura splendida, di piante alte, superbe, delicate ma generose. Per il ragazzo italiano, il caffè è un amore a prima vista. Nella memoria ha forse i racconti di casa, quando la pregiata bevanda che Venezia, con i suoi commerci d'oriente, ha diffuso tra i nobilòmini, veniva magnificata tra i poveri contadini costretti a sorbire orzo o cicoria abbrustoliti dentro alla palla di ferro rigirata sul focolare, un liquido appena ingentilito dalla grappa di frodo. Il caffè vero era un'altra cosa, l'infuso che ha la virtù di far stare l'uomo svegliato, attenuava i morsi della fame, corroborava lo stomaco. Per Geremia Lunardelli terra nuova e caffè diventeranno un tutt'uno. Comincerà  con un sitio, una piccola proprietà  con qualche migliaio di piante, acquistata al prezzo di duri sacrifici e di tutti i risparmi di casa. Coltivatore, commerciante, sensale di terreni, trasformatore di canna da zucchero con un marchingegno rudimentale, Geremia farà  cento mestieri, ma i suoi occhi e il suo cuore saranno sempre e soltanto rivolti al caffè. Nel tempo espanderà  l'area caffeifera ben oltre i confini dello stato di San Paolo, andandosi a cercare altri terreni adatti alla coltura nel Paranà , per creare piantagioni sempre più estese.

Quest'uomo sapeva riconoscere la terra fertile da pochi segni, e anche dall'odore. Per dirla in breve, a 30 anni, questo figlio di contadini che ha imparato a leggere e a scrivere da solo, e ha cominciato a lavorare appena ha saputo reggersi in piedi, è già  diventato O rei do cafè, il più grande produttore e commerciante di caffè del mondo! Arriverà  a possedere, negli anni Cinquanta, 14 milioni di piante di caffè, 11.500 ettari di buona terra coltivati a cotone, altri 25.375 ettari a foraggio, e ancora 5 mila ettari coltivati a canna da zucchero, più uno zuccherificio capace di 30 mila sacchi l'anno, e 30 mila capi di bestiame.

Orgoglioso di essere brasiliano di origini italiane, sarà  prodigo di soccorsi e di doni. Ha sempre guardato con ammirazione all'arte e alla cultura. È un uomo che ama il fare, più che i rapimenti artistici e la contemplazione. Ma sa che l'uomo non può vivere di solo pane. Vuole che il suo Paese non sia valutato nel mondo esclusivamente per la fecondità  della terra, ma anche per le raccolte di tesori nati dalla creatività  e dalla sensibilità  umana. Sosterrà  la nascita del museo di Belle arti di San Paolo, con contributi monetari notevoli. Al museo farà  dono di opere splendide: sculture di Rodin, dipinti di Goya, Velasquez, Renoir, Rembrandt. Nonostante la sua enorme ricchezza non mostrerà  superbia. Continuerà  a intrattenersi con tutti, a parlare con i coltivatori, a lavorare senza stanchezza né abbandoni. Il piccolo contadino di Fossabiùba, diventato un magnate, rifiuterà  per ben due volte l'attribuzione di un titolo nobiliare. Nel 1928 il re d Italia volle offrigli il titolo di conte, per i suoi meriti di gran lavoratore e sostenitore della cultura italiana in Brasile. Nel 1946 fu la volta della Santa Sede, che intendeva conferirgli il titolo di marchese per lo spirito di carità  che sempre aveva dimostrato nei confronti dei bisognosi. Ma in entrambi i casi Geremia Lunardelli opporrà  un rifiuto, richiamando la sua origine modesta e la fede negli ideali di democrazia.

Il Brasile aveva abolito i titoli nobiliari, e Geremia desiderava rispettare lo spirito di eguaglianza che animava la sua patria. Muore il 9 maggio 1962, trasmettendo ai nove figli e alle decine di nipoti questo patrimonio di valori, prima ancora che un'eredità  miliardaria. Il cruccio di tutta la sua vita fu l'incapacità  dei politici a comprendere il valore dell'agricoltura. Diceva che le capitali degli stati, i ministeri, i parlamenti, sono lontani dalle campagne, per cui uomini di governo, funzionari, professionisti, industriali non capiscono la terra e chi la lavora con amore. 'L'amore per la terra va messo alla prova del lavoro sulla terra - diceva sempre - . È così che nascono i re'. Un titolo che Geremia Lunardelli si è conquistato sui campi.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017