Francesco d’Assisi, parabola di felicità

Quest’anno ricorre l’ottavo centenario della conversione di san Francesco, segnata dall’incontro con il lebbroso e il Crocifisso di San Damiano.
25 Settembre 2006 | di


Quella dei francescani è una storia che viene da lontano e affonda le sue radici nei fermenti sociali e religiosi di un Medioevo inquieto, a suo modo alla ricerca, come tutte le epoche d’altronde, di risposte autentiche e appaganti le grandi domande dell’esistenza personale e col-lettiva. Otto secoli fa, molto probabilmente nel 1206, si può collocare la conversione di Francesco, un giovane benestante e forse un po’ stravagante di Assisi, che, attraverso un cammino laborioso e per certi aspetti imprevedibile, alfine corrisponde con totale dedizione all’invito della grazia divina. La dinamica dei fatti risulta più lineare se si fa riferimento alle sue stesse parole, fissate con grande chiarezza nel Testamento: «Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E poi stetti un poco e uscii dal mondo». Sono gli altri, soprattutto i più sfortunati, i reietti (diciamolo pure), com’erano a quel tempo i lebbrosi, la misura dell’autenticità della conversione di Francesco. Lui lo dice. In mezzo a loro e in loro compagnia egli sente di essere felice; finché invece prova solo amarezza nel vedere i lebbrosi, è rimandato dolorosamente al peso dei suoi peccati.
Dunque, è vedendo i lebbrosi che Francesco avverte un profondo disgusto per la lebbra del suo peccato personale, per l’inutilità di una vita tutta ripiegata su se stessa, sprecata nella ricerca di futili successi mondani. Ma veniamo al racconto, ben dettagliato, di uno tra i primi biografi del Poverello di Assisi: «Un giorno, mentre andava a cavallo per la pianura che si estende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso. Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore. Ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questi stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò». C’è innanzitutto un uomo spaventato, che reagisce con comprensibile raccapriccio di fronte allo spettacolo dell’insondabile dolore altrui: impotenza, timore e volontà di condivisione si mescolano. C’è subito dopo la memoria di un proponimento al quale Francesco non intende venire meno: diventare cavaliere di Cristo. Perché questo accada, però, egli intuisce che deve scendere da cavallo e farsi prossimo: prima attraverso l’abbraccio, che è il lasciarsi andare di un cuore toccato dalla grazia; poi svuotando la borsa dei denari, che è la concretezza di un figlio di mercante che rinnega la logica dell’accumulo; infine con la dolcezza e il coraggio di un bacio che diventa gesto di totale compromissione e sigillo di verità.
L’«uscita dal mondo» di Francesco è segnata da un ulteriore, personalissimo e decisivo incontro: quello con il Crocifisso di San Damiano. Un autorevole biografo così riporta il fatto: «Pregando inginocchiato davanti a quell’immagine, si sentì invadere da una grande consolazione spirituale e, mentre fissava gli occhi pieni di lacrime nella croce del Signore, udì con gli orecchi del corpo una voce scendere verso di lui dalla croce e dirgli per tre volte: “Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina”».
Le nubi del dubbio si diradano, le inquietudini si placano: la voce è nitida, certa, e rimette in movimento la vita, in direzione della Chiesa da servire, del Vangelo da annunciare, di un mondo che ha bisogno di innamorati di Cristo, di testimoni della paternità di Dio, di persone inebriate dallo Spirito, di uomini felici.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017