Eutanasia falso problema

Il diritto a una morte umanamente degna non implica necessariamente l’eutanasia. Il malato terminale è una persona, capace fino all’ultimo, se inserito in una relazione, di fare della propria vita, un’esperienza di crescita e di compimento.
04 Febbraio 2003 | di

Corrado Viafora è professore di Bioetica presso la facoltà  di Scienze della formazione e la facoltà  di Medicina dell`€™Università  degli Studi di Padova; coordinatore del Progetto etica e medicina della Fondazione Lanza.

«Come medico, ho il compito di prolungare al massimo la vita, come cittadino rilevo che il problema dell`€™eutanasia esiste, non può considerarsi un tabù: non possiamo più ignorarlo. E, quindi, parliamone». Così si esprimeva Umberto Veronesi, oncologo insigne e, allora, ministro della Sanità , intervenendo a commentare la legalizzazione dell`€™eutanasia in Olanda.
L`€™invito a parlarne lo traduceva a modo suo, nella prima pagina del «Corriere della sera», Indro Montanelli: «Se il tabù dell`€™eutanasia è caduto e se ne può parlare in libertà , sarà  pure per dire che contro il diritto del paziente (questo sì davvero sacrosanto) di decidere fino a che limite le sue forze lo dispongono all`€™accettazione delle sofferenze fisiche o morali di un`€™agonia senza speranza, le arroganti obiezioni dei bigotti sia della Chiesa sia della scienza sono destinate alla sconfitta, anche se ancora lontana». E concludeva, riproponendo l`€™invito di Veronesi: «Parliamone, quindi, parliamone».
Per tanti versi Montanelli ha ragione. Il diritto di un paziente in fase terminale di decidere lui quanta sofferenza sia in grado di sopportare è veramente sacrosanto. Tuttavia, mi sembra che con altrettanta ragione ci si debba chiedere se, in questi casi, la sola via di uscita sia l`€™eutanasia o suicidio assistito.
E, quindi, parliamone. A partire da un presupposto comune sia per credenti sia per non credenti: il riconoscimento del diritto a una morte umanamente degna. Sottratta al dolore che inchioda nell`€™isolamento e che ti fa morire «solo come un cane» e, insieme, con la stessa convinzione, sottratta all`€™accanimento della «morte incubata», segno e deriva dell`€™impoverimento che il morire, in molti casi, subisce all`€™epoca della tecnica. La prima condizione perché il confronto sia produttivo è che si precisino i termini, vista la confusione che regna in questo campo.

Eutanasia: che cosa è e che cosa non è

Che cos`€™è eutanasia? In Olanda dove, insieme al Belgio, unici Paesi al mondo, l`€™eutanasia è legge, se ne dà  questa definizione: «Intervento medico attivo effettuato per porre termine intenzionalmente alla vita del paziente su sua esplicita richiesta». Il titolo della legge recita: Riforma delle procedure per porre fine alla vita su richiesta e per il suicidio assistito (Legge n.137 del 10 aprile 2001). Nel linguaggio bioetico internazionale si parla, appunto, di voluntary active eutanasia, «eutanasia volontaria attiva».
Delimitando così l`€™eutanasia propriamente detta, risultano scorporate dalla sua area semantica pratiche che non vanno confuse (come spesso la stampa fa) con l`€™eutanasia in senso stretto. E perciò va detto chiaramente: non è eutanasia la terapia antalgica che, in fase terminale, a certe condizioni può portare ad abbreviare la vita del paziente. La necessità  di alleviare il dolore cronico intenso giustifica alcuni rischi proporzionati alla sofferenza del malato.
Comunque, non bisogna dimenticare, di fronte al rischio di abbreviare la vita, che il dolore intenso accorcia la vita molto più dell`€™uso di analgesici centrali ben dosati. E che, se anche si abbreviasse la vita, il paziente ha il diritto di scegliere di vivere qualche giorno in meno pur di vivere l`€™ultimo tratto della sua esistenza in maniera degna.
Altrettanto chiaramente va detto che non è eutanasia l`€™astensione o l`€™interruzione di trattamenti ritenuti non appropriati, se non addirittura futili, da un punto di vista medico. Nè è da considerare eutanasia il rifiuto informato da parte del paziente di trattamenti che egli considera sproporzionati. È un diritto riconosciuto dalla stessa Dichiarazione sull`€™Eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede. E non certo a seguito della legge olandese, visto che il documento risale al 1980. «Non si può imporre a nessuno l`€™obbligo a ricorrere a un tipo di cura che, per quanto già  in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio, significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana o desiderio di evitare la messa in opera di dispositivi medici sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare».

Le ragioni a favore e le ragioni contro

Chiarito che cosa è e cosa non è eutanasia e fugati alcuni equivoci e pregiudizi, continuare a parlare onestamente dell`€™eutanasia esige che se ne individuino e se ne discutano le ragioni a favore e le ragioni contro. Come punto di partenza, si può prendere lo schema entro cui, con la franchezza provocatoria che gli era propria, Uberto Scarpelli, padre ispiratore della «bioetica laica» italiana, indicava gli schieramenti contrapposti: «Nel dibattito sull`€™eutanasia si possono distinguere due orientamenti: il primo, di ispirazione religiosa, sostiene che la vita, dono di Dio, appartiene a Dio e soltanto Dio può decidere il momento in cui toglierla. La vita possiede, comunque, un valore e, quindi, va rispettata sempre fino alla fine naturale; il secondo, di ispirazione laica, si basa non sul valore della vita in quanto tale, ma solo di quella vita che possa essere degna di essere vissuta da un uomo.
«Se è la `€œdignità `€ della vita che va rispettata e difesa e non la vita `€œnaturale`€, perché il paziente, che consapevolmente ritiene che la sua vita abbia perso ormai ogni dignità , deve essere offeso dal rifiuto dell`€™ultimo aiuto? Chi dalla sua religione è condotto a sopportare qualsiasi abiezione fisica per amore di Dio, va semplicemente onorato nella sua volontà ; chi, al contrario, in una diversa religione di vita, non vuole offendere la vita con il suo avvilimento, deve essere anch`€™egli onorato nella sua altrettanto nobile scelta».
A parte la caduta di stile nella rappresentazione, per lo meno sbrigativa, con cui `€“ secondo Scarpelli `€“ il credente affronta la sofferenza, lo schema tracciato dimostra molto bene le ragioni proposte a favore dell`€™eutanasia dalla mentalità  liberale, che è l`€™approccio più impiegato per affrontare questioni di etica pubblica all`€™interno di una società  pluralistica, dove, cioè, convivono più fedi e più culture.
Di fronte a diverse e irriducibili immagini della dignità  del morire, la strategia più giusta sembra quella della tolleranza. È l`€™idea su cui insiste anche una delle più significative voci del dibattito olandese, la filosofa del diritto Helen Dupuis: «Secondo me, il problema dell`€™uccisione per pietà  è un problema di tolleranza. Vogliamo ammettere che le persone possono avere punti di vista diversi sulla vita? Essere tolleranti o non essere tolleranti, questo è il problema ultimo».
Ma è veramente questo il problema ultimo? Ci sono interrogativi, a riguardo, che non possono essere elusi. Ne segnalo due in particolare.
Il primo. Se alla base della giustificazione morale dell`€™eutanasia in prospettiva liberale ci deve essere una richiesta lucida e pienamente consapevole, è realistico pensare che si diano queste condizioni in chi vive una sofferenza intollerabile? Difficilmente, in questi casi, si può parlare di una scelta veramente autonoma. In questo modo verrebbe meno l`€™argomento forte su cui si basa l`€™approccio liberale.
Il secondo. È possibile adottare una legislazione destinata a una categoria ristretta di pazienti, solo quelli che espressamente la richiedono, senza che diventi un «invito al sacrificio» per persone indebolite fisicamente e spiritualmente, colpevolizzate dal sentirsi di peso?
E allora parliamo pure dell`€™eutanasia. Con il sistematico impegno a capire la richiesta di «essere aiutati a morire». Chi è il soggetto che richiede di essere aiutato a morire? È il paziente o l`€™ambiente che lo circonda? Per chi la sofferenza è diventata insopportabile? Qual è, inoltre, l`€™oggetto della richiesta? È il diritto a decidere autonomamente della propria morte o, piuttosto, il diritto a essere assistiti e accuditi fino alla fine senza vergognarsene?

La soluzione è stare vicini al morente

Si tratta di questioni decisive per le sorti del dibattito relativo all`€™opportunità  di una legalizzazione dell`€™eutanasia: è essa espressione del diritto al «controllo di sé» da parte di un soggetto che, costruendosi nella prospettiva del dominio e del calcolo, vuole estendere questa sua attitudine anche al morire, o espressione, piuttosto, del «sacrificio di sé» cui un certo numero di vecchi e di malati cronici sarebbe indotto dalla percezione di essere inutili e di sentirsi di peso?
C`€™è, infine, un`€™ultima questione che, sempre in questa prospettiva liberale, viene spesso sollevata: di fronte a un processo irreversibile, che motivi ci sono per ritenere determinante il corso «naturale» degli eventi? Perché non «anticipare» una fine già  segnata? La domanda sembra non senza un certo rilievo anche per la coscienza religiosa.
C`€™è chi, in questa particolare ottica, è portato a vedere nella concezione del rapporto uomo-Dio, sottesa all`€™argomento dell`€™indisponibilità  della vita come esclusiva proprietà  di Dio, una forte limitazione alla sua indole religiosa, dettata più dalla soggezione che dall`€™alleanza.
Se è l`€™alleanza la categoria che esprime, nella tradizione biblica, il rapporto religioso tra uomo e Dio, è impegno del credente evitare che il dibattito sull`€™eutanasia si imposti in termini di rivalità  tra uomo e Dio in ordine alla proprietà  della vita e, in particolare, in ordine al controllo e al dominio della morte.
Il problema non è tanto quello della legittimazione del diritto al controllo della propria morte, quanto quello di individuare le modalità  più autentiche di questo controllo. Di fronte a questo compito, mi sembra che la richiesta di legittimare il diritto al controllo della propria morte, pure espressione di un inalienabile diritto a morire con dignità  contro le prevaricazioni di ogni forma di accanimento, rischia di configurarsi come un surrogato di quella reale «signoria» che sulla morte l`€™uomo riesce a realizzare quando la inserisce all`€™interno di un quadro simbolico di riferimento che permetta di parlare della morte e, insieme, di parlare con il morente.
A partire da questa prospettiva, la vera alternativa non è tra «eutanasia» e «accanimento», ma fra la via della «negazione» della morte e del tentativo di «controllarla» e la via di un reale accompagnamento del malato terminale.
La prima via è portata a concentrare ogni sforzo nella lotta contro la morte, sia attraverso il tentativo di prolungare la vita a ogni costo, al di là  del genuino significato del rispetto della vita, sia attraverso il tentativo di dominare la morte anticipandola in nome della signoria dell`€™uomo sul proprio destino.
La seconda via propone, invece, di accettare i limiti della medicina e di astenersi da certi trattamenti o interromperli quando siano giudicati sproporzionati; e questo perché lo sforzo terapeutico viene spostato dal «guarire» al «prendersi cura», orientando le cure all`€™aiutare a vivere fino alla fine.

 

L'INTERVISTA
Quando non c`€™è più nulla da fare

Nereo Zamperetti, del Dipartimento di anestesia e rianimazione dell`€™ospedale di Vicenza: «I trattamenti intensivi hanno un limite».

Msa. Le unità  di rianimazione e di terapia intensiva rappresentano senz`€™altro uno dei contesti clinici più tecnologizzati. Qui, più che in altri contesti, si pone il problema di determinare l`€™impiego appropriato di tali tecnologie, nella convinzione che non tutto quello che si può tecnicamente fare, è anche giusto fare. È cosi?

Zamperetti. Si, è proprio così. Esemplare, a riguardo, sono le tecniche di supporto alla funzione respiratoria. A partire dagli anni Cinquanta si è assistito alla diffusione, rapida e ampia, degli strumenti di respirazione artificiale, che rappresentano un`€™autentica rivoluzione terapeutica, permettendo la sopravvivenza di malati altrimenti condannati a morire per insufficienza respiratoria. Nello stesso tempo, però, pongono importanti problemi relativi al limite del loro uso.

Che tipo di problemi?
Quelli, innanzitutto, connessi con alcune caratteristiche proprie dei trattamenti intensivi, che vengono generalmente instaurati in urgenza o in emergenza, senza che vi sia il tempo per valutare adeguatamente la situazione clinica del malato e i suoi desideri al riguardo. Spesso, poi, è difficile definire per tali malati una prognosi sicura. Si tratta, infine, di trattamenti ritenuti indispensabili perché la morte è spesso in stretta correlazione con la loro sospensione.

Qualche esempio di situazioni che pongono il problema del limite dei trattamenti intensivi?
Due mi sembrano le situazioni paradigmatiche. La prima riguarda quei malati che `€“ per la gravità  della situazione clinica di base e/o delle complicanze intervenute `€“ non hanno ragionevoli probabilità  di sopravvivenza. In queste situazioni la questione è la valutazione dell`€™adeguatezza dei trattamenti. Sono malati che, nonostante gli sforzi terapeutici, sono destinati a morire in terapia intensiva o entro pochi giorni dalla dimissione in altro reparto. La cura di tali malati pone problemi non indifferenti: come definire e identificare un limite oltre il quale un trattamento diventa inadeguato, eccessivo, sproporzionato; quale grado di certezza di prognosi ci vuole per poter affrontare il problema della gestione di un eventuale limite; se sia possibile, raggiunto tale limite, sospendere un trattamento di sostegno vitale, cioè qualcosa che mantiene comunque in vita il malato, e accompagnarlo nel processo del morire.

E la seconda?
È la situazione che riguarda tutti i malati per i quali è ragionevolmente prevedibile una sopravvivenza caratterizzata da gravissimi deficit e da pesante e incurabile invalidità  residua. In tali situazioni, nelle quali la cura intensiva è efficace sull`€™attesa di vita, ma non riesce a influire sulla qualità  della vita stessa, diventa importante verificare la volontà  del malato. E, tuttavia, solo alcuni di questi malati (una minoranza) sono in grado di formulare giudizi e richieste durante la permanenza in terapia intensiva. È accettabile, in questi casi, l`€™eventuale richiesta di un malato «salvabile» di essere lasciato morire? È possibile tentare di verificare se questo dipende solo dal trovarsi in una situazione di stress come il ricovero in terapia intensiva o se riflette una reale convinzione? Più in generale, che grado di «capacità » è pensabile per un malato in terapia intensiva?

Nel tentativo di delineare un metodo per decidere in queste situazioni, quali sono le indicazioni che, in base alla sua esperienza, si possono dare?
Mi sembra, innanzitutto, che lo sfondo concettuale di riferimento non possa e non debba essere solamente tecnico-scientifico e cioè «tutto quello che può essere fatto, deve essere fatto»; ma deve recuperare il senso dell`€™uomo, in maniera tale che «va fatto tutto quello che può essere utile al malato, dal suo punto di vista e che, in caso di prognosi infausta, può aiutare i familiari ad accettare la situazione ed elaborare la perdita». A livello operativo, poi, penso che, quanto prima possibile, nel momento in cui la prognosi sia ragionevolmente chiara e i familiari abbiamo capito e accettato la situazione, sia necessario che tutti i soggetti coinvolti nella cura (il malato ogni qual volta sia possibile, i familiari e gli operatori sanitari) programmino concordemente un percorso globale di cura (diagnostico, terapeutico, riabilitativo) in cui siano chiari i fini che si possono e si intendono ragionevolmente raggiungere. Tale percorso, aggiornato nel tempo, nel caso di patologie che diventano croniche, sarà  il punto di riferimento per valutare l`€™adeguatezza di ogni approccio clinico. Tutto questo, presuppone un`€™informazione adeguata (al malato, prima di tutto), e una comunicazione aperta fra tutti coloro che sono coinvolti nella cura.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017