Ermanno Olmi. La ricerca dello stupore, fino all'ultimo

Dopo esser stato premiato con il Leone d’Oro alla carriera, attribuitogli a Venezia lo scorso settembre, il grande regista si racconta: «Ho amato tantissimo il mio lavoro».
25 Settembre 2008 | di

Nel cinema di oggi Ermanno Olmi è il regista che forse più di altri ha dato importanza, nelle sue opere, ai sentimenti dell’uomo, alla povertà, alla semplicità della vita rurale, ai valori spirituali. Una grande e straordinaria amicizia lo ha legato, fino alla morte − avvenuta lo scorso giugno − allo scrittore Mario Rigoni Stern. Olmi e Rigoni Stern hanno abitato per anni ad Asiago, a venti metri di distanza. Al di là di una vicinanza fisica, li ha uniti una grande amicizia e il senso della vita che condividevano: tutti e due sempre lontani dai riflettori, allergici alla ribalta, controcorrente, fuori da ogni moda e da ogni scuola. Andavano insieme in montagna con lo zaino e la borraccia. E la sera preferivano quattro chiacchiere di osteria ai salotti letterari. A 77 anni Olmi traccia un bilancio del cinema di oggi, ma anche del proprio lavoro e della propria vita.
Msa. Olmi, lei ha conseguito importanti successi, grandi premi, ed è ancora sulla breccia con altri documentari. Felice di come è andata?

Olmi. Mi ritengo fortunato. Io mi sono innamorato del teatro fin da bambino, poi del cinema, nel dopoguerra. Quella è stata la mia grande vocazione. La vita, a esser sinceri, non mi ha costretto a fare grandi sacrifici per, come si dice oggi, realizzarmi. O comunque sacrifici tali da procurarmi sofferenza. Le sembrerà strano, ma ho trovato abbastanza facile percorrere la strada che avevo scelto. Resto sempre convinto che la felicità consista, essenzialmente, nel fare il proprio lavoro con amore. Questo, poi, si ripercuote sempre sul successo dell’opera. Quando un ideale (e il mio era veramente un ideale) è sorretto da tale felicità, le cose arrivano da sé, naturalmente. E io ho amato tantissimo il mio lavoro.

Quali sono i film a cui è maggiormente legato?

Non è possibile discriminare un film dall’altro. Ogni film corrisponde allo stato d’animo del momento. L’opera si lega in qualche modo a un bisogno, a una fisionomia interiore. La varietà infinita dei nostri stati d’animo ci consente di fare, ogni volta, una cosa nuova. Sempre che tutto nasca da una necessità interiore. Ogni film ha la sua nota di sentimento. Come una musica ha il suo leit motiv.

Quale regista ha amato di più?

Ho avuto una vera folgorazione per Rossellini, nell’immediato dopoguerra. Solo allora ho capito la grande, profonda differenza che c’era fra il cinema hollywoodiano di intrattenimento e quello neorealista. Il cinema americano era per noi come la scoperta di un mondo nuovo, di una società piena di luce e di una giocosità che noi non avevamo. Noi eravamo un Paese che era vissuto fino ad allora senza libertà e senza ricchezza. Questi due mondi erano nettamente separati ma, vedendo i film americani, si poteva pensare a un futuro che avrebbe fatto felici anche tutti noi. Quando ho visto i film di Rossellini ho capito che quella felicità era un sogno, mentre la realtà vera del nostro Paese era quella del dopoguerra, della fame, della povertà, di una faticosa rinascita. In Italia cominciava un nuovo cammino: è proprio questo cammino che mi ha affascinato ed era questo il messaggio di Rossellini.

Il cinema di oggi racconta la vita o una realtà immaginaria?

Trovo che il cinema italiano rispecchi la società, ma una società che si è sviluppata secondo canoni sbagliati, inseguendo un tipo di sviluppo fallace. Il cinema, in altre parole, ha sofferto di questa realtà distorta, ha ritratto un clima di decadimento che è sotto gli occhi di tutti. Oggi ci accorgiamo che la nostra unica speranza è quella di un nuovo «rinascimento». Devo riconoscere, però, di aver visto alcuni film bellissimi, sia comici sia drammatici, con una forte tensione morale.

Non le sembra che oggi, nel cinema, il sesso abbia una rilevanza abnorme, eccessiva?

Il sesso ha sempre avuto una grande importanza. L’er­rore sta nel modo di affrontare quella che è una legge fondamentale della natura. Ecco, questo approccio è oggi scadente, volgare. Non è il sesso colpevole, colpevole è questo modello di vita in base al quale tutto ciò che si tocca viene profanato. Anzi, c’è quasi il gusto della profanazione.

Molti hanno detto che lei è stato il poeta del mondo contadino. Ma esiste ancora un mondo contadino?

Quel mondo che ho ritratto non esiste più. Io ne ho colto, trent’anni fa, le ultime tracce. Credo, però, che oggi si stia riproponendo una nuova civiltà contadina. Pensiamo a tutto questo movimento a favore della natura che rinasce, alle nuove generazioni che tornano alla terra con un nuovo patto di alleanza. Non più quell’approccio arrogante e prevaricatore del passato, e questo perché oggi abbiamo nuove tecnologie a disposizione. Come non va profanato il sesso, non va profanata la terra.

Lo storico Piero Melograni ha scritto che la scomparsa della civiltà contadina ha costituito uno spartiacque nella storia mondiale alla pari della fine dell’impero romano.

Sono d’accordo. La civiltà rurale è, in assoluto, la vera civiltà che l’umanità ha conosciuto e realizzato. Era una cultura comune in tutto il pianeta. Adesso vi sono popoli che si sono separati perché falsamente ricchi e tecnologici. Questa falsa ricchezza accende differenze pericolose.

Vuol dire che non esiste più l’uomo spirituale, che tutto si è involgarito?

Non dico che non ci siano più valori di riferimento comuni. Prima, per i contadini, un metro quadrato di terra aveva un valore in termini di sopravvivenza. Oggi, invece, in un’economia così al di fuori di ogni logica naturale, si è arrivati a una sorta di guerra di religione tra ricchi e poveri.

Una volta lei ha detto una frase che è stata variamente commentata: «Un caffè con un amico vale più di qualsiasi libro». Che significato può avere oggi?

Credo che qualsiasi conoscenza filosofica o culturale non valga quanto una disposizione alla pace, all’amicizia. Se non c’è questa disposizione alla reciproca comprensione, alla pace e all’amicizia, tutto il sapere scientifico, teologico, filosofico non ha alcun valore. Prima dei libri, guardiamoci negli occhi.

Un suo film, Il posto, racconta la fatica di trovare un impiego. Oggi il posto di lavoro è diventato una chimera. Che influenza avrà tutto questo sui giovani?

La precarietà è frutto di un progetto complessivo di sviluppo, che produce una falsa economia. Siamo, di fatto, una società ricca che produce precarietà. Un assurdo. Vuol dire che, nel nostro sviluppo, ci sono degli equivoci clamorosi.

Nei suoi taccuini Mauriac scriveva: «Solo l’infanzia ci dà le chiavi della vita». Che peso ha avuto l’infanzia di Olmi nel destino di Olmi?

Ha ragione Mauriac. L’infanzia è tutto. Lo sguardo del bambino è lo sguardo innocente di chi vuol cogliere nel mondo la gioia di esistere, non quella di possedere. Noi purtroppo non diventiamo uomini della contemplazione, del bello, dell’amicizia, ma uomini del possesso. Dovremmo, fin dall’infanzia, educarci ad altri valori.

Fino a poco fa esistevano due concezioni dell’uomo: l’uomo occidentale e l’uomo sovietico. Esiste una terza via?

Qui sta l’equivoco per cui vengono create divisioni fra i popoli da parte di chi detiene il potere. Io vivo qui, sull’altipiano di Asiago, dove nella prima guerra mondiale si sono affrontati austriaci e italiani. C’è un mausoleo, da queste parti, che ricorda i ven­timila morti, tutti giovani, che sono stati chiamati a combattere una guerra che non capivano, a uccidere un nemico che non conoscevano. Tant’è vero che, nelle tregue, fra una trincea e l’altra si faceva amicizia per poi, dopo poco, tornare a sparare. Perché? Perché nella classe dirigente di allora, imbecille e criminale, si sventolava la bandiera del sacro suolo della patria da difendere che confondeva le menti di questi ragazzi. Un delitto. Questa è la terza via.

«Il momento più bello della mia vita – diceva il suo amico Rigoni Stern – non è stato quando ho vinto premi letterari, ma quando con settanta alpini ho camminato verso occidente senza perdere un solo uomo». Qual è stato il momento più importante per Olmi?

Non saprei. So solo che ho avuto momenti di grande stupore, uno stupore che mi ha arricchito e mi ha dato gioia. Una sorpresa, qualcosa di assolutamente imprevedibile. Ho avuti tanti di questi momenti. Quello che voglio dire è che fino all’ultimo momento della mia vita continuerò ad andare alla ricerca di questa sorpresa, di questo immenso stupore che mi trascende.



La scheda. Ermanno Olmi

Nasce il 24 luglio 1931 da una famiglia contadina del bergamasco, profondamente cattolica. Da bambino rimane orfano del padre, morto durante la seconda guerra mondiale. Si trasferisce a Milano dove si iscrive all’Accademia di arte drammatica. Intanto trova lavoro in una società elettrica, la Edison Volta, che gli affida alcuni documentari sulle proprie attività industriali. È l’esordio di Olmi come documentarista.

Nel 1959 debutta sul grande schermo con Il tempo si è fermato a cui segue Il posto che ottiene ottime recensioni. Il grande successo arriva nel 1978 con quello che è ritenuto il suo capolavoro, L’albero degli zoccoli, storia di vita contadina dell’800, che si aggiudica la Palma d’oro al festival di Cannes. Dopo una grave malattia che lo tiene lontano dal cinema per qualche anno, Olmi ritorna sugli schermi con
La leggenda del santo bevitore che ottiene il Leone d’Oro a Venezia. Nel 2001 dirige
Il mestiere delle armi che ottiene 9 David di Donatello e nel 2005 Cento chiodi. Lo scorso settembre, durante il Festival del cinema, ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017