Eremita nel Sahara e fratello universale

È una delle figure spiritualmente più affascinanti del secolo passato; ha vissuto la radicalità del Vangelo, testimoniando i valori della povertà, della ricchezza della fraternità e dell'amore. Sugli altari il 13 novembre.
19 Ottobre 2005 | di

Charles de Foucauld verrà  proclamato beato il 13 novembre prossimo. L'avvenimento toglierà  dal cono d'ombra, in cui negli ultimi tempi è rimasta confinata, una delle figure spiritualmente più affascinanti del secolo passato. Protagonista di un'avventura cristiana forte e suggestiva, ha riscoperto e vissuto la radicalità  del Vangelo, a imitazione del Gesù quotidiano di Nazareth. E così povertà , condivisione di vita con i più poveri, annullamento, insieme con preghiera, adorazione, amicizia, testimonianza, dialogo... sono diventati il paradigma della sua avventura segnando una «rivoluzione» per una Chiesa ancora allettata da sogni di gloria e di potenza.
De Foucauld è una figura attualissima: da riscoprire e imitare. Lo sottolinea anche il cardinale Walter Kasper che vede nella sua esperienza un «modello per realizzare la missione del cristiano e della Chiesa nel deserto del mondo: la missione tramite la semplice presenza cristiana, nella preghiera con Dio e nell'amicizia con gli uomini» .
De Foucauld, dunque, straordinario maestro di spiritualità , «rifondatore del cristianesimo del Novecento» e altro ancora. Eppure, nulla nella sua inquieta ed errabonda giovinezza fa presagire un tale esito della sua vita, della quale vi raccontiamo i passaggi salienti.
Nasce a Strasburgo nel 1858. Famiglia borghese, educazione religiosa, ma a sedici anni, abbacinato dalla cultura francese impregnata di antireligiosità , si allontana dalla fede mettendo Dio tra le cose di cui fortemente dubitare e di cui non vale comunque la pena di occuparsi. In verità , svagato e vuoto com'è, non trova nulla cui dedicare attenzione. E quando intraprende la carriera militare (1876) nella celebre scuola di Saint-Cyr, non ci sono ideali a sospingerlo: semplicemente, non sa che altro fare. Infatti, diventa un pessimo soldato: insofferente alla disciplina, più sensibile alle strategie della dolce vita che a quelle di von Clausewitz, quando gli sfagiola - cioè spesso - lascia la caserma per andare a gozzovigliare con amici e amiche (ha un'amante, Mimi) in un appartamento lussuosamente arredato con i soldi di una sostanziosa eredità .
Poiché sfuriate e accigliati rapporti non lo fanno rientrare nei ranghi, l'esercito decide di sbarazzarsi dell'indisciplinato fannullone. De Foucauld lascia senza rimpianti il suo reggimento, «I cacciatori d'Africa», e si dedica a tempo pieno ai riti goderecci della bella vita.
Lo scavezzacollo, «pecora nera» per la famiglia, ha un rigurgito d'orgoglio quando legge che il suo reggimento è in Algeria a sedare un'insurrezione (sono in corso le conquiste coloniali). Ottenuto il reintegro nell'esercito, raggiunge i commilitoni accompagnato da Mimi, che spaccia per sua moglie. Stavolta sorprende tutti comportandosi da soldato coraggioso e disciplinato. Ma quando pensa di aver pareggiato il conto, si congeda e torna a Parigi.

Il viaggio alla ricerca di se stesso e di Dio
L'esperienza algerina lo ha un po' cambiato, ma soprattutto gli ha fatto conoscere l'Africa, i suoi abitanti, l'ambiente fantastico, gli orizzonti mozzafiato. È il «mal d'Africa» e de Foucauld ne è colpito in pieno. Vuole saperne di più sulle tradizioni, sui costumi, sulla gente. Si improvvisa allora esploratore e geografo e viaggia in lungo e in largo per quelle contrade, travestito da ebreo e accompagnato da un vero rabbino.
I suoi viaggi non sono inutili, gli appunti e le scoperte che fa contribuiscono a rendere più precisa la carta geografica dell'Africa settentrionale.
È un altro uomo quello che a Parigi riceve la Medaglia d'Oro della Società  Geografica per le sue scoperte. Ma i turbamenti interiori gli fanno capire che il viaggio veramente importante deve ancora compierlo, quello che lo porti alla ricerca di se stesso e di Dio. Decide di intraprenderlo. Ecco come lui stesso racconta quel passo: «Per dodici anni, ho vissuto senza alcuna fede: nulla mi pareva sufficientemente provato. L'identica fede con cui venivano seguite religioni tanto diverse mi appariva come la condanna di ogni fede [...]. Per dodici anni rimasi senza nulla negare e nulla credere, disperando ormai della verità , e non credendo più nemmeno in Dio, sembrandomi ogni prova oltremodo poco evidente» .
Alla fine, aiutato da un'abile guida spirituale, l'abate Huvelin, ritrova Dio: «Quando riconobbi che Dio esiste, capii anche che non avrei potuto fare altro che servire Lui solo».
E per farlo si fa monaco (gennaio del 1889) nella trappa di Nostra Signora delle Nevi, nella diocesi di Viviers. Vi passa sei anni, ma non è quello che cerca. «Desiderando, per rassomigliare ancora di più a Gesù, uno spogliamento più profondo e un'abiezione più grande, andai a Roma e ottenni dal generale dell'ordine il permesso di recarmi solo a Nazareth e di vivere là , sconosciuto, da operaio, con il mio lavoro quotidiano». A Nazareth trova finalmente la sua vocazione: «Abbracciare l'umiltà , la povertà , la rinuncia, l'abiezione, la solitudine, la sofferenza di Gesù nel suo presepio; non tenere in nessun conto la grandezza umana, l'elevatezza, la stima degli uomini, ma stimare tanto i più poveri quanto i più ricchi. Per me, cercare sempre l'ultimo degli ultimi posti, disporre la mia vita in modo da essere l'ultimo, il più disprezzato degli uomini» .
Ma Nazareth è ovunque. Anche nel Sahara, dove nei suoi viaggi ha incontrato alcuni dei poveri più poveri del mondo. Ed è lì, a Beni-Abbès, ai confini tra Algeria e Marocco, che nell'ottobre del 1901 de Foucauld, ora fratel Carlo, si trasferisce, dopo esser stato ordinato sacerdote. Vi costruisce un piccolo eremo, «Kaua», Fraternità , dove prega, lavora, accoglie chiunque passi da quelle parti.
Nel 1905 si sposta a Tamanrasset, un pugno di capanne di fango su un arido altopiano, intorno ad alcuni pozzi usati dalle carovane dei tuareg, lontano da ogni altro segno di vita e di civiltà . Ed è con i tuareg , i poveri abitanti di questi tuguri, che fratel Carlo decide di condividere la misera sorte per annunciare loro, musulmani, il Vangelo di Gesù. Ma a suo modo, cioè prima di declamarlo, viverlo: senza vanto, senza diversità , senza privilegi testimoniandolo nella fraternità , nell'amicizia e nell'amore. Ma i musulmani di qui sono meno teneri che altrove con i cristiani. «I non cristiani - dice lui - possono essere nemici di un cristiano, un cristiano è sempre tenero amico di ogni uomo». Si fa amico dei tuareg, anzi fratello, piccolo fratello, fratello universale. Vive non in mezzo a loro ma insieme a loro. Li invita nella sua capanna ed è ospite nelle loro: con loro beve il tè verde, ne rispetta le abitudini, ascolta le donne che cantano le melodie della tribù e raccontano storie antiche. Impara così a conoscere i loro problemi, i desideri, le paure. Dopo un po', parla e pensa nella loro lingua. Diventa uno di loro. Lo chiamano Marabutto l'uomo della preghiera, e il grande capo dell'Hoggar Musa, Ag Amastan lo onora della sua amicizia.
Traduce la Bibbia in lingua tuareg della quale scrive una grammatica e compila un dizionario. Procura alle donne i ferri per lavorare a maglia e si adopera perché il figlio del capo della tribù venga educato in Francia. Ovunque ci sia bisogno di aiuto, lui c'è. Pratica quel dialogo, estraneo a ogni proselitismo, teorizzato dall'amico Louis Massignon, precursore del confronto tra cristiani, musulmani ed ebrei.
Ma il suo è un dialogo che non porta frutti apparenti: quando, in seguito alle tensioni create in Algeria dal risorgente colonialismo, viene casualmente ucciso (1 dicembre 1916) da un giovane tuareg , non ha «convertito» nessuno, come non è riuscito a concretizzare neppure una delle comunità  monastiche sognate e per le quali ha anche tracciato Regole ispirate alla povertà  radicale, alla condivisione di vita con i poveri, condizioni indispensabili per avere la libertà  assoluta di amare Dio, di adorarlo nella preghiera e nella contemplazione. E di amare gli altri. Amore: nessuno come fratel Carlo ha riscattato e ridato dignità  a una parola così abusata. Amare, vuol dire dividere i propri beni con i poveri, vivere come loro ed essere come loro.
Dopo la prima guerra mondiale vengono ritrovati i suoi appunti; dopo averli letti, qualcuno (uomini e donne) decide di seguire il suo esempio e inizia a vivere nel suo spirito. Nascono così i «Piccoli fratelli» e le «Piccole sorelle di Gesù», le comunità  che fratel Carlo ha sognato, oggi diffuse in quasi tutto il mondo. Il chicco  di frumento caduto in terra porta ora una ricca messe.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017