Donne che cambiano il mondo

Sono Laura Pierino, Chiara Castellani, Ernestina Cornacchia, Sara D'Melo e molte altre che, in situazioni di grave disagio, hanno aperto strade di salvezza, ottenendo cambiamenti tali da far rinascere la speranza.
17 Febbraio 2006 | di

Sono donne «comuni», ma legate da un tenace filo rosso che le rende sorelle nella speranza al di là  di ogni speranza umana. Le ho incontrate sulle strade della sofferenza e della fatica quotidiana in diversi Paesi del nostro pianeta. Ho sostato accanto a loro per condividere e cercare di lasciarmi abitare dalle storie della gente che è diventata tutta la loro famiglia. Con il loro altruismo radicale e il loro amore totalmente gratuito riescono a dare un futuro a chi non ce l'ha o, perlomeno, a rendere meno drammatico il presente.
Ne ho scelte quattro che rispecchiano nella loro vicenda quella di tante altre, a cominciare da Laura Pierino, una giovane ragazza che, in Mozambico, da sola, sta realizzando sogni che sembrano impossibili. Lei stessa va ripetendo: «È un attimo vedere un sogno trasformarsi in realtà : basta crederci! Basta ogni mattina ricominciare a sognare l'impossibile!».

Laura, con gli ultimi del Mozambico
«Laura dei miracoli», come affettuosamente ho ribattezzato Laura Pierino, era un'impiegata torinese che viveva gioiosamente fra le sue coetanee, amava sciare e fare windsurf . Durante alcuni viaggi in Africa per conoscere la vita delle popolazioni sotto il profilo antropologico e culturale, rimane dolorosamente folgorata dalla solitudine e dall'emarginazione di tante persone che rappresentano, per il mondo che conta, solo un numero. O forse neppure. Decide di andare a trascorrere, nel nord del Mozambico, un periodo di tempo per cercare di capire i problemi della gente. Si ritrova tra bambini denutriti, mamme consumate dalla sofferenza, persone da ascoltare e, soprattutto, da amare nella povertà  di un'esistenza dove ogni gesto, ogni passo, ogni scelta è pesante fatica.
Quando rientra in Italia decide: il suo futuro è in Africa, tra coloro che non hanno voce. Lascia il lavoro e la famiglia - è figlia unica - ritorna nel Paese africano, ma questa volta va a vivere nella baracca di un barrio (quartiere) della città  di Pemba, dove povertà  materiale e morale si mescolano in una miscela esplosiva. Non c'è acqua né luce, soltanto fango, miseria materiale e morale. Prime ospiti sono due ragazzine orfane, ma in breve arrivano altre persone attratte dal suo uscio sempre aperto e dalla sua totale amorosa disponibilità .
Scrive agli amici che la seguono dall'Italia: «...Ho sentito lo sguardo degli ultimi trasformarsi in un grido silenzioso. Il grido di chi neppure più sa che cosa è il diritto alla vita perché i vivi sono gli altri. Ho sentito che la speranza esiste sempre nel cuore dell'animo umano, seppure repressa dalla paura, schiacciata dalla sofferenza, soffocata dalla rassegnazione... Ho visto Gesù Cristo avvicinarsi nel volto di questi e di molti altri come loro. Non mi cercare lontano - ha detto - eccomi qui. Ed io ho capito che Lui nasce fra di noi ogni giorno».
È stata questa scoperta a guidare le sue scelte e a darle la forza di una condivisione fatta di ascolto, di accoglienza, ma anche di promozione delle potenzialità  di tante persone che per la prima volta si sono viste trattate come esseri umani con una propria storia e il diritto a un futuro.
In pochi anni, con l'aiuto di una catena di amici italiani ha creato: un «Lar da Esperanà§a», una casa che accoglie durante il giorno un centinaio di ragazzi di strada che imparano un mestiere; un lebbrosario costruito dagli stessi lebbrosi che hanno ritrovato il coraggio di gestire la propria vita in modo dignitoso; capanne che ospitano ragazzine incinte e bambini orfani, neonati idrocefali, anziani malati e abbandonati.
Lei si alza alle cinque del mattino per andare a caricare taniche di acqua per tutta la sua grande famiglia, alla quale dedica senza risparmi ogni ora della giornata. Una vita dura, con continue emergenze e difficoltà , che a volte paiono insuperabili, con sconfitte e risalite verso la luce. Un'esistenza sostenuta dalla preghiera con la quale all'alba Laura apre le sue giornate nella piccola capanna divenuta la cappella del suo villaggio dell'amore e della speranza.
Così lei stessa la descrive: «Sempre di meno mi sento capace di raccontare a chi mi chiede della mia esperienza. Posso dire però che vivo una vita meravigliosa. Agli occhi di molti può sembrare assurdo trovare meravigliosa una quotidianità  fatta di sacrifici, di rinunce, di gente che soffre... ma per chi vede con i miei stessi occhi, questa è una vita vera, costruita da gesti di amore, di condivisione, di servizio incondizionato ai più poveri, ai più bisognosi... Più la mia vita si trasforma in un esistere per l'altro e non esistere per me stessa, e più scopro di esistere, scopro l'essenziale... e questo mi basta per dare un senso pieno alla mia vita».

Chiara, «passero con un'ala sola»
Sempre in Africa, ma questa volta nel Congo crocifisso dalle continue stragi e dallo sfruttamento delle multinazionali, opera invece da quindici anni Chiara Castellani, medico volontario prima in Nicaragua, durante gli scontri fra sandinisti e contras, divenuta chirurgo di guerra sul campo. A Kimbau, nella savana, dirige un ospedale senza acqua e senza luce, con scarsa disponibilità  di medicinali e un'ostinata volontà  di promuovere i diritti degli ultimi.
«L'Africa non ha solo bisogno di aiuti materiali. Prima ancora ha bisogno di giustizia e di legalità », ripete con insistenza durante le sue visite in Italia, quando incontra gli amici che la seguono anche attraverso un sito telematico divenuto assai efficace. E in questa direzione sta operando accanto alla sua attività  di medico, convinta che fin quando gli africani non potranno vedere rispettati i loro diritti alla salute, all'istruzione, alla pace, a una qualità  di vita dignitosa, gli aiuti, che il Nord del mondo offre al Continente nero, rischiano di andare dispersi nelle maglie di un assistenzialismo che non riesce a risolvere i problemi sempre più drammatici che affliggono questo Paese.
Chiara, che oggi ha cinquant'anni ed è priva di un braccio - perso durante un incidente automobilistico mentre era diretta a Kinshasa - è responsabile di una scuola per infermieri, lavora per la formazione civile, politica e culturale della sua gente, in stretta collaborazione con il vescovo della diocesi di Kenge, monsignor Mudiso. Durante la guerra fra Mobuto e Kabila ha visto uccidere amici e collaboratori, ha pianto sui morti dei villaggi rasi al suolo e bruciati dai mercenari, continua a piangere ogni volta che non riesce a salvare un bambino, una donna, un uomo da una morte che si sarebbe potuta evitare se l'Africa non pagasse continuamente le ingiustizie di un pianeta dove il 20 per cento della popolazione gode delle risorse e l'80 per cento si deve accontentare delle briciole.
Per questo «doctora Clarita», come la chiamavano i suoi ammalati del Nicaragua, ha deciso di non venire via dalla Repubblica Democratica del Congo: anche se adesso deve operare aiutata da un infermiere chirurgo; anche se le sue uscite nella brousse per le vaccinazioni - è l'unico medico per 100 mila abitanti - sono sempre più faticose, perché la malaria l'assale periodicamente; anche se le delusioni e i rischi sono tanti, le difficoltà  sempre maggiori, con l'aids che compie delle stragi e lei non ha i mezzi per curarlo.
La sua determinazione a non abbandonare persone che senza di lei sarebbero completamente dimenticate, è aumentata. Ora anche lei, dopo aver amputato i feriti saltati sulle mine, è diventata un'amputata, «un passero con un'ala sola», e ha scoperto che si può continuare a volare con l'aiuto e la solidarietà  degli altri. Questa emigrazione, non solo con il cuore e l'anima ma con tutto il corpo, nella terra di coloro che sono stati feriti dalla vita e dalla violenza, le dà  il coraggio di ricominciare ogni mattina, affidandosi all'abbraccio di Nzambi, Dio in kikongo , che ha pensato di salvarmi perché continuassi a sognare insieme con lui e con chi ha una sola speranza, quella di essere amato dal Padre degli ultimi e degli oppressi».

Ernestina, nelle favelas di Bahia
Dall'Africa all'America Latina. Nel Brasile, che sta cercando con fatica di emergere dalle sue tante povertà , opera invece Ernestina Cornacchia, una donna dal vigore umano e operativo straordinario, ricca di una fede che smuove le montagne e coinvolge chi l'avvicina.
La sua biografia è avvolta da un dinamismo che spiega come sia riuscita a trasformare situazioni difficilissime.
Coltivatrice diretta nei campi di famiglia in quel di Mantova, ha studiato come assistente sanitaria e per trent'anni ha svolto questa professione in una Asl. Quando è andata in pensione, ha realizzato il sogno dei suoi anni verdi, quello di andare come missionaria laica nel Terzo Mondo. Prima in Ruanda e poi nello Stato di Salvador de Bahia, dove è andata ad abitare in una favela così segnata dalla violenza che la stessa polizia vi gira al largo. Condivide giorno e notte le disperate condizioni di vita degli abitanti, i quali non solo l'accettano e la rispettano, ma si fanno coinvolgere nella promozione dei propri diritti umani e sociali. Ha creato ambulatori, farmacie con le erbe medicinali del posto, scuole, laboratori di falegnameria e di cucito, consultori e persino una radio che ogni giorno informa sugli avvenimenti della comunità , sulle proposte e iniziative.
La violenza giorno dopo giorno è scomparsa, la gente ha ritrovato la speranza e il coraggio di rivendicare le proprie necessità ; il barrio, ribattezzato da paz, cammina ora con le proprie gambe verso un futuro dignitoso e di sviluppo. Terminata questa missione, Ernestina si è trasferita in un'altra zona della baia di Todos Los Santos, ad Acupi, dove si dedica alla promozione dei diritti umani, in particolare di quelli delle marisqueiras , le raccoglitrici di molluschi dell'oceano che vivono e lavorano in condizioni drammatiche, immerse nell'acqua ed esposte a malattie e sfruttamento. Ernestina sta realizzando per loro un progetto di sostegno con cooperative, corsi di alfabetizzazione e di formazione.
«Dopo secoli di schiavitù fisica e psicologica, dopo avere subito violenze e tradimenti continui, le donne non hanno più nessuna stima di se stesse, ritengono di non valere niente. Con la pedagogia dei piccoli passi siamo riusciti a portarle a una vita nuova che dà  loro il coraggio di sottrarsi alle angherie e alle violenze.
«Il Signore vuole le sue figlie in piedi. Gesù non ha detto alla figlia di Già iro. Fanciulla, alzati e cammina!? I poveri, proprio perché poveri, hanno diritto ad avere il meglio e poi ci aiutano a ritrovare la nostra ricchezza interiore, il nostro colloquio continuo con Cristo».

Sara, nel lebbrosario di Bombay
Concludo questa breve carrellata di donne «comuni», eroiche nel quotidiano, con Sara D'Melo, la splendida donna indiana che da ricca si è fatta povera per aiutare i senza casta del suo Paese. Dopo essere stata per anni insegnante in un raffinato college e avere condotto una vita lussuosa, ha scoperto, prima accanto a madre Teresa di Calcutta e poi per proprio conto, l'infinita miseria e solitudine degli ultimi fra gli ultimi.
A quarantacinque anni ha lasciato la sua condizione agiata e i suoi privilegi per andare a vivere in un lebbrosario di Bombay, dove è riuscita a cambiare le disumane condizioni di esistenza degli ammalati.
Dopo alcuni anni, nel quartiere a luci rosse di Kamathipura, il più grande bordello dell'India dove su 58 mila persone ci sono 6 mila 500 lavoratori del sesso, Sara ha deciso di occuparsi dei figli delle prostitute. Cerca di strapparli al loro destino che è quello delle proprie madri, offrendo loro la possibilità  di un futuro diverso, di un'esistenza degna di questo nome.
Che cosa la muove? Ogni persona umana ha diritto di mangiare, di avere un letto e l'acqua potabile. Ha diritto alla salute e alla propria dignità . Milioni di persone sono escluse da questi diritti elementari. Non posso accettarlo, soprattutto noi donne non possiamo accettarlo, risponde, con un sorriso che emana una luce che accarezza e dà  speranza.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017