Dio al centro, con esemplare maturità umana e cristiana

Il 2 febbraio la Chiesa celebra la Giornata mondiale della vita consacrata. Un’occasione per illustrare questa radicale forma di vita cristiana.
23 Gennaio 2008 | di

La vita consacrata è risposta a una particolare chiamata divina, una vocazione che soprattutto oggi esige una fede dalle radici salde e un’umanità piena e realizzata, con la volontà chiara di affidare totalmente la propria esistenza nelle mani di Dio e di renderla disponibile al servizio dei fratelli. Assurdo pensarla come via comoda per sbarcare il lunario e tanto meno come ripiego di fronte a fallimenti affettivi. Si tratta di vecchi stereotipi ereditati da anguste letture ideologiche del passato.

Vivere in fraternità praticando il celibato, la povertà e l’obbedienza, mettendo al centro l’Eucaristia e la preghiera liturgica, conferisce a questo stile di vita una particolare efficacia in ordine alla testimonianza dell’Assoluto. Dio al primo posto, dunque, e i fratelli e le sorelle amati in Dio, soprattutto i più piccoli.
Abbiamo posto alcune domande a monsignor Gianfranco Agostino Gardin, segretario – da circa un anno e mezzo – della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica.

Msa. In Europa i consacrati stanno invecchiando e diminuendo di numero, mentre si registra una crescita vistosa in altri continenti. Come si spiega questo fenomeno?

Gardin. Le cause della diminuzione numerica e dell’invecchiamento possono essere diverse: dal decremento della natalità tipico dei Paesi occidentali, al ridursi del numero dei cattolici praticanti, alla nascita di tante nuove realtà ecclesiali, come i vari movimenti, che offrono itinerari di fede e di impegno apostolico che prima sembravano essere monopolio quasi esclusivo dei consacrati. In altri continenti vi sono invece Chiese giovani, spesso vivaci, e famiglie numerose. D’altra parte, la vita consacrata non è una sorta di «torre d’avorio» impermeabile ai mutamenti, positivi o negativi, che si verificano nella Chiesa e nella società; ne subisce i contraccolpi, e perciò è normale che là dove la Chiesa sperimenta difficoltà ad essere vivace e ad attrarre fedeli, anche la vita consacrata viva situazioni di penuria vocazionale e di ridimensionamento. Insomma, dove diventa più difficile vivere la vocazione cristiana, anche la vocazione alla vita consacrata, che è un modo particolare di vivere la comune vocazione battesimale, registra difficoltà e battute d’arresto.

Si dice che i consacrati sono nella Chiesa e nel mondo segno e testimoni dell’Assoluto. In concreto?

In concreto compiono scelte che sarebbero prive di senso se non fossero motivate da una fede convinta e da una profonda relazione con Dio. Non sposarsi e non fare una famiglia propria, rinunciare a gestire la propria vita secondo progetti personali mettendosi a servizio degli altri, specie dei più poveri, assumere uno stile di vita sobrio ed essenziale anche quando le circostanze potrebbero permettere uno standard elevato di vita, condividendo con altri fratelli o altre sorelle i beni materiali e spirituali: sono scelte compiute non – come qualcuno potrebbe pensare – per una eccentrica rinuncia fine a se stessa, ma per il semplice fatto che «Dio basta» e la persona di Gesù di Nazaret esercita una fascino tale per cui, come ha scritto Giovanni Paolo II, non si può non abbandonare tutto e seguirlo. Precisamente come hanno fatto i discepoli da lui chiamati. Ma vanno fatte due precisazioni. Anzitutto non va dimenticato che si tratta di una «vocazione» (una delle possibili): prima di un decidersi per si sperimenta un rispondere a Qualcuno che invita a seguirlo. In secondo luogo va detto che la persona consacrata non è un fortunato che ha capito chi è Dio e fruisce di una privilegiata relazione con Lui: è piuttosto un assiduo cercatore di Dio, che spesso sperimenta quotidianamente la fatica di avvicinarsi al suo «mistero».

Dal suo privilegiato punto d’osservazione come vede il futuro della vita consacrata?

Come avviene spesso, alle difficoltà si mescolano i segni di speranza. Certo, salvo improbabili cambiamenti, in Europa e negli altri Paesi del mondo occidentale la vita consacrata sarà segnata da ulteriore calo numerico e dunque dalla diminuzione e dal ridimensionamento delle sue presenze e opere. Ma forse proprio questa condizione di povertà di numeri e di forze, rispetto a un passato recente, può stimolare a riconoscere e a perseguire in maniera più essenziale e più umile i suoi veri obiettivi: una ricerca appassionata di Dio, una dedizione totale agli altri, una testimonianza limpida di totale fiducia nel Signore. Io credo che una vita di questo tipo non cesserà, nonostante tutto, di suscitare attrattiva in giovani uomini e giovani donne di tutti i Paesi. Naturalmente alla nostra Congregazione giungono soprattutto i problemi: come dappertutto questi occupano maggiormente l’attenzione di chi ha responsabilità; ma giungono anche i segni di una sincera volontà di rinnovamento e di servizio generoso alla Chiesa: in vecchie e nuove istituzioni.

La Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica che temi sta dibattendo? Ce n’è qualcuno che pensa di proporre nel prossimo futuro?

Ci troviamo a lavorare su diversi fronti, offrendo, per esempio, l’aiuto di suggerimenti pratici e di strumenti istituzionali sia a Istituti religiosi in difficoltà per il consistente calo numerico, sia a Istituti religiosi che stanno nascendo. Un tema a cui stiamo dedicando una certa attenzione è quello dell’esercizio dell’autorità e della pratica dell’obbedienza nella vita delle persone consacrate. È tema delicato, che esige il rispetto di valori irrinunciabili per la vita consacrata ma anche di nuove sensibilità. La vita consacrata vuole essere Vangelo calato in relazioni umane caratterizzate da maturità umana e cristiana esemplari.


Vita consacrata nela chiesa locale

Qual è il dono più grande

Io credo che abbiamo bisogno di rimettere al primo posto delle nostre preoccupazioni di consacrati l’ansia di essere veri cristiani. Questo non suoni scontato o addirittura ridicolo. Se guardiamo a com’è nata la vita religiosa, vediamo che il monachesimo che troviamo al suo inizio (a partire da sant’Antonio abate) appare sostanzialmente come espressione della volontà di «essere cristiani» (o essere cristiani senza compromessi, o in maniera radicale) da parte di quanti vedevano attenuarsi la fedeltà radicale al Vangelo in una Chiesa in cui erano mutate non poco alcune situazioni precedenti: si pensi alla fine dell’epoca dei martiri, all’affievolirsi della tensione escatologica, all’editto di Costantino, all’ingresso delle classi ricche nelle comunità cristiane (e quindi della ricchezza nella Chiesa), all’importanza sociale sempre più attribuita alle cariche ecclesiastiche, ecc. Per dare corpo alla loro scelta, i monaci hanno optato per la fuga mundi nel deserto; ma questa è solo una forma storica contingente. La sostanza è che volevano – noi diremmo oggi – vivere radicalmente la loro vocazione battesimale, affermando in modo visibile e incisivo il primato di Dio.
La preoccupazione non era quella di creare un nuovo genus di cristiani, ma semplicemente di «essere davvero cristiani», affermando con tenacia, di fronte a una Chiesa che cominciava a mondanizzarsi vistosamente, il primato di Dio. A me pare che questo sia il contributo fondamentale che – prima della ricchezza di ogni carisma specifico – possiamo dare alla Chiesa locale, prima ancora di ogni opera o attività, per quanto apprezzabile. Dentro la grande comunità cristiana che è la Chiesa locale, le nostre piccole comunità religiose devono preoccuparsi di essere «vere comunità cristiane», dove tentiamo e ritentiamo ogni giorno di collocare Dio al centro della vita.


Dall’intervento di Agostino Gardin, «Alla ricerca di un nuovo rapporto tra Chiesa locale e vita consacrata», al Convegno Cism-Usmi del Nord-Est d’Italia (Monselice [PD], 22 ottobre 2005).

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017