Dal Sudan all’Italia: storia di Salim, uomo in fuga

Salim, sudanese, in Italia dal 1994, è uno dei 23 mila profughi che vivono nel nostro Paese. Anche a loro è dedicata la Giornata mondiale del rifugiato, indetta dall’Onu per il 20 giugno.
03 Giugno 2003 | di

L`€™appuntamento è per l`€™anno prossimo a Damasco, in Siria. Salim partirà  da Roma. Fatima lo raggiungerà  da Khartoum, in Sudan. E così, dopo dodici anni, madre e figlio potranno riabbracciarsi. L`€™Italia avrebbe significato eccessi di burocrazia per il soggiorno, anche se solo temporaneo, della signora; e Salim di tornare in Sudan, per il momento, non ne vuole sentire neanche parlare. «Anche se il regime non è più quello da cui sono scappato, so che comunque sono in una lista di persone segnalate. Se scoppia qualche rivolta, se ci sono problemi, sono il primo a essere preso di mira». Così la scelta è caduta sulla Siria, territorio neutro, dove, grazie ad alcuni accordi bilaterali, ai sudanesi non sono richiesti visti o permessi particolari di ingresso.
Salim ha 38 anni, sposato, padre di una bambina da circa due anni, ha un regolare permesso di soggiorno, è in attesa del riconoscimento di status di rifugiato e lavora come operatore presso il Centro «Pedro Arrupe», una struttura per famiglie di richiedenti asilo, che fa parte della rete di accoglienza del «Jesuit Refugee Center». La sua, in fondo, è una storia fortunata, rispetto a quelle di altri che, come lui, sono scappati dalla guerra, dalle persecuzioni politiche o etniche. «Lo so. In fondo ho scelto questo lavoro anche perché sono passato per la stessa situazione di quelli che arrivano qui. Capisco la loro disperazione, so cosa vuol dire scappare all`€™improvviso, da solo, senza nulla». I curdi, i liberiani o gli iraniani, i congolesi o gli eritrei che varcano la soglia del centro sono ben impressionati dalla presenza di questo giovane africano alto, elegante nel portamento come solo gli uomini e le donne della Nubia sanno essere, dalle mille risorse linguistiche. Arabo, italiano, inglese e`€¦ serbo croato. Già , perché i suoi primi 40 anni Salim li ha vissuti tra il Sudan, la ex Jugoslavia e l`€™Italia. Ma partiamo dall`€™inizio.
«Sono nato a Malakal, nel Sud, quinto di dieci figli. Mio padre faceva il muratore, siamo una famiglia musulmana. Quando avevo sei anni ci siamo trasferiti nella capitale, a Khartoum, ma per le vacanze tornavamo giù. Poi, nell`€™83, al Sud è scoppiata la guerra e non ci siamo più mossi. Solo mia madre, una donna coraggiosa, ha continuato ad attraversare le zone di guerra per andare a trovare i parenti». Salim parla della sua terra che dal `€™55 al `€™74 è stata insanguinata da una guerra civile chiusasi con il Trattato di Addis Abeba e poi riscoppiata «perché il presidente ha imposto la legge islamica a tutto il Paese».
La società  si divide, nasce una forte opposizione sotterranea e nelle scuole gli studenti danno vita a movimenti di protesta. Salim entra nel Fronte nazionale democratico. «Di notte facevamo approfondimento politico, leggevamo la stampa, fotocopiavamo articoli e libri `€“ ricorda `€“. Ero l`€™unico a parlare di politica in famiglia, ma fuori di casa tenevo la bocca chiusa, non andavo in giro a fare propaganda. Avevo paura perché alcuni amici erano stati imprigionati e torturati».
Mentre studia Scienze politiche, negli anni `€™80, Salim vince una borsa di studio per la facoltà  di Giornalismo di Belgrado. Impara così anche il serbo croato. Resta nella ex Jugoslavia come interprete presso l`€™Ambasciata della repubblica dello Yemen, scrive qualche articolo sulla situazione del suo Paese, poi, nel `€™92, ritorna in Sudan.

Rinchiuso nella casa fantasma

All`€™aeroporto, ad attenderlo, trova il fratello, ma anche la polizia. «Avevano letto i miei servizi sul Sudan. E mi hanno accolto come se fossi un terrorista che ritornava per fare un colpo di stato», ricorda Salim. Lo mettono in macchina, lo bendano e lo trasportano in una «casa fantasma». «I prigionieri politici non stavano nelle prigioni regolari, perché il regime temeva i controlli delle organizzazioni umanitarie. Li mettevano in queste case isolate, dove non hai la possibilità  di comunicare con nessuno. Ne avevo sentito parlare e sapevo che quelli da eliminare venivano torturati con l`€™elettricità . Ero terrorizzato».
Nella stanza dove Salim viene scaricato ci sono altri nove uomini, tra i 25 e i 30 anni, due islamici e il resto appartenenti al fronte democratico. «Ci davano acqua sporca, carne putrefatta, eravamo sdraiati per terra, al buio, con il timore degli scorpioni, in attesa degli interrogatori. Tra noi comunicavamo, anche se la polizia cercava di metterci gli uni contro gli altri, per avere informazioni e spingerci a fare la spia».

Le torture psicologiche

Salim non riceve torture fisiche, ma resta per quaranta giorni in quella stanza, al buio. La famiglia sa, più o meno, in che situazione si trovi, anche se ufficialmente non riceve nessuna informazione. «In Sudan sempre si sa come vanno a finire queste cose. Conoscevo tanta gente impiegata per il governo, qualcuno aveva informato i miei: si trattava anche di persone non cattive, che lavoravano per mantenere la famiglia», ricorda Salim.
Quando viene liberato, gli impongono l`€™obbligo di presentarsi due volte al giorno alla polizia. «Non avevo più nessuna prospettiva di lavoro. Come giornalista ero bruciato, ero sulla lista nera. Dopo un anno ho deciso di scappare». Raggiunge Port Sudan e aspetta due settimane, chiedendo un passaggio alla prima nave disponibile. Il 13 gennaio del `€™94 un cargo commerciale diretto a Napoli lo imbarca. Per mille dollari trova posto nella stiva, accanto agli scatoloni e ad altre venti persone. Tredici giorni di viaggio al chiuso, per lasciare la patria, la terra dove aveva immaginato il suo futuro, gli affetti e gli amici.

L`€™avventura italiana

L`€™arrivo in Italia, la richiesta di asilo, l`€™incontro con le strutture di accoglienza per rifugiati, come il «Centro Astalli» dei gesuiti, e vari lavoretti sporadici: l`€™aiuto agli automobilisti che fanno benzina al self-service «per me era un lavoro, guadagnavo tra le 700-800mila lire al mese»; la vendita dei giornali ai semafori; l`€™insegnante di inglese presso la scuola libica di Roma; il mediatore culturale, che gli permette di conoscere l`€™attuale moglie, anche lei sudanese; e poi, l`€™offerta di un contratto stabile, presso il «Centro Arrupe».
Nel frattempo, ottiene il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, mentre la richiesta di asilo, per il riconoscimento dello status di rifugiato, viene respinta dalla commissione esaminatrice dopo un colloquio di appena tre minuti. «È stato terribile. Non ho avuto neanche il tempo di spiegare qual è il mio popolo, qual è la situazione dei Nuba`€¦ e sono andato via. Ho fatto ricorso. Non so quando avrò risposta. Nel frattempo, lavoro e continuo a costruire la mia famiglia qui in Italia. Anche se il mio Paese resta il Sudan».

 

I rifugiati e la legge italiana

Secondo le associazioni del settore, il disegno di legge su immigrazione e asilo, approvato dal parlamento nel 2002 rende più problematico l`€™accesso al diritto d`€™asilo, introducendo alcune misure quali:

* il trattenimento forzato. Tutti i richiedenti asilo senza documenti (il 90 per cento) verranno trattenuti in appositi centri, fino all`€™esito della procedura.
* l`€™impossibilità  di forme efficaci di ricorso in caso di  negazione dello status. Una volta avuto un diniego si potrà  fare ricorso, ma solo dopo aver lasciato l`€™Italia.
* la previsione di finanziamenti ai Comuni molto ridotti in ordine all`€™accoglienza e all`€™assistenza di richiedenti asilo.

In pratica `€“ dicono gli operatori `€“ anziché adottare una legge organica, che ponesse l`€™attenzione sui diritti di tale persone, sulle risposte da dare alle attese di chi scappa perché costretto, il parlamento ha varato degli articoli il cui unico scopo è quello di ridurre ulteriormente il numero dei richiedenti asilo. Questi articoli non sono ancora in vigore. Si attende un Regolamento attuativo della legge.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017