Criticare se stessi antidoto all’individualismo

Riportiamo due testi del cardinale Jorge Mario Bergoglio sull’umiltà come alta virtù cristiana. I brani sono tratti da Umiltà, la strada verso Dio e Guarire dalla corruzione, da pochi giorni in libreria per l’Editrice Missionaria Italiana (EMI).
27 Marzo 2013 | di

Lo spirito di unità ecclesiale si vede guastato dalla mormorazione. Sant’Agostino descrive così questa realtà: «Ci sono degli uomini soliti pronunziare giudizi temerari, maldicenti, brontoloni, mormoratori, pronti a sospettare ciò che non vedono e a lanciare addosso all’altro ciò che nemmeno riescono a sospettare» (Discorso 47). La mormorazione ci porta a concentrarci sulle mancanze e i difetti altrui; crediamo, in questo modo, di sentirci migliori. La preghiera del pubblicano nel tempio illustra questa realtà (Luca 18,11-12) e Gesù ci aveva già avvertito rispetto al guardare la pagliuzza nell’occhio dell’altro ignorando la trave che abbiamo nel nostro.

Parlar male dell’altro è un male per la Chiesa tutta, poiché non si limita al livello di commento, ma passa allo stato di aggressione (per lo meno nel cuore). Sant’Agostino chiama il mormoratore «uomo senza speranza». «Gli uomini senza speranza quanto meno badano ai propri peccati, tanto più ficcano il naso in quelli degli altri; e li indagano non per correggerli, ma per criticarli. E dato che non possono scusare se stessi, son sempre pronti ad accusare gli altri» (Discorso 19). A questi uomini, dice Agostino, è «rimasta soltanto la debolezza dell’animosità, la quale tanto più è fiacca quanto più crede di avere maggiori forze» (Esposizione sul salmo 32,29). Contro questo cattivo spirito (parlar male degli altri) la tradizione cristiana, fin dai primi Padri del deserto, propone la pratica dell’accusa di se stessi. (…)
Uno degli atteggiamenti validi che devono prendere corpo nel cuore dei giovani religiosi è quello di accusare se stessi, poiché è nella carenza di questa pratica che si radicano lo spirito di parte e le divisioni. Occorre, in primo luogo, mettere al bando ogni riferimento anche inconsapevole o qualsivoglia atteggiamento farisaico che presenti l’accusare se stessi come qualcosa di puerile o di tipico dei pusillanimi.

Autoaccusarsi suppone piuttosto un coraggio non comune per aprire la porta a realtà sconosciute e per lasciare che gli altri vedano oltre la mia apparenza. Significa rinunciare a tutti i maquillage di noi stessi perché si manifesti la verità. Accusare se stessi (che è solo un mezzo) è la base in cui getta le radici l’opzione fondamentale per l’antiindividualismo, per lo spirito di famiglia e di Chiesa che ci porta a relazionarci come buoni figli e buoni fratelli, per poi arrivare ad essere buoni padri. Accusare se stessi presuppone un atteggiamento fondamentalmente comunitario. (…)
La tentazione dell’individualismo, quella che – crescendo – ci induce alla faziosità nella vita di comunità, si basa sempre su una verità (rea­le, o parziale, o apparente, o ingannevole). Suole essere una ragione che giustifica e al tempo stesso tranquillizza. E questa ragione ha radici nello spirito di sospetto e di diffidenza. (…) Il sospetto, seminato dal demonio, configura nel cuore una regola distorta, che sfasa (distorce) tutta la realtà. Non è facile far cambiare un religioso tentato dalla possessione di una regola distorta. Non si tratta più di quella o quell’altra idea, ma di tutta un’ermeneutica: qualsiasi cosa avvenga, è interpretata in maniera distorta, a motivo dell’adesione a questa regola distorta. (…)

Il religioso tentato in questo senso finisce col diventare, col tempo, un collezionista di ingiustizie: vive censendo tutte le ingiustizie che gli hanno fatto, o che crede che gli altri gli abbiano fatto. (…) La mancanza di contatto con una oggettivazione reale lo fa rinchiudere dietro la muraglia di un’ideologia difensiva. Scambia la dottrina con l’ideologia, il pellegrinare paziente dei figli di Dio con il vittimismo del complotto che gli altri (i cattivi, i potenti, i superiori, i membri della comunità) ordiscono contro di lui. Finisce avviluppato in parole che lo imprigionano, confermando il detto che le parole che nascono dalla mente sono un muro, quelle che nascono dal cuore sono un ponte. (…)
Chi si autoaccusa lascia spazio alla misericordia di Dio; è come il pubblicano che non osa alzare gli occhi (cf. Luca 18,13). Colui che sa accusare se stesso è una persona che saprà sempre avvicinarsi bene agli altri, come il buon samaritano, e – in questo avvicinamento – Cristo stesso realizzerà l’accesso al fratello.
 
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«Peccatore sì, corrotto no!»
 
«Peccatore, sì». Che bello poter sentire e dire questo, e allo stesso tempo immergerci nella misericordia del Padre che ci ama e ci aspetta ad ogni istante. «Peccatore, sì», come diceva il pubblicano nel tempio («O Dio, abbi pietà di me peccatore!», Lc 18,13); come lo provò e lo disse Pietro, prima con le parole («Allontanati da me, Signore, che sono un peccatore», Lc 5,8), e poi con le lacrime al sentire il canto del gallo quella notte, momento che Bach plasmò nella sublime aria Erbarme dich, mein Gott (Abbi pietà di me, Signore). «Peccatore, sì», così come Gesù ci insegna con le parole del figliol prodigo: «Ho peccato contro il Cielo e contro di te» (Lc 15,21) e dopo non seppe continuare il discorso perché rimase ammutolito dal caldo abbraccio del padre che lo aspettava. «Peccatore, sì» come ce lo fa dire la Chiesa all’inizio della messa ed ogni volta che guardiamo il Signore crocifisso. «Peccatore, sì» come lo disse Davide quando il profeta Natanaele gli aprì gli occhi con la forza della profezia (2Sam 12,13).

Ma quanto è difficile che il vigore profetico sciolga un cuore corrotto! È talmente arroccato nella soddisfazione della sua autosufficienza da non permettere di farsi mettere in discussione. «Accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio» (Lc 12,21). Si sente a suo agio e felice come quell’uomo che pianificava la costruzione di nuovi granai (Lc 12,16-21), e se le cose si mettono male conosce tutte le scuse per cavarsela, come ha fatto l’amministratore corrotto (Lc 16,1-8) che ha anticipato la filosofia degli abitanti di Buenos Aires del «fesso chi non ruba».

Il corrotto ha costruito un’autostima che si fonda esattamente su questo tipo di atteggiamenti fraudolenti: passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo, al prezzo della sua stessa dignità e di quella degli altri. Ha la faccia da «non sono stato io», faccia «da santarellino», come diceva mia nonna. Si meriterebbe un dottorato honoris causa in cosmetica sociale. E il peggio è che finisce per crederci. E quanto è difficile che lì dentro possa entrare la profezia! Per questo, anche se diciamo «peccatore, sì», gridiamo con forza «ma corrotto, no!».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017