Costruiamo reti di libertà

Lavorare insieme e a servizio delle popolazioni locali, condividere risorse, conoscenze, competenze, accettando il confronto tra culture e garantendo l’effettiva autodeterminazione dei popoli.
23 Maggio 2006 | di


Tre progetti in Africa, in tre Paesi particolarmente poveri a causa di guerre, difficili situazioni igieniche e ambientali, inesistenza o inefficienza dei servizi di base. «Tre progetti innovativi – afferma padre Valentino Maragno, nuovo direttore della Caritas antoniana – possibili modelli di sviluppo per valorizzare e promuovere un continente ricco di potenzialità».
Alla base, un modo nuovo di concepire lo sviluppo: la cultura di rete, cioè la capacità di mettere insieme persone, enti, risorse, conoscenze sia locali sia esterne per combattere le cause di povertà. Insomma, lavorare per raggiungere lo stesso obiettivo, unendo tutte le forze, accettando il confronto spesso faticoso tra culture diverse. Spogliandosi gli uni del proprio paternalismo e gli altri della propria mentalità di dipendenza dall’aiuto esterno.
Reti di sviluppo, reti di vita: è la scelta della Caritas antoniana, in nome di sant’Antonio. Occasione ancora più speciale perché quest’anno ricorre il trentesimo anniversario di Caritas antoniana. Un compleanno da celebrare trovando strade sempre più efficaci per aiutare i poveri a farcela da soli.



GHANA. Contro la lebbra dei bambini


Padre Giorgio Abram, frate minore conventuale, è missionario in Ghana ormai da trent’anni. Persona schiva, ha un passato ricco di esperienza e un primato insospettabile: è l’uomo che ha contribuito a sconfiggere la lebbra nel Paese, non solo con le armi della medicina, ma abbattendo i pregiudizi e la ghettizzazione dei malati. Un lavoro che gli è valso il Premio Raoul Follereau.
Anni fa, alle radici del progetto che vi presentiamo, padre Giorgio non avrebbe mai immaginato che un altro avversario lo stesse aspettando. «Un professore dell’Università di Genova – racconta – mi chiese di mostrargli casi di Ulcera del Buruli. Mi informai dal Ministero dove potevo trovare i malati. Mi indicarono Amasaman, nel distretto rurale di Ga, estremo Sud del Paese». All’epoca padre Abram non conosceva la malattia. Rimase impietrito quando incontrò un bambino seduto di fronte a una capanna. Un’ulcera sullo zigomo destro. Il ventre coperto da un panno. La mano sinistra fasciata, la destra che scacciava le mosche con aria rassegnata. «Spostai il panno che aveva sul grembo. Gambe e piedi erano devastati dalle piaghe». Un’espressione di sgomento attraversò il viso di padre Giorgio, il quale chiese ai genitori: «Cosa fate per questo bambino?». Inaccettabile, in un primo momento, la risposta: «Alla sera lo portiamo dentro, e al mattino lo mettiamo a sedere fuori». La spiegazione invece c’era: per questa gente una malattia inguaribile che colpisce un innocente è una punizione che viene da Dio per espiare le colpe della famiglia.
A padre Giorgio sembrò di ritornare indietro di quasi trent’anni: un’altra malattia terribile accettata come un destino. Chissà quanti bambini languivano in quello stato nei villaggi della foresta. Padre Abram, tornò alla missione. Quella notte non chiuse occhio: «Io sono qui nel mio letto: quel bambino… trasportato dentro e fuori, che continua a marcire…». Trovava la cosa ogni ora più inaccettabile. Difficile dire se fosse più turbato l’uomo occidentale che continuava ad albergare in lui o il missionario, fratello di Francesco, che alla cura delle piaghe aveva dedicato la vita. L’unica cosa sicura è che il giorno dopo era lì, di fronte a quella capanna, a chiedere a due genitori riluttanti di consegnargli il bambino. «Fu un rischio enorme. Se il bambino fosse morto, non avrei avuto alcuna possibilità di dimostrare alla gente che quella era solo una malattia». Invece il bambino guarì, anche se rimase invalido. Fu l’inizio di tutto.
L’Ulcera del Buruli, così chiamata dal nome della città ugandese in cui fu diagnosticata la prima volta, è causata da un micobatterio simile a quello della tubercolosi e della lebbra, che prolifera nell’acqua stagnante. È diffusa in varie parti del mondo, ma interessa in modo particolare i territori del Golfo di Guinea.
La malattia colpisce soprattutto i bambini. Inizia con un nodulo non doloroso che progressivamente si ulcera, distrugge i nervi, ostruisce i vasi linfatici. Progredisce in necrosi dei tessuti e delle ossa, provocando la fissazione delle giunture o l’amputazione spontanea degli arti. Sul volto, distrugge gli occhi. Difficile diagnosticarla, quasi impossibile curarla per la povera gente, perché necessita di interventi di chirurgia, di paziente e continua pulizia e disinfezione delle piaghe.


Un modello da imitare
«Iniziammo ad Amasaman – racconta padre Abram – con la costruzione di una sala operatoria e di un reparto con venti posti letto. La notizia della guarigione fece il giro dei villaggi: i genitori ci portavano i bambini, gli adulti mostravano le loro vecchissime piaghe. Nel primo anno curammo 2 mila 200 casi».
Trattandosi di una malattia con tante cause ambientali e culturali, si iniziò a lavorare su più fronti: la bonifica delle aree acquitrinose, la costruzione dei pozzi per l’acqua, ma la cosa più importante fu coinvolgere gli sciamani, i guaritori locali, un po’ medici un po’ intermediari con la divinità, e farli sentire parte integrante di questa lotta.
«Mi accorsi – spiega padre Abram – che Amasaman poteva essere un modello sanitario da trasferire in altre zone endemiche, creando una rete di prevenzione e cura della malattia». È l’antefatto che porta all’oggi: il primo clone di quel modello sarà realizzato a Dunkwa, sempre a Sud, un tempo fiorente cittadina mineraria dell’interno, in piena foresta equatoriale, oggi città degradata e povera, con depositi di materiale di scarto abbandonato e diffusi ristagni d’acqua. Il grande ospedale versa oggi in condizioni disastrose, manca addirittura la sala operatoria. «In un primo momento l’idea mi intimoriva, mi sembrava tutto troppo grande, ma qui i casi di malattia sono moltissimi». Il nuovo progetto prevede due sale operatorie e un reparto con quaranta posti letto. «Sto lavorando a stretto contatto con il governo del Ghana: non è facile, le differenze culturali pesano. Alla fine, però, sono sicuro che è un lavoro che resterà anche dopo di me, perché mi trascende, perché è “roba” loro, è casa loro». Padre Abram stima che l’emergenza Ulcera del Buruli durerà dieci anni, «poi quel piccolo ospedale diventerà il reparto pediatrico e la sala operatoria dell’ospedale di Dunkwa, un pezzo ricostruito e funzionante della sanità pubblica ghanese», uno spicchio di solidarietà condivisa che diventa vita e normalità per tutti.



ETIOPIA. Mai più fame a Zway.


A Zway, zona soggetta a frequenti carestie, sono migliaia i bambini che muoiono di fame. Insieme alle suore salesiane, cercheremo di assicurare loro sufficiente cibo.
Suor Elisa Tonello, salesiana, ha un viso minuto e occhi grandi, azzurri come il cielo delle foto che mi mostra, il cielo sopra Zway, una cittadina nel cuore della Rift Valley, al centro dell’Etiopia, circa 160 chilometri a sud di Addis Abeba. Una zona secca e poverissima. «Le donne dei villaggi dell’entroterra fanno anche quindici chilometri in andata e quindici di ritorno tutti i giorni pur di procurarsi un po’ d’acqua potabile», racconta suor Elisa. Non ci sono strade, né servizi sanitari. Si vive di agricoltura di sussistenza, messa spesso in ginocchio dai capricci del clima. Il resto è fame: «Fame nera, la più terribile che si possa immaginare». Il 70 per cento dei bambini è denutrito: «Pance abnormi, capelli che cadono, manine che non giocano più… All’inizio quando un bambino stava per morire, io scappavo fuori dalla stanza». Poi, con il tempo anche l’assurdo diventa quotidianità: la mamma costretta a scegliere quale dei suoi due gemelli dovrà continuare a vivere; il bambino che muore il giorno di Pasqua, quando Cristo risorge; gli aiuti internazionali strombazzati a gran voce, l’arrivo di qualche goccia di sollievo, la conta dei morti che si allunga nonostante, poi il nulla. È così da quando hanno aperto la missione nel 1987, forse è così da sempre. Ma dopo l’ultima carestia del 2003 l’indignazione è montata: «In cinque suore siamo riuscite a far sopravvivere 10 mila persone – denuncia suor Elisa –, preparando una zuppetta con la faffa, una farina proteica. Ogni giorno avevamo la fila alla missione, servivamo con il cuore in gola e la paura di non farcela. Possibile che la solidarietà internazionale con tutti i suoi apparati non possa fare di più?».
Un assurdo che continua anche oggi: «Hanno cablato Zway con fibre ottiche, sulla carta siamo nell’era dei computer, del silicio, ma l’ospedale più vicino è a tre ore di distanza e in ogni classe ci sono 150 alunni seduti per terra. È la triste realtà: l’era della selce, della pietra». E tra selce e silicio, c’è la fame. Da allora le suore salesiane hanno cercato soluzioni per non aspettare impotenti la prossima carestia: hanno costruito pozzi, nei villaggi più lontani da fonti idriche, in un raggio di quindici chilometri da Zway. Ma non basta dare acqua, bisogna creare un sistema virtuoso che possa capovolgere le sorti della zona e assicurare un costante approvvigionamento alimentare, anche in tempo di carestia.
Suor Elisa e le sue consorelle hanno un modello in testa, che ripassano nella mente come un film, come un sogno. Vorrebbero attivare, in alcune zone strategiche, una rete integrata di servizi, sfruttando al massimo le risorse umane e naturali della zona. Intorno ai pozzi già costruiti, potrebbe sorgere un piccolo vivaio di verdure, piante da frutto e piante adatte al rimboschimento. Vorrebbero che i più esperti contadini della zona insegnassero ai più poveri le migliori tecniche di coltivazione. Vorrebbero che ogni nucleo di servizi avesse il suo allevamento di mucche selezionate, il suo gruppo di promozione della donna, la sua scuola per l’educazione informale dei bambini, il suo ambulatorio medico. Vorrebbero che in zona fosse disponibile un trattore e si costruisse un mulino per macinare granaglie. Vorrebbero, infine, realizzare questo sogno insieme alla loro gente e al governo etiopico e dare la responsabilità dei vari progetti ai capi dei villaggi.
Secondo i loro calcoli, i beneficiari diretti sarebbero più di 15 mila persone, quelli indiretti almeno 129 mila.
Come non condividere un simile sogno?



ANGOLA. Curarsi finalmente!

Ricostruire il servizio sanitario in una zona devastata da trent’anni di guerra e salvare migliaia di vite, soprattutto bambini e donne in gravidanza: è questoil nostro impegno in Angola, accanto a Medici con l’Africa, Cuamm.
Non amano parlare di sé i due medici italiani che ci rispondono via e-mail dall’Angola, ma una frase tradisce l’intensità della loro missione: «La cosa più difficile – scrivono – non è stata abituarci alla mancanza di luce e acqua, ma doverci spogliare di noi e della nostra supposta superiorità di occidentali».
Marco e Luisa sono una coppia, hanno con loro un figlio piccolo, si firmano «una famiglia di Damba», ma sono l’asse portante dell’ospedale locale. Damba è un municipio nella provincia di Uìge nel Nord dell’Angola, zona periferica, abbandonata, con circa 200 mila abitanti, sparsi su un territorio tanto vasto quanto privo di strade efficienti. «Buona parte del municipio in questi mesi di piogge è raggiungibile solo a piedi, con giorni di cammino: ciò mette in ginocchio la rete sanitaria», continuano Marco e Luisa. E la gente muore, soprattutto donne in gravidanza e bambini: «Da poco abbiamo visto morire una giovane mamma a causa di un parto complicato. Veniva da un villaggio a 50 chilometri da qui. L’hanno trasportata con una barella di fortuna: non c’è stato niente da fare. Ha lasciato sette bambini e un marito disperato».
Un caso tra milioni, visto che qui muoiono di parto dalle 1500 alle 2 mila mamme ogni 100 mila parti, contro le dieci, dodici mamme ogni 100 mila dell’Europa. «Eppure, qui la gente ha una forza enorme – raccontano i due medici –. Sono capaci di danzare nonostante sia morto un figlio. Ringraziano Iddio per quel che hanno: la pioggia, il raccolto, il dono della vita. Si affidano a Lui con umiltà e amore».
L’ospedale di Damba e quello di Maquela do Zombo, l’altra struttura inclusa nel nostro progetto, sempre a Uìge, sono stati riabilitati nel 2003 dalla ong Medici con l’Africa, Cuamm, a cui appartiene anche la coppia di medici. Unici servizi sanitari per un bacino di 700 mila persone, gli ospedali erano stati chiusi a causa della guerra civile cruentissima e inquinata da interessi stranieri, iniziata all’indomani dell’indipendenza dai portoghesi (1975) e finita solo nel 2002. Una guerra che ha relegato l’Angola, Paese ricchissimo di materie prime, tra le nazioni più povere del mondo.
«Il nostro intento – spiega don Luigi Mazzucato, direttore di Medici con l’Africa – è di migliorare i servizi e la formazione del personale degli ospedali, ma è anche quello di ricreare una rete sanitaria di base, per curare sul posto i malati meno gravi, accorciare le distanze con i servizi sanitari, riferire in ospedale solo i casi più complicati». Grande importanza avrà anche la costruzione di servizi per la vigilanza e la prevenzione di alcune malattie endemiche: tubercolosi, malaria, aids, febbre emorragica.
Per costruire una rete sanitaria, c’è bisogno di moltissimi elementi: una classe medica e infermieristica della zona adeguatamente preparata, la capacità d’includere operatori sanitari non convenzionali, come le ostetriche popolari, l’acquisto di materiale da costruzione, attrezzature, medicinali, mezzi di trasporto, arredamento, equipaggiamenti per operare a distanza, combustibile, ecc.
Un impegno gravosissimo, che richiede tempi lunghi e costi alti. Per questo, Caritas antoniana ha accettato di far parte di una rete di attori molto più grande, che oltre al Cuamm comprende le autorità sanitarie angolane, la diocesi di Uìge, l’Unione europea. Un progetto fatto insieme per restituire a un popolo sofferente uno dei principali diritti: la possibilità di curarsi.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017