Corpo, gabbia o specchio?

Il tema della sessualità e dell’affettività dei disabili merita di essere di nuovo affrontato, per passare dalla rivendicazione del diritto alla sua affermazione.
27 Settembre 2013 | di

Vorrei tornare a riflettere su un tema sul quale ultimamente, rispetto al torpore culturale diffuso, sembra essersi risvegliata l’attenzione, scatenando numerosi dibattiti. Mi riferisco alla sessualità e all’affettività delle persone con disabilità. È un argomento delicato e sentito da molti come fondamentale, che negli anni Settanta e Ottanta è uscito per la prima volta allo scoperto e che ha prodotto ricerche, approfondimenti e narrazioni per quel periodo decisamente innovative e destabilizzanti. Tornare a parlarne oggi significa affrontare un nuovo genere di sfida che non va più a soffermarsi sul riconoscimento e l’accettazione del bisogno, ma che vuole spostare ulteriormente i confini del concetto di «differenza» passando dalla rivendicazione del diritto alla sua affermazione.
 
Mi spiego meglio. Cominciamo intanto con lo sfatare un preconcetto diffuso sul connubio disabilità-sessualità: non esiste una sessualità dei disabili e una sessualità dei normodotati. Esiste «la» sessualità, vocabolo ampio, spesso frainteso e circoscritto alla genitalità. La sessualità, invece, è molto di più, è comunicazione, empatia, relazione e cura di sé. L’immagine che ci ha tormentato per decenni, quella del disabile angelico e immacolato, privo di identità e, di conseguenza, di sessualità, inizia finalmente a stravolgersi. Eppure, quando si incontra una coppia formata da un disabile e da un normodotato, l’associazione di idee più naturale è pensare subito a un rapporto univoco, quello tra assistente-assistito, badante-badato, educatore-educato. Come spesso succede, è questione di immagini, ma è proprio attraverso le immagini – mentali e non – che la cultura si costruisce, muta e solidifica. Nessuno ne è immune, nemmeno la persona con disabilità, ed è proprio su questo terreno che si troverà a vivere e ad affrontare la sua realizzazione. Infatti, «la conoscenza, la visibilità, è davvero la chiave di tutto», come sostiene la psicoterapeuta e sessuologa Priscilla Berardi.
 
Ma c’è di più. Perché parlare di realizzazione? Perché parlare di sessualità e affettività è parlare di questioni personali in senso stretto, questioni, cioè, che hanno a che fare con l’individualità, l’autostima e la fiducia, con il momento del mostrarsi e del di-mostrarsi. Il corpo dell’altro è sempre un’incognita e ci mette profondamente in discussione perché diverso, soprattutto quando fatica a riconoscersi. Percepire il proprio corpo come rigido e frammentato implica, infatti, il più delle volte non comprenderne del tutto le potenzialità. Addirittura, se ci si ferma alla superficie, può trasformarsi in gabbia. Ma è proprio qui che l’altro può entrare in gioco e il corpo diventare complice, come uno specchio.

La sessualità è materia complessa e affascinante, ricca tanto di suggestioni che di contraddizioni. Mi piacerebbe condividerle con voi i prossimi 8, 9 e 10 novembre al Convegno Erickson di Rimini dove, insieme con la collega giornalista Valeria Alpi, terrò un laboratorio dal titolo, per l’appunto, Il corpo degli altri.

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Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017