Convivenza tra palestinesi ed ebrei. La voglia di pace

L’amante perduto è un film sulla convivenza tra culture e religioni diverse: per realizzarlo, tecnici, comparse, attori palestinesi e israeliani hanno lavorato insieme. A colloquio con il regista Roberto Faenza.
02 Dicembre 1999 | di

C'è chi afferma - come lo scrittore Alvaro Mutis - che la letteratura sia incompatibile con il cinema, tuttavia il cinema, soprattutto in questi ultimi anni, sembra prediligere soggetti tratti da romanzi, classici o contemporanei. È il caso di Roberto Faenza che, nel suo interessante e sempre impegnato percorso registico, continua ad attingere i soggetti dei propri film dalla letteratura. Basti ricordare qualche titolo tra i più noti: Jona che visse nella balena, di Jona Oberski, del 1993, Sostiene Pereira, di Antonio Tabucchi, del 1995, Marianna Ucrìa, di Dacia Maraini del 1997, sino all'ultimo, L'amante perduto, dal romanzo dello scrittore israeliano Avram Yehoshua, pubblicato in Italia dalla Einaudi.
È la prima volta che un romanzo di Yehoshua viene portato sul grande schermo. Si tratta della struggente storia d'amore di due adolescenti di origini diverse, di cui non è possibile predire il futuro a causa del conflitto fra israeliani e palestinesi che li divide. Come tecnici, comparse e alcuni attori, Faenza ha utilizzato indifferentemente personale arabo e israeliano, rispettando un principio di equità  non soltanto economico. Questo ha creato, all'inizio, qualche problema e perplessità , ma alla fine, come ci racconta il regista, si è riusciti a creare un clima di reciproca stima e collaborazione che ha contribuito non poco alla riuscita delle riprese in territori tanto difficili. «Oltre ad ascoltare e comprendere le paure degli israeliani, sempre alle prese con attentati terroristici - ci ha detto Faenza - , ho dato peso a quello che i giovani arabi mi raccontavano. Loro non possono accettare di essere considerati tutti terroristi, né di essere trattati come cittadini di seconda classe».
L'amante perduto è stato presentato in anteprima mondiale a Gerusalemme, per presentare il progetto della «Casa della Pace», dell'architetto Massimiliano Fuksas, una struttura che vuole essere un punto di incontro culturale fra arabi e israeliani.
I due adolescenti della storia sono gli statunitensi Clara Bryant ed Erick Vasquez, che nella realtà  vivono quello che è narrato nel film, divisi da cultura e religioni diverse. Abbiamo intervistato il regista Roberto Faenza.

Msa. Perché ha scelto proprio il romanzo L'amante perduto di Yeho-shua per realizzare questo suo film?
Faenza.
Perché toccava un tema a me molto caro, quello della convivenza fra culture e religioni diverse. Il Duemila si apre, a mio avviso, con questa problematica che ci riguarda tutti. Questa è la ragione per cui ho voluto realizzare L'amante perduto. E per convivenza non intendo solo quella tra popoli di origine diversa, ma anche all'interno dello stesso paese, della stessa comunità , della stessa famiglia, o anche di gente che semplicemente la pensa diversamente da noi.

È possibile, attraverso il cinema, restare comunque fedeli allo stile narrativo di un romanzo, rispettandone i ritmi voluti dall'autore?
Con lo sceneggiatore Sandro Petraglia, abbiamo scritto e riscritto una quindicina di volte la sceneggiatura ispirata al romanzo di Yehoshua, proprio perché essendo una storia a intreccio, con più personaggi, ognuno dei quali racconta gli stessi eventi da un punto di vista soggettivo, l'impianto del film non poteva che essere complesso. Alla fine, abbiamo optato per una struttura propriamente cinematografica, come è giusto che sia durante il passaggio tra pagina letteraria scritta e immagine visiva. Sicuramente il cinema e la letteratura sono due cose diverse, ma possono interagire con ottimi risultati. I linguaggi sono differenti, e quello che conta è avere il coraggio di mantenerli tali, perché alla fine, lo scrittore e il regista, malgrado lo spunto comune, risultano essere padri di due creature ben distinte.

La situazione fra arabi e israeliani nei territori occupati è tra le più complesse. Ha mai avuto dubbi circa le difficoltà , sia pratiche sia psicologiche, in cui vi sareste imbattuti, operando in un clima politicamente così complicato?
Abbiamo ambientato la storia non solo in Israele (com'è invece nel romanzo), dove le cose sono abbastanza complicate, ma anche in Palestina, dove lo sono di più, per evidenziare come questi due popoli possono vivere a distanza ravvicinata senza imparare a coesistere. In questi giorni stiamo portando il film in giro per le scuole, da Gerusalemme a Ramallah, e devo dire che la reazione delle ragazze e dei ragazzi israeliani e palestinesi è per noi davvero incoraggiante.
I giovani hanno meno pregiudizi degli adulti, e non sopportano più il clima di tensione generato dai rispettivi estremismi. I ragazzi vivono la situazione politica in modo più aperto dei genitori. All'inizio, andavano in giro armati, oggi, in molti casi, stringono amicizia tra loro. Mi ha colpito una ragazza israeliana che, nel tema in classe, ha scritto che suo padre la ucciderebbe sicuramente se lei si innamorasse di un ragazzo arabo. E un suo coetaneo palestinese, al contrario, ha ammesso che per lui non c'è differenza tra ragazzi e ragazze di qualunque religione, e gli piacerebbe provare.
Gli adulti, nella maggior parte dei casi, sembrano impreparati a questo: si sentono come su un terreno minato, e alcuni vedono questo mio film come provocatorio e pericoloso, per i dibattiti che potrebbe provocare, anche se una personalità  come lo stesso Peres, ne ha elogiato il messaggio di pace.

Si sono create tensioni sul set, durante le riprese effettuate in Israele e nei territori occupati, dato che buona parte dei tecnici e delle comparse erano di provenienza sia araba sia israeliana?
Nel periodo in cui abbiamo effettuato le riprese ci sono stati ben quattro attentati e quasi sempre a poche centinaia di metri da dove stavamo girando. Già  questa situazione può dare un senso di precarietà  e pericolosità . Per quanto riguarda le difficoltà  operative, abbiamo scelto la strada della convivenza, che non a caso è il tema del film, formando una troupe composta in parti uguali da israeliani e palestinesi, che avevano le stesse paghe e gli stessi compiti.
Si è trattato di un esperimento mai tentato prima che ha dimostrato, tra non poche diffidenze iniziali, che la pace va conquistata a partire dalla vita quotidiana e nel cuore della gente, prima ancora che con la firma dei trattati da parte dei politici. Le uniche difficoltà  tecniche le abbiamo avute per alcune scene girate presso il Muro del Pianto: è proibito filmare da quelle parti, così ho aggirato l'ostacolo travestendo le mie comparse da ebrei ortodossi, e con la cinepresa nascosta.

Dopo questa esperienza diretta, crede nella possibile convivenza tra arabi e israeliani?
Credo che la nostra esperienza, per quanto limitata nel tempo, possa essere di esempio di quel che si potrebbe fare partendo dalle piccole cose. Del resto, la pace non può essere imposta dall'alto - vedi il Kosovo - , senza la pratica del vissuto individuale. Molti pensano, anche tra i più progressisti, che Israele e Palestina debbano creare due stati ben marcati e ben differenti. Io penso che una volta creato lo stato della Palestina, meta non più evitabile, si porrà  il problema della coesistenza tra individui che vivono a pochi metri uno dall'altro, e che non potrà  essere solo un fatto formale, ma sostanziale e concreto, fatto anche di gesti quotidiani di tolleranza.

Il suo film è stato prescelto per inaugurare proprio la «Casa della pace» di Gerusalemme. Ha un augurio personale a questo proposito?
L'augurio che il desiderio di pace presente nel film si trasferisca presto dallo schermo alla realtà . Senza dimenticare che la nostra storia non parla di massimi sistemi, ma di un uomo che cerca l'amante della moglie pur di vederla felice e di un'adolescente ebrea che si innamora di un ragazzino arabo, e che... ma non voglio svelare di più. E se il mio film piacerà  ai ragazzi di tutto il mondo che sperano in un futuro di pace, ne sarò felice.

 

   
   
  LA «CASA DELLA PACE» A GERUSALEMME      

 È un progetto che sta molto a cuore agli italiani, sostenuto con entusiasmo sia da Arafat sia da Simon Peres. È un edificio che sorgerà  tra Tel Aviv e Giaffa, e sarà  un punto di incontro per diffondere le culture araba e israeliana. L'Italia, oltre al progetto, offrirà  consulenze di ogni genere, invierà  addetti culturali e aiuti economici, organizzerà  gemellaggi e collaborazioni varie (ad esempio, il sindaco di Orvieto realizzerà  con il concorso di padre Ibrahim, Custode di Terrasanta, un'aula per ' informatica per gli alunni di una scuola di Betlemme).

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017