Come dire Natale a Betlemme

Dio ha scelto un piccolo borgo della Palestina per farvi nascere suo figlio. Nell’annunciare l’evento ai pastori, gli angeli augurarono «pace sulla terra agli uomini che Dio ama». Duemila anni dopo, il mondo continua a essere scosso dalla guerra e dall’od
01 Dicembre 2001 | di

«Vieni `€“ mi disse il prete-operaio francese che viveva in Palestina, facendo il carpentiere, "come Gesù" `€“ vieni a vedere il peccato collettivo di noi cristiani». Erano i primi giorni di un anno ormai lontano, su Betlemme infuriava un vento gelido che mi faceva rimpiangere il Nord Italia. Lasciammo la basilica della Natività , i negozietti con i loro crocifissi di legno di ulivo, i conventi; le scuole e ci inoltrammo in un gomitolo di vicoli che si arruffava nelle vicinanze delle colline. Conoscevo le baracche dei «Porto di mare» di Milano e quelle delle borgate romane (l`€™ho detto: parlo di tanti anni fa), cioè la miseria di non pochi italiani, ma qui vidi uno spettacolo cui nessuno mi aveva preparato. Nel fianco di una montagnola c`€™erano alcune grotte e nelle grotte si muovevano uomini, donne e bambini. Il prete bussò a una porta sconnessa, venne ad aprire una giovane vestita di cenci. Sorrise al mio amico, mi fece cenno d`€™entrare: c`€™erano tre o quattro pecore e in una parete della grotta era scavata una mangiatoia; nella mangiatoia dormiva un bambino di qualche mese`€¦ Uscii, mi appoggiai a un albero e piansi.

Da quel momento ho raccontato infinite volte la mia scoperta: erano passati più o meno duemila anni dalla nascita del nostro Salvatore ma neppure dalla piccola città  in cui egli era nato noi `€“ i cristiani `€“ avevamo saputo sradicare la miseria. Ogni anno, devotamente o per tradizione, costruivamo il presepio nelle nostre case, convinti di riprodurre una realtà  poetica e antichissima, non più reale. Invece c`€™era quella grotta (c`€™erano quelle grotte), il fiato caldo degli animali a rendere un po`€™ meno pungente il freddo per un bambino, e per quel bambino nessun`€™altra culla che un po`€™ di fieno. Da allora ho girato il mondo con occhi un po`€™ più aperti e ho scoperto in tutti i continenti bambini poveri come quello nato duemila anni fa a Betlemme.

Duemila anni di successi. Quante meravigliose cose abbiamo fatto in duemila anni! Abbiamo modificato la natura a nostro piacimento: costruito dighe ciclopiche, mutato il corso dei fiumi, sradicato intere foreste, forato monti, innalzato grattacieli in immense città . Abbiamo liberato centinaia di milioni di persone dalla schiavitù di orrende malattie e di spaventose miserie, eretto stupende basiliche, tessuto preziosi paramenti, organizzato solennissime festività : ma Betlemme è rimasta come ai tempi di Gesù (o quasi) e infinite Betlemme connotano la nostra Terra. Com`€™è possibile che questo sia avvenuto? Com`€™è possibile che non abbiamo capito che lui ci stava (ci sta) giudicando? Non ha forse detto Gesù: «Qualunque cosa farete a uno di questi piccoli miei fratelli è a me che l`€™avrete fatta; qualunque cosa non avrete fatta a uno di questi piccoli, è a me che non l`€™avrete fatta»?

E i santi, tutti i santi, non ci hanno forse ricordato che è su questo che saremo giudicati l`€™ultimo giorno? C`€™è, al riguardo, una frase terribile di sant`€™Antonio; egli contempla nella sua gloria il Cristo risorto e ricordando la sua immedesimazione nei poveri, grida: «Ti ho sentito dire: ebbi fame`€¦ ma ora ti vedo seduto, in aspetto spaventoso sul trono della tua maestà ». Il Cristo giudice è lo stesso che soffrì una crudele miseria (la nascita in una grotta, le strade dell`€™emigrazione e persino la croce, cioè il supplizio riservato agli schiavi); e per questa sua esperienza chiede con forza giustizia per i poveri.

Duemila anni di guerre. In duemila anni abbiamo fatto guerre con eserciti sempre più grandi e sempre più armati e mentre scrivo, a parte quella contro i talebani, vengono combattute 24 guerre «locali». Sapete quanto hanno speso in armamenti nell`€™anno 2000 le varie nazioni della Terra? Provate a scrivere la cifra su un pezzo di carta e già  nel fare questa semplice operazione ne scoprirete la follia: hanno speso (abbiamo speso) complessivamente un milione e 400mila milioni di miliardi di lire. È tanto danaro quanto, se investito in opere di pace, consentirebbe a interi popoli del cosiddetto Terzo Mondo, di uscire dalla miseria.

Temo che fra cento, duecento anni la nostra civiltà  sarà  considerata folle dai nostri discendenti. Non lo pensate anche voi? Per quarant`€™anni e più, fra il 1945 e il 1989, quando il mondo era diviso in due blocchi, ciascuno di essi ha accumulato armi atomiche sempre più spaventose che consentivano di distruggere la Terra non una ma dieci volte, quasi che dopo la prima distruzione se ne potessero provocare altre. Non è pazzia collettiva? Se quei soldi fossero stati spesi per ridare fiato ai popoli esausti dalla fame ben più di un continente conoscerebbe oggi la gioia di vivere.

Folli, dunque, i nostri governanti. Ma noi? I pastori del presepio che vengono portando doni, dividendo dunque i loro poveri beni con un bambino più povero di loro, sono soltanto graziose figurine per una bella favola o esempi da imitare?

Il piccolo petulante indiano. Un giorno ero in India, per seguire, come giornalista, il viaggio di Paolo VI a Bombay. Un bambino dell`€™età  che i miei figli avevano allora `€“ sei, sette anni `€“ cominciò a seguirmi per avere da me un`€™elemosina. Mi toccava la mano e mi chiamava «baba», papà . Io non avevo rupie (le monete indiane) e non potevo dargli qualche dollaro perché il governo indiano aveva proibito l`€™uso di danaro straniero e un collega di quella città  mi aveva ammonito: «Se trovano un povero con una moneta che non sia una rupia, lo bastonano». Pensai di dare a quel piccino il mio orologio, ma poi mi dissi che avrebbero certo pensato che me lo aveva rubato. La mia straziata confusione mi cresceva dentro; mi voltai verso il bambino e gli dissi con una durezza che era disperazione: «Non ho niente da darti, niente. Hai capito?». Il faccino che egli aveva levato verso di me si contorse in una smorfia di delusione; ma prima di andarsene tornò a sorridermi: «Tomorrow?», domani? «Yes `€“ dissi io `€“ tomorrow»; ma sapevo che l`€™indomani sarei ripartito per l`€™Italia per riprendere una vita che, vista con gli occhi di quel bambino, sembrava l`€™esistenza di un ricco.

La domanda di quel piccolo mi è rimasta dentro: qualche volta come una spina che mi fa male, qualche volta come un fermento di vita, la spinta a cercare di fare qualcosa. È una domanda che è rivolta a ciascuno di noi ed è una domanda che richiede una risposta immediata perché i poveri non hanno tempo per aspettare.

Quando tornai a casa da quella mia prima visita a Betlemme, dissi a mia moglie che non avrei più potuto vivere come se non avessi visto quello che, invece, avevo visto. Allora mia moglie andò a prendere i nostri risparmi (che erano ben poca cosa perché eravamo molto giovani) e mi disse di mandarli a quel prete-carpentiere, che si chiamava Paul Gauthier, perché li regalasse a qualche famiglia povera. Paul ci scrisse una lettera molto dura: se credevamo davvero che Gesù vivesse nella carne dei poveri, se credevamo davvero che egli ci voleva tutti fratelli, allora non potevamo cavarcela con un dono, magari importante ma fatto una volta tanto. Dovevamo mettere la voce «poveri» nel nostro cuore e nel nostro bilancio familiare; e dovevamo impegnarci per la giustizia.

La Rete Radié Resch

. Fondammo allora una Rete di solidarietà  internazionale (che nel marzo scorso ha compiuto 37 anni di vita) alla quale si aderisce impegnandosi a una libera «autotassazione» mensile. Il risultato delle collette viene distribuito a gruppi di poveri che si mettono insieme per uscire dalla loro miseria. Il nostro primo appoggio andò a un`€™associazione di palestinesi di Nazaret che cercavano di costruirsi abitazioni degne di questo nome. I bambini osservavano con infinita gioia le nuove case e a colpirli erano soprattutto le finestre: i vetri che consentivano di guardare al di fuori senza che da fuori entrasse il freddo. A quell`€™epoca una bambina si ammalò di polmonite in una grotta. Aveva undici anni e si chiamava Radié Resch. Nel delirio ripeteva: «Io laverò i vetri delle finestre, laverò i vetri». La bambina morì; e Paul ci scrisse: «Adesso Radié, dal cielo, ci aiuterà  a lavare gli occhi di chi non vede le esigenze della giustizia e dell`€™amore». Demmo alla nostra Rete il nome di Radié per ricordarci che se non si fa in fretta i poveri muoiono.

A Betlemme tanti anni dopo. Sono tornato dopo tanti anni a Betlemme ma questa volta (era il 1991) non ho potuto recarmi a pregare sui luoghi sacri e magari a vedere se quelle grotte fossero ancora abitate. Come presidente del Comitato della Camera per i diritti umani, guidavo una delegazione di deputati di tutti i gruppi parlamentari a una missione di verifica delle condizioni dei palestinesi nei campi profughi nei territori occupati da Israele. L`€™immenso campo di Dehisheh, alle porte di Betlemme, era stato cintato di lamiera come un cantiere, in modo che i pellegrini non ne vedessero l`€™atroce squallore. Nel campo vivevano da decenni centinaia di persone anziane, vi erano nate centinaia di bambini che adesso erano uomini e donne, e bambini che erano ancora tali: diecimila persone in tutto. Di Dehisheh ho due ricordi ancora vivissimi: il primo è l`€™odore greve, nauseante, dei canaletti fognari a cielo aperto. Le autorità  militari non consentivano che fossero coperti perché tutto doveva rimanere allo stato di «provvisorietà ». Quarant`€™anni di provvisorietà , non è follia? Il secondo ricordo di Dehisheh è il racconto dei medici dell`€™Onu: decine di aborti a causa dei gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani durante l`€™Intifada di quell`€™anno. Le case di tre sospetti lanciatori di sassi erano appena state demolite dai bulldozer dell`€™esercito.

Come possono crescere dei bambini in un contesto del genere? Impareranno ad amare gli stranieri che stanno sulla loro terra? Come possono crescere i bambini che stanno nelle favelas del Brasile, nelle villas miserias dell`€™Argentina, nelle poblaciones del Cile, o quelli che vivono sugli immensi immondezzai dell`€™Asia e dell`€™Africa, o quelli che vivono nelle «riserve» degli indios aggrediti dai trafficanti di droghe, dai cercatori d`€™oro, dai soldati di eserciti che sono poco più che bande di terroristi? Che Natale si prepara per loro? Che Natale si prepara per i bambini afghani? Dei profughi afghani il 20 per cento è costituito da piccini sotto i 5 anni`€¦ Dalla Terra si leva un gran pianto infantile.

Tra l`€™immensa folla che componeva il mosaico di volti e di bandiere della Marcia per la pace, ho ritrovato monsignor Michel Sabbah, il patriarca latino di Gerusalemme. Ben pochi lo riconoscevano: sono troppi i pellegrini che vanno in Terra Santa e non passano da lui, per chissà  quale ragione. Mesi fa, di fronte alle rappresaglie israeliane per la seconda Intifada, questo vescovo dei poveri ha alzato la voce per chiedere: «Se proprio dovete bombardare questo popolo, distruggete le nostre chiese, non le case dei miseri».

Mentre scrivo queste parole a Betlemme sono tornati i carri armati accanto alla basilica della Natività . Betlemme pone ancora un problema: il bambino che vi nasce a Natale è anche figlio nostro o no? La liturgia dice: «Un figlio ci è stato donato».

Testimonianze

Le mamme di Betlemme raccontano Gesù

di suor Silvia Melato

Le suore francescane elisabettine di Padova gestiscono a Betlemme il Caritas Baby Hospital, sostenuto anche dagli amici della Famiglia antoniana, dove vengono curati i bambini malati della zona e assistite le loro famiglie. Ecco la testimonianza di due suore su come le mamme continuano a trasmettere ai loro bambini la meraviglia del mistero di Gesù nato in mezzo a loro`€¦ Se in questa terra benedetta e sofferente un giorno ci sarà , finalmente, la pace, forse ciò avverrà  anche per la fede e l`€™amore di Abir, di Sahar, di Amal e di tante mamme di Betlemme, forti e generose, umili e grandi!

Betlemme! Qui nella grotta della Natività  ci si sente sempre di casa, Dimentico per un po`€™ le occupazioni quotidiane e mi lascio immergere nella contemplazione: qui Dio si è fatto bambino! Il silenzio delle strade deserte in questo tempo di Intifada penetra ogni cosa con la sua tristezza, e anche in questa grotta sembra riflettersi la sofferenza umana che si consuma vicino alle nostre case.

Il silenzio è assoluto, non per lungo tempo, però. Alcuni passi sommessi e quasi solenni attirano la mia attenzione. Non sono nuova alla scena di cui mi sento fortunata spettatrice, ma la commozione che suscita in me, quella sì è sempre nuova! È una coppia di giovani sposi; la mamma stringe tra le braccia la loro creaturina nata da poco. Sostano in ginocchio davanti alla stella d`€™argento sul luogo della nascita di Gesù, poi, con immensa dolcezza, la mamma depone il suo bambino sulla stella, e lì lo lascia per alcuni secondi, sorridendogli felice.

Per molti bambini di Betlemme l`€™incontro con Gesù comincia con questo gesto semplice e bellissimo.

Ma la grotta non è fatta per i lunghi silenzi`€¦ Essa è un luogo familiare, luogo amico, che ha il sapore dell`€™incontro, della compagnia`€¦ I bambini si trovano a loro agio, specie quando arrivano a frotte e si «lanciano» affettuosamente a baciare la stella d`€™argento; si ha allora la sensazione che una comunicazione immediata si stabilisca tra loro e l`€™amico che qui è nato.

C`€™è infatti un`€™ indiscutibile caratteristica che accomuna Gesù e i bambini di Betlemme: sono compaesani, nati nello stesso cortile`€¦ anche se poi il loro amico, per circostanze particolari, si è dovuto trasferire prima in Egitto e poi in Galilea.

Oggi, a Betlemme, come in duemila anni di storia, le mamme e i papà  continuano a trasmettere ai loro bambini la meraviglia del mistero di Gesù nato in mezzo a loro`€¦ Vivere a Betlemme non è facile, specialmente in questi tempi, eppure la fede delle mamme cristiane è forte come la roccia e il loro amore continua a rendere presente, quasi tangibile il mistero di un Dio che si fa carne. Penso a Sahar, ad Abir, ad Amal`€¦ sul cui volto sembra essere rimasta qualche traccia della bellezza di Maria, la madre di Gesù`€¦ È bello ascoltarle, sentirle raccontare il Natale`€¦

Sahar parla felice dei suoi bambini che attendono il Natale, ma anche di quanto sia difficile comunicare la gioia della festa quando, in questo tempo, Betlemme vive nella tristezza: «In molte famiglie c`€™è sofferenza, o perché qualcuno è in prigione, o perché è ferito, o perché il papà  ha perduto il posto di lavoro. Ma io continuo a insegnare ai miei bambini che il Natale è speranza e vita, e quel Bambino ci porta la vita nuova. Di solito, quando arriva novembre e già  si intravedono le prime luci del Natale, io porto i miei bambini alla grotta, ci sediamo tutti intorno e comincio a parlare loro di Maria che qui ha dato alla luce Gesù; parliamo dei pastori, degli angeli che hanno annunciato loro la nascita del Salvatore. Alla grotta ci andiamo più volte prima di Natale. Anche mio marito viene, così ci sentiamo una famiglia tutta unita attorno a Gesù. Parliamo di lui: i miei bambini vogliono sapere tante cose, spiego loro il Vangelo e le icone affisse nella grotta».

La «fragranza» di Abir. Nel suo spendido costume dai colori intensi e smaglianti, Abir dimostra tutta la «fragranza» della donna palestinese. Abita presso il Campo dei pastori e come loro si sente una pastorella semplice e piena di gioia, in cammino con i suoi bambini verso la luce. « Quando Gesù è nato, è iniziata per noi la salvezza. Egli è venuto come essere umano per sentire ciò che noi sentiamo, è venuto in questa terra per sentire la nostra sofferenza. Questo è ciò che dico ai miei bambini quando parliamo del Natale. Essi mi chiedono molte cose: "Ha pianto Gesù, come fa Michel `€“il fratellino di tre mesi `€“, aveva fame come lui?". "Si `€“ rispondo `€“ egli è diventato proprio come noi, ma senza il peccato, egli è venuto a salvarci da esso. E se Gesù è con noi, perché avere paura? Ai miei bambini parlo molto di Maria, così piena di amore e di bontà  nell`€™accettare di diventare la mamma di Gesù, nel prendersi cura di lui fino a che, a poco a poco, è diventato grande. Gesù è stato la sua luce fin dal momento in cui l`€™ha visto appena nato. Uno dei miei bambini un giorno mi chiese: "Ha sofferto Maria nel dare alla luce Gesù, come hai sofferto tu con Michel?" Ed io gli ho risposto così: "Penso che Gesù non abbia fatto soffrire la sua mamma". Con i miei bambini leggo spesso il Vangelo e cantiamo insieme. Andiamo alla grotta, specie nei giorni feriali e anche lì cantiamo. Lo scambio dei doni è parte significativa del Natale, doni semplici, che esprimano la condivisione anche con i poveri. Poiché Gesù ci ha dato la vita e la luce, anche noi dobbiamo dare qualcosa agli altri. Ai miei figli insegno a dare più che a ricevere. La mia fede mi aiuta a non aver mai paura, ad affrontare i momenti difficili», continua Abir, alla quale, come a tante mamme palestinesi, non vengono risparmiate le preoccupazioni, specie in questo periodo di Intifada. Nei giorni di violenza, mentre i proiettili palestinesi e israeliani si incrociano sulla sua casa che già  ne porta i segni, Abir si raccoglie con la sua famiglia e prega. «Il Signore ci protegge e io gli sono grata».

Amal sembra vivere il Natale in maniera tutta nuova quest`€™anno. Stringe a sé il suo bellissimo bambino di tre mesi dagli occhi vivaci e lucenti e gioisce delle sorprese della vita. Tanta è stata la sofferenza del suo cuore, quanta è ora la sua felicità . Il suo bambino l`€™ha chiamato Ihab, che significa «dono che viene da Dio». Verso i tre mesi di gravidanza le avevano consigliato di abortire perché sarebbe nato con malformazioni. Il tormento e l`€™angoscia della scelta sono stati terribili per Amal, ma ha deciso di portare avanti la gravidanza mettendosi nelle mani di Dio. Oggi il suo bambino è veramente «Ihab», un bambino sanissimo che si aggiunge felicemente ad altri due.

Anche Amal parla con gioia di come racconta il Natale: «I miei bambini mi sommergono di domande: "Mamma, ci porti a vedere la grotta dove è nato Gesù Bambino? Perché c`€™è la stella? Perché le mamme mettono l`€™olio sulla fronte e sulle mani dei bambini?" I loro "perché" non finirebbero mai, e a me piace rispondere e raccontare come Gesù è il nostro salvatore, colui che dona la pace, e tutto ciò che è buono, e noi dobbiamo essere la sua luce e brillare per lui: spiego loro che ungere con l`€™olio delle lampade la fronte e la mano dei bambini significa chiedere a Gesù di essere salvezza per noi. Ungere il polso è pensare alle sue mani trafitte sulla croce».

Se in questa terra benedetta e sofferente un giorno ci sarà , finalmente, la pace, forse ciò avverrà  anche per la fede e l`€™amore di Abir, di Sahar, di Amal`€¦ e di tante mamme di Betlemme, forti e generose, umili e grandi!

Natale al Caritas Baby Hospital

Siamo a Betlemme, al Caritas Baby Hospital, dove Gesù continua a vivere in questi piccoli pazienti, affidati al nostro amore e alle nostre cure. Tanti «Gesù Bambino» che continuano, con le loro sofferenze e tante privazioni, la storia d`€™amore di Betlemme per l`€™umanità  intera. Non importa di che religione o di quale etnia siano i nostri bambini, ma ognuno di loro, per noi, è Gesù Bambino e quindi anche al Caritas Baby Hospital è sempre Natale.

Se ogni giorno qui a Betlemme è Natale, lo è in modo speciale il 25 dicembre. Mentre le campane suonano, tutta la popolazione di Betlemme e dintorni si riversa sulle strade; quando il Patriarca, la vigilia di Natale, entra solennemente a Betlemme per iniziare le celebrazioni nella basilica della Natività , ci sono tutti, cristiani e musulmani`€¦ Ognuno a suo modo partecipa al clima di festa e di gioia.

La parrocchia di Betlemme conta circa 4000 cristiani cattolici; con altri di confessione diversa, i cristiani raggiungere un terzo della popolazione betlemita.

Il personale del Caritas Baby Hospital è per il 50 per cento cristiano. Cristiano è solo il 2 per cento dei bambini ricoverati: i bambini con cui abbiamo quotidianamente contatto, quindi, sono in maggioranza musulmani. Quasi impossibile, allora, un discorso religioso e una esperienza particolare del Natale, come nei nostri paesi`€¦

Noi al Caritas Baby Hospital abbiamo sempre cercato di far vivere ai bambini un clima di serenità  e di pace. A Natale, al di là  della situazione precaria in cui ci troviamo a vivere, l`€™ospedale viene trasformato da addobbi e luci`€¦ Al centro di tutto, nei vari ambienti, viene posto il segno del messaggio natalizio: il mistero della nascita di Gesù per noi, attualizzato nella situazione odierna. Ai bambini e al personale, cristiani e musulmani, viene ricordato il significato di tutto questo. Si preparano doni per i bambini malati, per quelli dell`€™asilo nido e per i loro fratellini che parteciperanno alla festa organizzata per loro.

Alcuni giorni prima del Natale viene invitato il Patriarca per un incontro con il personale e poi si organizza una grande festa per tutto il personale e le loro famiglie. In questa occasione è sempre stato possibile far rivivere il mistero del Natale di Gesù: con la lettura e spiegazione del vangelo della Natività , con rappresentazioni dal vivo del mistero, con canti natalizi e danze orientali. Un clima di fraternità  e di gioia che, dimenticando temporaneamente la situazione difficile che si sta vivendo, accomuna cristiani e musulmani in pensieri di pace, di serenità , di bellezza.

Dove Gesù nasce nero

Bujumbma, Burundi. È la quarta domenica d`€™Avvento e la liturgia offre l`€™occasione per parlare della Vergine Madre, Myriam, la donna forte che dà  alla luce suo figlio fuori dal villaggio, perché per lei e per suo marito «non c`€™è posto nell`€™albergo». Terminata la messa, la jeep che mi deve riportare in seminario si carica di ragazzi desiderosi di fare da guardia del corpo al missionario in un momento in cui il Paese è dilaniato dalla guerra tra Utu e Tutzi.

Fuori dal villaggio, un ragazzo chiede di fermarsi per bere. E mentre lo osservo avvicinarsi a una pozza d`€™acqua in cui io non avrei neppure lavato i piedi, sento delle urla: una giovane ragazza sta partorendo e grida di dolore per le doglie del parto. È sola, madida di sudore, gli occhi iniettati di sangue, grandi di paura. L`€™aiuto a partorire; il piccolo sembra non voler nascere e io mi trovo a invocare tutti i santi del cielo. Finalmente, uscita la testa, il resto del corpo sguscia fuori in un attimo. Lieto, chiamo i ragazzi e dico loro: «Venite a vedere Gesù bambino». Uno di loro mi chiede: «È già  nato? Hai detto che mancavano ancora quattro giorni`€¦».

Essi si accostano, pieni di meraviglia. Il neonato ha la pelle bianca, i capelli neri e una voce forte e squillante. La giovane mamma, una ragazza madre, guarda la sua creatura con indicibile dolcezza. «E i pastori?», chiede uno dei ragazzi. «E gli angeli?», aggiunge un altro. Invogliato dalla crescente curiosità , mi lascio coinvolgere in questo flusso di domande e chiedo anch`€™io: «Perché Dio si è fatto come noi?». Mi sento rispondere: «Perché noi diventiamo come lui». Tutti percepiamo che quello è un momento particolare e quasi senza volerlo intoniamo un canto natalizio.

Con ancora negli occhi questo fatto, durante la messa della natività , i ragazzi apprendono facilmente il messaggio che ogni giorno può essere Natale.

È Natale quando credo in quella povertà  che fa di Dio l`€™unica ricchezza.

È Natale quando creo un mondo nuovo ospitando nel mio sguardo chi è solo.

È Natale quando mi fido degli altri come Dio si è fidato di me.

È Natale quando mi chino su un bimbo vedendo in lui i lineamenti del Dio fatto uomo perché l`€™uomo si faccia Dio

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017