Combattere la fame un «affare» per tutti

Cattive e buone notizie si intrecciano nel sesto Rapporto della Fao sulla fame nel mondo. Cinque milioni di bambini che muoiono ogni anno per denutrizione. Responsabilità e vie d'uscita.
01 Febbraio 2005 | di

U n bambino muore di fame o di malattie facilitate dalla fame, ogni cinque secondi. La grande filosofa Hannah Arendt nel suo libro più famoso parla della banalità  del male. Lei si riferiva ai totalitarismi - fascismi e comunismi - che hanno travagliato il secolo appena trascorso, ma l'espressione può attribuirsi anche a questa tragica situazione contemporanea. Siamo così abituati a vederci sfilare davanti agli occhi, via video, immagini di persone denutrite del terzo e quarto mondo, che ci siamo quasi assuefatti, non producono più in noi lo shock necessario a farci reagire, a ritenere la loro condizione intollerabile e indegna di un mondo che si vuole civile.
Ci risveglia, da questa assuefazione inconscia, il periodico rapporto della Fao (l'Agenzia Onu per l'alimentazione) con le sue puntuali - e tragiche - rivelazioni che hanno valore scientifico). Il sesto Stato dell'insicurezza alimentare nel mondo, uscito nel dicembre dello scorso anno, afferma senza mezzi termini che il processo verso l'obiettivo di dimezzare, entro il 2015, il numero degli esseri umani che patiscono la fame - obiettivo indicato nel 1996 dal Summit mondiale della Fao a Roma e ribadito dal Vertice del Millennio dell'Onu nel settembre 2000 a New York - sta rallentando e con questo ritmo di interventi non raggiungeremo mai la meta.

Cominciamo con le cattive notizie

A mezzo percorso il numero dei sotto-alimentati è diminuito leggermente in percentuale ma aumentato, in numeri assoluti, di ben 18 milioni di esseri umani. Se si escludono poi Cina e India, i due giganti asiatici che stanno facendo meglio nel migliorare le condizioni di vita dei loro popoli, l'aumento sale a 34 milioni nel resto del mondo. La più arretrata rimane, come sempre,  l'Africa sub-saharhiana, cioè l'Africa nera. E i più colpiti, come sempre, i bambini. Anche l'altra agenzia dell'Onu, specializzata  per l'infanzia, l'Unicef, ha elaborato, nel dicembre scorso, le sue statistiche, e anche queste mostrano dei dati agghiaccianti. Metà  dei bambini del mondo, circa 1 miliardo, devono far fronte alla miseria più estrema. Ventisei dei ventisette Paesi con il più alto grado di mortalità  infantile si trovano in Africa. L'Africa è un continente giovane, dove prevalgono le nidiate di bambini: il continente nero conta 340 milioni di bambini, il 51 per cento della popolazione. Ma se la loro condizione è la sotto-alimentazione, che futuro potranno sperare? Al flagello della fame si accompagnano altri flagelli, che ne diventano le concause: le guerre, che in Africa arruolano fra i bambini - che diventano bambini-soldato - marcati nella psiche, oltre che nel corpo, per tutta la vita. In Sierra Leone, appena uscita da una tragica guerra civile senza esclusione di colpi - moltissimi sono i mutilati fra entrambe le fazioni - tre bambini su dieci moriranno prima di compiere cinque anni. In Nigeria, Paese potenzialmente ricco, sesto esportatore di petrolio nel mondo, solo il 13 per cento della popolazione infantile viene vaccinato. Denutrizione e analfabetismo vanno di pari passo. In Africa, solo il 56 per cento delle bambine frequenta la scuola elementare e sa scrivere.

Il circolo vizioso della povertà 

Ci sono i perdenti della vita, quelli che difficilmente arriveranno a una vita decente. I più perdenti di tutti sono i bambini che nascono con un peso insufficiente. I nati con meno di 2,5 kg nei Paesi in via di sviluppo quasi mai possono essere sottoposti a trattamenti intensivi. Rischieranno di morire in tenera età  - indice di mortalità  quattro volte più elevato dei loro coe-tanei - di prendere con maggiore facilità  malattie tipo la diarrea, la malaria, le varicella, la polmonite, che qui da noi sono facilmente curabili ma che lì da loro sono assai spesso mortali. Se ce la fanno a crescere, avranno ridotte attitudini al lavoro. Infine, un paradosso: inetà adulta avranno tendenza, pur senza migliorare la qualità  del loro cibo e appunto a causa di questo, all'obesità , e saranno più vulnerabili alle malattie dei Paesi ricchi tipo malattie diabetiche e cardiaco-coronariche. Il ciclo rischia di perpetuarsi, perché le donne nate con insufficienza di peso hanno la tendenza a generare figli anche loro sottopeso. Una maledizione da generazione a generazione, però per niente divina, dovuta alle nostre insufficienze ad affrontare il problema.

Combattere la fame è un affare per tutti

Questa volta il rapporto Fao non si sofferma sui moniti etici, dandoli per scontati, ma vuole dimostrare che combattere la fame è un affare per tutti. Quantifica le perdite economiche prodotte dalla sotto-alimentazione. Il deficit di produttività  causato dalla minor energia-lavoro equivale a una catastrofe planetaria: è come se scomparisse la capacità  a produrre di una popolazione pari a quella degli Stati Uniti. C'è un costo diretto della fame, la cura delle malattie più frequenti causate dalla sotto-alimentazione, e da solo è quantificabile in 30 milioni di dollari l'anno, ma c'è un costo indiretto assi più elevato, causato dalla perdita di produttività . Mentre investendo ogni anno 25 milioni di dollari si salverebbero, nell'arco di dieci anni, 900 mila vite di bambini e si guadagnerebbe più di un miliardo di dollari di produttività . Un calcolo ancora più semplice fatto dagli istituti specializzati per conto della Fao ci dice che per ogni dollaro investito in interventi correttamente mirati contro la penuria alimentare e la carenza di oligo-elementi nell'organismo umano, si guadagnerebbe l'equivalente da cinque a venti dollari. Come abbiamo visto, sotto-alimentazione e analfabetismo vanno di pari passo e quindi un agricoltore che ha fatto le elementari in media è capace di una produttività  dell'8,7 per cento superiore a quella di un analfabeta. L'educazione appare anche come la principale diga contro la diffusione dell'aids - e dei suoi costi, in vite umane anzitutto, in spese per medicine poi - per cui, secondo uno studio svolto in Uganda, le persone che hanno fatto le elementari presentano un fattore-rischio due volte minore degli analfabeti, e chi ha fatto studi secondari quindici volte minore. Conclude la Fao: diminuire la fame è un buon affare per tutti, oltre che una profonda esigenza morale.

Ma non mancano le buone notizie

Il cammino della comunità  internazionale contro la fame e a favore degli affamati, a metà  del suo cammino non è solo negativo. C'è anche una serie di buone notizie che il rapporto Fao elenca meticolosamente. Il continente Asia è quello che ha fatto più passi in avanti: dal 1997, anno di avvio della campagna, in Cina 50 milioni di persone sono uscite dalla sotto-alimentazione e in India 13 milioni. Abbiamo detto che l'Africa subsahariana, l'Africa nera, è quella messa peggio, ma anche qui c'è una buona notizia inaspettata: la maggioranza dei suoi Paesi è riuscita a far diminuire la fame del 25 per cento, anche se in moltissimi la percentuale degli affamati rimane superiore al 50 per cento della popolazione e in alcuni, non a caso coinvolti in conflitti bellici, come l'Eritrea, la Repubblica democratica del Congo, il Burundi, arriva al 70 per cento. Però la Fao aggiunge che trenta Paesi del mondo, che assieme contano metà  della popolazione in via di sviluppo, hanno la possibilità  di raggiungere l'obiettivo della riduzione a metà  degli affamati se continueranno con una crescita annua del 3,2 per cento del loro Pil agricolo (Prodotto interno lordo che misura la ricchezza creata in un Paese nel corso di un anno). Di fronte a un quadro così chiaroscurale, dove le cattive notizie si intrecciano con quelle buone, e dove la lotta contro la fame segna tuttavia un rallentamento rispetto agli obiettivi prefigurati, si impone l'interrogativo di sempre: che fare?


Dopo tutto questo che cosa si può fare?

La Fao al termine del suo rapporto-dossier, propone una strategia su due fronti. Primo fronte: rafforzare le attività  produttive dei Paesi in via di sviluppo. È la classica risposta alla constatazione che la carità , pur essendo una virtù, da sola non basta, che occorre non soltanto fornire il pesce all'affamato, ma dargli l'attrezzatura per poter pescare da solo. E tuttavia, rimangono delle emergenze (guerre, calamità  naturali: il maremoto che ha sconvolto le coste del Golfo del Bengala) dove le strutture locali da sole non saranno mai sufficienti, quindi il secondo fronte: programmi internazionali di accesso alla nutrizione per i più bisognosi e iniziative di protezione sociale mirata ai più deboli, come ad esempio latte e pasti scolastici gratuiti ai bambini. Sul primo fronte, la Fao elenca una serie di iniziative esemplari che meritano approvazione e appoggio. Il presidente-operaio del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, sta portando avanti il programma di fame zero nel suo Paese, che, da un lato, distribuisce pasti gratuiti ai bambini delle scuole e ai poveri, dall'altro, favorisce piccoli e medi contadini, acquistando da loro gli alimenti necessari. La rivoluzione bianca in India ha portato questo Paese a diventare il primo produttore di latte al mondo, che anche qui viene fornito, per il 70 per cento,  da piccoli e piccolissimi allevatori (ad esempio con sole due vacche) riuniti sovente in cooperative promosse dalle autorità  pubbliche. In Sud-Africa la costituzione post-apartheid del 1996 ha codificato il diritto all'alimentazione per tutti i cittadini, anche se, nella pratica, permangono estese sacche di povertà .
Sul secondo fronte, l'iniziativa più interessante citata viene anch'essa dal presidente brasiliano Lula che, al Summit Onu del settembre dello scorso anno, ha proposto una tassa mondiale sul commercio delle armi e sulle transazioni finanziarie che avvengono nei paradisi fiscali per finanziare il piano internazionale alla lotta contro la fame. Lula è stato subito appoggiato da un quartetto composto dai governi di Cile, Spagna, Francia e dal segretario dell'Onu Kofi Annan e il progetto ha assunto il motto la fame non può attendere. E qui si apre l'ultimo punto, quello delle nostre responsabilità .

E ora tutte le nostre responsabilità 

Per le emergenze e per sostenere le iniziative locali, l'aiuto internazionale è una molla indispensabile.
Ci vuole una nuova visione dei rapporti internazionali, la cancellazione dei debiti dei Paesi più poveri - più volte chiesta da Giovanni Paolo II e più volte promessa ma graduata col contagocce - ci vuole l'apertura dei nostri Paesi ai prodotti agricoli dei Paesi del terzo e quarto mondo, che sono appunto esportatori di alimenti.
Ci vuole anche un maggior flusso di aiuti pubblici. Dice l'Unicef che misure alimentari mirate e relativamente poco costose potrebbero abbassare la mortalità  infantile del 25 per cento salvando 2,4 milioni di bambini ogni anno. Ma dove attingere questi fondi, relativamente non altissimi se ripartiti fra tutti i Paesi occidentali?Parliamo per noi. Assai spesso, per turare i buchi delle finanziarie, nel nostro Paese si tagliano questi aiuti o si attinge, anche sfiorando l'illegittimità , all'8 per cento destinato dai contribuenti allo Stato. La percentuale italiana degli aiuti allo sviluppo sta diminuendo, ora è scesa al 17 per cento del nostro Pil (mentre dovrebbe raggiungere la cifra dello 0,70 per cento).
Nell'estate del 2002 la rete di associazioni cattoliche riunite nelle Sentinelle del mattino si è rivolta  al presidente del Consiglio Berlusconi chiedendogli, di fronte alle parole - ha dichiarato di voler salire all'1 per cento del Pil -  di iscrivere almeno nella Finanziaria un più realistico 0,39 per cento del Pil.                                                       
Una richiesta disattesa.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017