Cl: una risposta giusta alla voglia di liberazione

Scomparso verso la fine dello scorso febbraio, il fondatore di Cl è stato una dei più incisivi protagonisti della vita della Chiesa dagli anni Sessanta.
28 Luglio 2005 | di

Ciellino non ero, però mi iscrissi lo stesso al suo corso, incuriosito dai tanti amici ciellini che incalzavano: «Devi assolutamente sentirlo!». Il suo frequentatissimo corso di introduzione alla teologia, dedicato al «senso religioso», è stato per venticinque anni un prestigioso e impegnativo biglietto da visita per le matricole dell'Università  Cattolica; «don Gius» parlava nell'aula magna gremita già  alla prima ora del mattino, con quella voce arrochita che tanti epigoni hanno, forse inconsciamente, imitato, e lanciava sopra le teste frasi al sapore d'oracolo.
Le «domande del cuore». L'«evidenza» della fede. Il cristianesimo non come dottrina o morale, ma che è anzitutto un'esperienza, un avvenimento che si deve «incontrare». La Chiesa, luogo indispensabile di una risposta di adesione a una Persona. La necessità  dell'«obbedienza» a un destino più grande che solo può compiere la nostra umanità ... Non tutto ero in grado di capire, e soprattutto in quei primi anni Ottanta parecchio suonava discorde dagli echi della cultura dominante anche tra i giovani; avvertivo però il fascino di una dottrina lungamente pensata e che aveva, nello stesso tempo, le radici ben affondate nella più viva tradizione cattolica e la veste adeguata alle filosofie del Novecento.
Don Luigi Giussani era, del resto, prete del pre-Concilio, allevato dunque nei rigorosi seminari ambrosiani a suon di tomismo, Azione cattolica, Manzoni, carità  assidua e molta fierezza nella fede; per di più era brianzolo, di Desio - la patria di papa Ratti -, dunque coniugava nel Dna anche l'attitudine a un'operosità  sociale che non avrebbe accettato d'essere subalterna ad alcuna ideologia. Proprio queste solide certezze sconcertavano alcuni dei miei giovani condiscepoli, qualcuno dei quali talvolta s'azzardava ad alzarsi dagli spalti per rivolgere a voce alta al «Gius» un'obiezione o una domanda che poteva sembrare contestazione; e che lui quasi sempre stroncava in poche, secche parole.
Inutile negarlo. Un po' di timore ce lo incuteva, don Giussani, pure se i fidati amici ciellini seguitavano a ripetere che di persona era dolcissimo. Del resto, era già  il fondatore del movimento cattolico italiano più presente nelle scuole e non solo; aveva il Meeting di Rimini, aveva il battagliero settimanale «Il Sabato», aveva un Movimento Popolare che fiancheggiava efficacemente ma criticamente la Dc... Di lui sapevamo i mitici inizi negli anni Cinquanta da insegnante di religione al Liceo Berchet di Milano, con il gruppo che diventò presto Gioventù studentesca. Poi c'era stata la crisi del Sessantotto, che anche di Gs dimezzò le file, e la rifondazione con la nuova sigla di Cl: una ragione sociale che componeva coraggiosamente l'ansia di «liberazione» (sociale, familiare, sessuale e pure religiosa) di quegli anni con la «comunione» più ecclesiale possibile.

I ragazzi di Cl nella mischia

Un bell'azzardo, considerato il clima culturale (Paolo VI parlò di «fumi di Satana») che interessava persino la Chiesa. Don Gius dovette patirne parecchio - nel 1965 era stato spedito in America, un po' per studiare un po' per allontanarlo dalla sua creatura - ma certo non si sottraeva all'obbedienza che aveva imparato fin da bambino. Spesso i vescovi e i Papi gettarono senza risparmio lui e i suoi ragazzi nella mischia della polemica politica e giornalistica, a pareggiare a suon di marce missionarie i cortei di protesta che ingorgavano le città , a difendere le ragioni della Chiesa durante i referendum perdenti sul divorzio e sull'aborto. Quanti assalti incendiari alle sedi di Cl, quante botte ai suoi militanti! Bisogna riconoscere che Comunione e liberazione nelle sue varie sfaccettature era diventata per l'Italia, in pratica, l'unica proposta visibile del messaggio cristiano in campo sociale e politico.
L'impopolarità , anzi la diffidenza e l'ostilità  che don Giussani totalizzò all'epoca, anche tra gli stessi fratelli di fede, era dovuta appunto alla sua intollerabile pretesa (era poi la pretesa cristiana tanto spesso evocata nei corsi alla Cattolica) di non rinchiudere la fede nelle sacrestie, di confrontarla senza complessi d'inferiorità  con le filosofie all'apparenza più atee o comunque eccessive (e infatti tra gli autori più citati dal sacerdote lombardo c'erano Leopardi, Pavese, Péguy, Pasolini...), di metterla all'opera nelle strade, a scuola, nel mondo del lavoro. Non accettava un «cristianesimo condannato all'insignificanza», don «Gius» - come lo chiamavano i seguaci con la sconfinata ammirazione riservata ai «maestri» -, e fu così che venne dipinto da molti (compresi tanti che ai suoi funerali han fatto mostra di rimpiangerlo) con l'eternamente ripetuta accusa di integralismo; e i ciellini da nuovi crociati.

Un carattere burbero eppure dolcissimo

C'entrava anche il carattere battagliero dell'uomo, certo. Quando, a metà  del corso universitario, il professor Giussani annunciò che avrebbe raccolto le firme dei presenti per ammetterli all'esame di pre-appello, balzò agli occhi l'incongruenza: ma come? Aveva battuto per mesi sulla passione per l'umano che è in noi, appoggio basilare di ogni senso religioso; ripeteva con slancio che la vita è la realizzazione del sogno della giovinezza; insisteva sulla responsabilità  personale di rispondere all'avvenimento cristiano che interpella e giudica ciascuno, e adesso ricorreva al mezzuccio di contare le presenze? Mi sembrò una contraddizione così stridente che - matricola sbarbatella qual ero - decisi di farglielo notare; non certo come rimprovero, bensì per rispetto alla riconosciuta levatura della sua personalità .
Mi misi dunque in coda a fine lezione, proprio mentre il Gius spiegava ai ragazzi addetti alla raccolta delle firme come non dovevano lasciare che gli studenti gettassero il famigerato bigliettino nei contenitori, ma piuttosto riceverlo in mano per sentire con le dita se qualche furbetto avesse tentato di inserire anche quello di un amico assente; in quel caso, avrebbero messo ambedue i foglietti in tasca, in vista di successivi provvedimenti... Quando fu il mio turno, almeno capii una piccola parte del suo carisma: quel viso aveva occhi così magneticamente azzurri da soggiogare. Don Giussani ascoltò il ragazzo, gli mise una mano sulla spalla e concluse: «So io come vi devo trattare».
Mah. Forse aveva ragione, comunque l'anno seguente cambiai corso di teologia e proseguii a interrogarmi per un pezzo sul mistero di quel prete così burbero e persino autoritario eppure - continuavano a ripetermi i fidati amici ciellini cui narravo l'esperienza - dolcissimo. Alla pedagogia, al metodo educativo del Gius e dei suoi, io stesso e credo tutta la Chiesa italiana deve molto: la presenza negli anni duri, la difesa della razionalità  del fatto cristiano, la rivendicazione di incarnarlo nella storia... Ciò che lascia perplessi è semmai l'ansia di risultati (una frase di don Luigi suonava più o meno: «Se il sogno non si realizza, è inutile») che poi in concreto sembra aver giustificato alcuni seguaci - beninteso: nella loro libera iniziativa di laici in politica e negli affari - a compromessi discutibili eppur troppo spesso spacciati per il bene della Chiesa.
Può darsi che tale attitudine dipenda anche dal peccato originale di un fondatore paternamente dolcissimo, delicato e gioviale con gli amici, amante del buon vino e dei sigari, entusiasta di ogni vero di più della vita, cantore assolutamente non clericale della misericordia e della speranza; eppure severo, spigoloso, a tratti duro. Come era stata con lui l'amatissima mamma Angiolina, del resto; che pure una mattina, accompagnandolo per mano alla messa dell'alba, si fermò lungo la strada contemplando l'ultima stella e rivelandogli in dialetto una teologia di entusiasmante concretezza: «Com'è bello il mondo e com'è grande Dio!».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017