Ci hanno rubato l’infanzia

L’andamento è quello di una favola, ma i personaggi e i fatti che li riguardano sono autentici, tratti dalla cronaca di uno dei fenomeni più inquietanti di questi giorni.
02 Dicembre 1996 | di

Quella sera Giusy e Simona avevano messo gli ultimi pastori dinanzi alla grotta. Dormicchiando avrebbero atteso la mezzanotte, per poter poi sistemare il bambino nella mangiatoia. Il gioco era quello di sempre, ma qualcosa stavolta non andava per il verso giusto. Fu la più grande a tirare fuori il rospo: «Sono sempre i grandi quelli che stanno davanti alla grotta». «Già », replicò la sorellina più piccola, tirando su col dito il riccetto nero che la infastidiva. «E poi, se io fossi Gesù bambino invece di animali, frutta, latte vorrei giocattoli, cioccolata...». «A me - disse l'altra - piacerebbe che ci fossero tanti bambini, da tutto il mondo, a raccontarmi delle storie».

Andarono nell'altra stanza, in attesa della mezzanotte. Il presepe rimase solo e piano avvenne qualcosa che nessun adulto vide mai. Da ogni angolo cominciarono ad arrivare centinaia, migliaia di bambini. Il sogno della piccola aveva attraversato le pareti, le montagne e tutti i confini. L'avevano ascoltato quei bambini che conservavano nel cuore il desiderio dell'infanzia perduta, rubata loro dai grandi.

Arrivarono dal Belgio. Appena li videro gli altri bambini li riconobbero subito, e li salutarono tristi: erano gli amici di Julie e Melissa, di An e di Eefje e delle altre piccole vittime della rete di insospettabili pedofili che facevano capo a Marc Dutroux il «mostro di Marcinelle». Il loro racconto sembrava quasi fantastico, con tanto di orchi, violenze e complicità  istituzionali. Ma era tutto vero. Venivano dal piccolo Gesù per metterlo in guardia: «Mai fidarsi degli adulti!».

Al loro gruppo si unirono i bambini e le bambine che venivano dalla Thailandia, dal Brasile, dalla Cina e da tutti i paesi meta dei «turisti del sesso». Erano scappati dai bordelli dove per pochi dollari è possibile avere a disposizione il corpo di un bambino: per farci di tutto, anche ammazzarlo; come raccontava Rosaria Baluyot, dodici anni: «Ero a disposizione dei soldati statunitensi della base Nato nel mio paese». Era morta per una terribile infezione: il chirurgo che l'aveva operata, le aveva estratto un vibratore rotto, di nove centimetri.

Lee Ahn veniva da lontano. In lacrime, diceva della supplente della scuola elementare, che aveva promesso a lei e ad altre amiche di portarle via dal paese per continuare gli studi in città . Con il consenso delle famiglie erano partite, per ritrovarsi a Hua Hsi - una zona di Taipei dove si esercita la prostituzione - in uno stanzino, senza finestre e con solo un materasso, destinate ad accogliere tra i trenta e i cinquanta clienti a sera. Mentre Lee Ahn parlava, in tanti alzavano il dito per raccontare che le loro esistenze di pochi anni, anche se per strade diverse, avevano raggiunto quegli abissi.

«Anch'io voglio dirgli di stare attento», pensava il bambino sudanese proveniente da Roma, a nome dei sessantunomila piccoli stranieri che vivono in Italia. Non conosceva le statistiche, ma sapeva che la vita per loro era più difficile. Se avesse letto i dati avrebbe scoperto che i bimbi nati stranieri hanno la probabilità  di morire doppia rispetto ai bambini italiani, a causa delle precarie condizioni di vita della madre. Nella mano destra aveva ancora il pacchetto di fazzoletti che vendeva ai semafori. «Io me la cavo così, e aiuto la mia famiglia. A me va meglio che a lei...». E con la mano indicava al bambino adagiato nella mangiatoia, la piccola Sahira, nove anni, che arrivava anche lei da Roma. Reggeva, tra le braccia dai polsi fasciati, un mazzo di rose rosse. «Se non le vendo tutte non posso tornare a casa, mi picchiano. Così qualche volta, per arrangiare, rubo. Il polso? Me l'ha rotto lo scorso anno un signore che mi ha sorpresa con le mani nelle sue tasche. Era vestito tanto per bene, abitava in una delle zone più ricche di Roma».

La piccola rom non era sola. Dietro di lei seguivano Emran, tre anni, bendato a un occhio, e Sengul, tredici. «Ormai nessuno si ricorda più di noi. Vicino alla nostra roulotte, a Pisa, abbiamo trovato un bel pacco regalo. Quando lo abbiamo aperto... è scoppiato», diceva il più grande, mentre, sollevando la camicia, mostrava l'ustione e indicava l'occhio bendato dal fratellino.

Rocco, invece, indossava la tuta da meccanico. Era orgoglioso del suo lavoro, anche se quando parlava davanti agli estranei riusciva appena a spiccicare qualche parola in italiano: era andato poco a scuola, e si esprimeva solo in dialetto. Così, con gli altri, gli estranei, parlava poco, preferiva il silenzio. «Cerca di frequentare la scuola - suggerì al 'collega straniero' appena nato - e non farti fregare da chi ti promette soldi facili». Non si addentrò nelle spiegazioni; ma il ricordo di Abdelazim che consegnava le bustine di «roba» per conto della camorra, e quello di Lello che faceva gli scippi sul motorino rubato nel centro di Napoli, lo accompagnavano.

«Perché se non vai scuola e se non vuoi rubare - dissero al bambino, facendosi avanti, tredici ragazzine dall'accento pugliese - rischi di lavorare in fabbrica dodici ore al giorno a duecentomila lire al mese. Noi, a Gravina, cucivamo maglieria intima per uomo...». «Il nostro lavoro, invece, era mendicare - dicevano quattro ragazzini albanesi - . La polizia ci ha trovati incatenati, coperti di stracci, in un una ex fabbrica alla periferia sud di Milano. I genitori ci hanno venduti a due amici di Tirana».

«Già , i genitori!», fecero in coro in tanti. Questa volta non c'era distinzione tra famiglie ricche e povere, tra nazionalità  e culture: l'esercito delle vittime della violenza in famiglia non conosce latitudini e non fa discriminazione di reddito.

Il piccolo Gesù li guardava in silenzio. Si affollavano intorno alla grotta per liberarsi dei pesi troppo grandi che la vita aveva loro scaraventato addosso.

Nell'altra stanza, Giusy e Simona, dai lettini, ascoltavano i racconti dei coetanei. Credevano di sognare. E pensavano che anche loro, qualche volta, si erano sentite non accettate dagli adulti, allontanate dal cortile del condominio dove si erano ritrovate a giocare con gli altri bambini del palazzo...; ma tutto sommato potevano dirsi fortunate. Erode, con loro, era stato clemente.

Era ormai mezzanotte. Si alzarono per deporre la statuetta di gesso al centro del presepe. Il bambino nella mangiatoia sorrideva, e diceva tra sé e sé: «Non mi sono sbagliato. I miei prediletti sono proprio loro, i piccoli del regno».

DIETRO I NUMERI

Le storie, narrate nell'articolo, sono tutte vere, tratte dalle cronache degli ultimi mesi e da libri di recente pubblicazione (cf. Caterina Fischetti, Innocenza violata, Editori Riuniti; Ron O Grady, Schiavi o bambini, Edizioni Gruppo Abele). Dare i nomi, infatti, vuol dire vedere i volti dei 13 milioni di bambini che muoiono ogni anno per fame (dati del Tribunale permanente dei popoli); delle migliaia che, nei paesi più poveri (Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana, Goa, Venezuela, Sudafrica, Thailandia, Brasile) vengono abusati dai pedofili provenienti dal ricco Nord, grazie ai «viaggi del sesso» che vedono gli italiani tra i primi committenti; dei 70 milioni di piccoli che, tra i 10 e i 14 anni, lavorano in nero a ogni latitudine; infine, per venire all'Italia, dei 20 mila casi di violenza grave registrati ogni anno dal Telefono azzurro (il 28 per cento dei quali sono abusi sessuali e atti di libidine violenta).

Le iniziative legislative per tutelare i minori, le proposte per bloccare il turismo sessuale e perseguire chi commette questi reati anche all'estero, non mancano. Al di là  di quanto si tenta di fare, c'è qualcosa che però non funziona. «La nostra società  è diventata più egoista?», si è chiesto di recente Eugenio Scalfari durante un confronto con il cardinale Martini. «No - gli ha risposto il vescovo di Milano - . Sta, però, tentando di razionalizzare l'egoismo, di dargli una legittimità . E ciò mi fa paura».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017