Cavalieri al Merito le inviate in Iraq

Trasmettere dal terrazzo di un albergo in zona di guerra, oggi si rischia tanto quanto una volta seguire le truppe in azione.
27 Novembre 2003 | di

Ho già  scritto - rispondendo ai lettori che mi chiedevano un giudizio sugli inviati speciali, di sesso femminile, in Iraq - ho già  scritto delle mie valorose colleghe dicendo, fra l'altro, che non è che siano più brave dei maschietti solo che i loro servizi mi toccavano in modo particolare poiché li avvertivo sofferti, frutto di una travagliata elaborazione intima. Per loro, se non altro per le più sensibili (e brave), la trasmissione è diventata una sorta di parto quotidianamente doloroso.
Per loro, per le più brave, non conta tanto dare la notizia quanto sforzarsi di capire (e far capire) cosa ci sia dietro, dentro la notizia. Un conto è informare, un conto è comunicare: la somma di questi due esercizi (quando riesce) è giornalismo. Asciutto, pulito, totale.
Come sappiamo, la Presidenza della Repubblica ha voluto premiare con l'ambita croce di Cavaliere al Merito le mie colleghe inviate nel Golfo, segnatamente in quella vasta e dissacrante area bellica che dal Giordano attraverso il Tigri si estende per tutto l'Iraq, andando oltre.
Non pubblico qui l'elenco delle premiate, per non rubare spazio: i giornali, la tv, la radio vi hanno informato sinanco eccessivamente, cari lettori. Certo spiccano, nel nutrito elenco, personaggi come la Lilli Gruber, la Giovanna Botteri, la Maggioni (questa alla sua prima esperienza bellica, credo), la Ferrario ma anche le esordienti han fatto un buon lavoro.

Qualcuno, qualche capataz di quella che non senza ironia il maestro Biagi chiama la categoria insomma: qualche collega maschietto ha storto la bocca. Ma come, e a noi che ci sfianchiamo da anni su questo o quel proscenio di guerra, a noi niente? Perché la Presidenza della Repubblica ha premiato l'ardimento di inviati-donne che la guerra l'han raccontata dal terrazzino della propria camera d'albergo? Alt! Qui il vecchio cronista che di guerre ne ha fatte tante (sin troppe), armato solo di biro e di taccuino, si sente in dovere di intervenire. A brutto muso. Stare sul terrazzino del Quisisana è un conto, stare sul terrazzino del Palestine Hotel un altro. Sul primo ti godi il sole pulito di Capri, sul secondo sei un bersaglio. Fisso. Continuo. Tanto è vero che qualcuno dei nostri, stando appunto sul terrazzino per vedere cosa accadeva tutt'ingiro, ci ha rimesso la pelle ovvero è stato spedito all'ospedale. La guerra del Vietnam era diversa, là  i giornalisti si imbrancavano nei vari reparti in azione e c'era chi, come l'Oriana, interrogava i feriti, raccoglieva l'ultima parola del GI fracassato da una mina, saltando come una cavalletta per evitare la mitraglia. Ma quella era (fu) un'altra guerra, l'ultima a consentire ai giornalisti di testimoniare dal di dentro. Ora è diverso, si sono accorti che i giornalisti rompono le scatole perché raccontano la verità , sicché han cercato di mettergli la mordacchia. Senza riuscirci, se è vero com'è vero che la copertura di questa seconda Guerra del Golfo è stata eccellente. Se mai ci fosse qualche critica da muovere, eccola: ci si è dimenticati dei colleghi-operatori. Dei reporters che catturano con la camera la guerra, con tutto quello che essa comporta di atroce.

Rischiando la vita. Perché con la Lilli o la Giovanna, in giro per l'inferno di Baghdad, c'era sempre il cameraman, l'operatore, senza del quale il servizio delle donne-inviato sarebbe sprofondato nel nulla. Ma c'è il modo di rimediare. Quando presiedevo il Premio Riccione per la TV, intitolato a Ilaria Alpi, cara bambina coraggiosa uccisa sotto la Croce del Sud, feci premiare l'operatore Capozzo. Eroe dell'Afghanistan, del Libano eccetera. Grande testimone del tempo di guerra. Come i suoi colleghi di oggi. Onesti cronisti coraggiosi.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017