Carla Perrotti «la signora dei deserti»

Ne ha attraversati cinque - i più grandi del mondo, dal Sahara al Simpson Desert -, tre da sola: inseguendo primati, ma soprattutto alla scoperta di se stessa, dei propri limiti fisici e mentali. Ne ha tratto, in ogni caso, importanti lezioni di vita.
21 Novembre 2005 | di

L'anagrafe la dice prossima ai sessanta. Ma non li dimostra. Il fisico asciutto, il volto abbronzato e la leggerezza con cui l'ho vista andare sù e zo per i ponti di Venezia, dove è venuta a presentare il suo ultimo libro (Silenzi di sabbia, Il Corbaccio) corrispondono di più alla sua età  biologica, stabilita dall'Istituto di medicina dello Sport di Milano, in circa quindici anni di meno. Non per grazia ricevuta, ma frutto di una vita animata da grandi passioni e grandi sogni, e di una costante attività  fisica. Parliamo di Carla Perrotti, milanese, conosciuta come la «signora dei deserti» per averne attraversati cinque, i più vasti, due in compagnia e tre tutta sola. Il deserto: chilometri e chilometri di sabbia piatta o increspata da dune infuocate, paesaggi mozzafiato, silenzio, solitudine, sudore e fatiche...
Al deserto la Perrotti ci arriva tardi, a quarant'anni, quando - lo dice lei stessa - «per la maggior parte delle donne arriva il momento di rallentare il ritmo, in una specie di verifica del proprio percorso». E succede quasi per caso. È in Niger con il marito Oscar, medico e documentarista, per realizzare un servizio televisivo sulla Parigi-Dakar, quando si imbatte nell'azalai, la mitica carovana dei tuareg che trasporta il sale attraverso il deserto per centinaia di chilometri. L'incontro è fatale. Incantano Carla la lentezza con cui la lunga carovana si muove e il silenzio quasi irreale che la accompagna.
La voglia di attraversare assieme a loro il deserto la prende tutta e non le dà  tregua finché, nel 1991 - dopo un'accurata preparazione fisica e mentale - non può unirsi a diciassette tuareg che con 200 cammelli si apprestano, dall'oasi di Fachi, a entrare nel Tenéré, zona sahariana del Niger. Carla si cala nella realtà  indossando come i tuareg «pantaloni da cammello», una casacca fino alle ginocchia e lo chéche , il turbante fatto con una striscia di cotone lunga sei metri, indispensabile (lo userà  sempre anche in seguito) per viaggiare nel deserto.
L'impatto è duro: caldo terribile e fatica micidiale. La carovana avanza senza sosta; tappe di quindici ore al giorno, dall'alba sino a notte inoltrata. E così per nove giorni, percorrendo 450 chilometri. «La fatica a volte è tale - ricorda Carla - che la mente entra in uno stadio quasi catartico, dove non trovano spazio emozioni e sentimenti. Ogni cosa cambia: il tempo si dilata, i ritmi sono rallentati, anche i colori scompaiono, tutto diventa come la sabbia e io stessa ho l'impressione di essere sabbia».
E quando si arriva a sentirsi sabbia, vuol dire che si è cominciato a capire davvero il deserto, a non sentirlo come avversario, ma come un amico, ad accettarne le leggi. È il solo modo per superare le tante difficoltà  disseminate nel suo cammino.
Lezioni preziosissime per quando, tre anni dopo, decide di attraversare, in Bolivia, il Salhar de Uyuni: 10 mila chilometri quadrati di sale, il più grande deserto salato della terra, e lo vuole attraversare da sola. Il «Sector no limits team», specializzato nel sostenere imprese estreme, le assicura i mezzi per realizzare il suo sogno.
E così, un giorno parte. Il marito Oscar la accompagna fino al bordo del deserto e poi lei, trascinando un carrettino con sopra 120 chili di materiale appositamente preparato da ditte specializzate, si avventura in quella «distesa abbacinante che riflette il sole in mille cristalli».
È sola. Ha con sé un Gps, un apparecchio satellitare che le consente di conoscere la posizione e di tenere la rotta. È dura: il sole brucia gli occhi, la pelle si screpola, le vesciche torturano i piedi, la temperatura di giorno sfiora i 35 gradi e di notte scende a meno 20. Deve fare ricorso a tutte le risorse della mente e della volontà  per non cedere (il marito è sempre pronto a intervenire). E va avanti, bruciata dal sole e sferzata dal vento che ogni giorno alle cinque soffia inesorabile.
La cosa che le pesa meno è «la tanto temuta solitudine» che favorisce invece «condizioni di grande benessere», mentre «la magia dei tramonti sul sale» diventa uno dei ricordi più forti di questa impresa che conclude, dopo 180 chilometri di fatiche, a Llica sulla sponda opposta del deserto, dove ad accoglierla ci sono il marito e una piccola folla, incredula che una donna da sola sia riuscita in una simile impresa.
La storia continua. Nel 1996 attraversa il Kalahari, nel Botswana, accompagnata da un boscimano di una tribù che vive ai margini del deserto. Ha con sé solo un po' d'acqua e della carne secca, deve riuscire a sopravvivere mangiando e bevendo quello che troverà  nel deserto, come fanno i boscimani quando lo attraversano. Percorre così 350 chilometri in quindici giorni, cibandosi di tutto: bacche secche, resine, nocciole tostate dal sole, bevendo nauseabondi liquidi spremuti da meloncini. Il problema più grave è l'acqua e rischia la disidratazione. Ma quando sta per gettare la spugna e chiamare via radio il marito, che la seguiva con un fuoristrada ai bordi del deserto, ecco comparire l'acqua. «So che non è un caso - ricorda Carla -, perché in seguito durante tutta l'impresa, il fenomeno si è ripetuto. Qualcuno, forse lo stesso deserto, ha voluto che io andassi avanti».
Può così archiviare anche questa avventura, dura, aspra ma ne esce arricchita. «La saggezza dei boscimani - racconta - mi ha insegnato a conoscere e ad amare questo deserto».

Nel Taklimakan il deserto della morte
Il deserto ormai le è entrato nel sangue: lo spazio fisico, duro e inospitale diventa luogo dello spirito, palestra della mente e maestro di vita. «Mi interessano i primati: essere la prima donna o il primo in assoluto che vive queste avventure estreme - dice Carla -, ma nel deserto ci vado anche alla ricerca di me stessa, per misurare le mie capacità  di resistenza fisica e mentale. Lì ho conosciuto una parte di me che non sospettavo. Tuareg e boscimani, poi, mi hanno fatto scoprire l'essenzialità  del vivere, cioè quante poche cose servano davvero per essere felici».
Intanto culla un sogno: attraversare un deserto per ogni continente. Ha già  fatto il Salhar nelle Americhe, il Tenéré e il Kalahari in Africa, le mancano l'Asia e l'Australia.
Dell'Asia l'affascina il Taklimakan, il più grande dei deserti cinesi, circondato dalle catene himalayane dalle quali, durante il disgelo, scendono effimeri corsi d'acqua che si perdono nella sabbia. Taklimakan vuole dire «deserto della morte irrevocabile». Infatti, nessuno, uomo o donna, l'ha mai attraversato da solo.
Lei ci prova, tra l'ottobre e il novembre del 1998.
   Deve percorrere 550 chilometri di sabbia inesplorata e priva di vita, sopportare forti escursioni termiche: più 35 di giorno, meno 12 di notte, che trasformano la tendina in igloo. Si è preparata con estrema cura, assistita da esperti e ditte specializzate che le preparano materiali adeguati che combinino robustezza e leggerezza. Per alimentarsi usa solo pillole e polveri energetiche, non potendo reggere uno zaino che pesi più di 27 chili. Inizialmente, utilizza la poca acqua che trova nelle pozze lasciate dai fiumi scomparsi. Più avanti, nel cuore del deserto dove l'acqua proprio non c'è, la squadra d'appoggio che la precede con una carovana di cammelli, predispone quattro rifornimenti, segnalati con bandierine, che lei deve trovare servendosi delle coordinate fornite con il telefono satellitare.
Sin dal primo giorno le vesciche le macerano un piede. Per lunghi tratti il deserto è un susseguirsi di dune alte anche un centinaio di metri - «cavalloni di un mare in tempesta», li descrive - che sorpassa uno dietro l'altro. Dopo ventiquattro giorni ne è fuori.
Nel 2003 corona il suo sogno attraversando il Simpson Desert, in Australia. È il viaggio più duro. Superate alcune difficoltà , tra cui un serio mal di schiena, il 22 settembre riprende il viaggio. Massacrante. Opressa dallo zaino, la schiena riprende a fare le bizze; in un piede ricompaiono le vesciche; il deserto, diverso dagli altri, è pieno di insidie e di sorprese: gli aculei infetti dei cespugli, i serpenti nascosti sotto la sabbia, e poi zanzare e nugoli di mosche che la inseguono e le si appiccicano addosso per tutta la traversata; un lago reso viscido da uno strato di melma le sbarra il passaggio; le sabbie mobili; una volta manca il rifornimento d'acqua... Incontra diversi animali: un emu, un dingo, un iguana, un cammello, uno stormo di pappagallini grigi, mentre dall'alto la seguono volteggiando rapidi falchi e altri uccelli. «Li considero un dono prezioso che il deserto mi offre», ricorda Carla.
È fastidioso, invece, il vento che in una notte di bufera minaccia di strapparle la tendina. Ma poi, quando spunta il sole, tratti del deserto bagnati dalla pioggia, si ravvivano di verde e di fiori... «È stato uno spettacolo incredibile - dice Carla -. La mattina era tutto fiorito, era come camminare in un giardino, nel deserto.... Anche la pioggia alla fine aveva il suo significato».
La traversata si conclude l'11 ottobre. «Con ancora lo zaino sulle spalle, mi sono inginocchiata verso le distese appena superate - racconta Carla -, ho fatto scorrere la sabbia tra le dita e ho ringraziato il deserto. È stata l'ultima traversata». Per ora. I sogni non finiscono mai.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017