Anno della fede, viaggio al centro

Oggi, sempre più, si avverte la necessità di rimettere in campo una parola forte e purtroppo dimenticata del cristianesimo di ogni tempo: conversione.
25 Settembre 2012 | di

Benedetto XVI vuole che la Chiesa tutta ritorni all’essenziale, a ciò che ne rappresenta il cuore pulsante e impedisce che tutto l’apparato ecclesiastico si riduca a burocrazia sacra. Per questo ha indetto un Anno della fede che prenderà avvio tra pochi giorni, precisamente l’11 ottobre, data emblematica nella quale, cinquant’anni fa, è iniziato il Concilio Vaticano II e, vent’anni fa, è stato pubblicato il Catechismo della Chiesa Cattolica con i suoi 2862 paragrafi. Un evento a dir poco straordinario, intorno al quale ci sono molte attese, anche perché nel mese di ottobre verrà celebrato (dal 7 al 28) il Sinodo dei vescovi su La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana, quasi a dire che l’identità della Chiesa si determina soprattutto in rapporto alla sua missione, quella di annunciare a ogni uomo il Vangelo, una questione che va radicalmente ripensata all’interno delle nuove coordinate antropologiche e socio-culturali contemporanee. Non è più sufficiente fare appello, nella nostra Europa, alla pur profonda eredità cristiana, ma si esigono nuove decisioni e nuovi slanci evangelizzatori. La debolezza della fede di molti cristiani e l’espulsione della questione di Dio dal vivere quotidiano dei più, richiedono una ripartenza missionaria.
 
Ripartenza dalla fede, però, una fede prima personalmente professata e solo poi pubblicamente proclamata e incarnata. Il che significa che non si tratta primariamente di attivare iniziative sociali e umanitarie nelle quali i cristiani sanno distinguersi per impegno e abilità, e neppure di puntellare le labili speranze dei nostri contemporanei alle prese con una crisi economica senza precedenti. E questo perché senza fede la carità anche fervorosa rischia di essere colta – e troppe volte è già successo – come mera filantropia o come esibizione apologetica della forza delle proprie convinzioni, così come la speranza si tramuta facilmente in ideologia, in progetto umano di utilità collettiva e basta. Una delle osservazioni più provocatorie avanzate da Benedetto XVI nella sua lettera apostolica Porta fidei, documento di indizione ufficiale dell’Anno della fede, è stata quella riguardante il riferimento troppo scontato alle conseguenze della fede. A queste è stata data anche troppa attenzione, a volte persino esclusiva, a livello sia sociale che culturale e politico. È giunta l’ora, improrogabile, di ribadire un presupposto che non è più così ovvio e del quale bisogna prendersi cura. Ogni cristiano, cioè, è responsabile, di fronte alla comunità credente e a ogni uomo, innanzitutto della qualità della sua fede personale.
 
Se oggi si parla apertamente e diffusamente dell’incepparsi della trasmissione della fede, questo significa che è povera o incerta la fede che vuole comunicarsi. Se in giro vi fosse più fede in Gesù Cristo come unico e universale salvatore, non si porrebbero poi tanti problemi al suo effettivo e concreto annuncio. Il vero problema non è infatti come annunciare la fede, anche se una riflessione metodologica può aiutare, bensì perché farlo, e in tal senso va rilevato come una certa mentalità corrente abbia inquinato anche il pensiero di molti cristiani. Si tratta di un modo del tutto errato di intendere la tolleranza, per cui l’annuncio della verità cristiana andrebbe evitato perché limiterebbe l’altrui libertà. L’Anno della fede, così come il prossimo Sinodo, dovranno allora rimettere in campo una parola forte e purtroppo dimenticata del cristianesimo di ogni tempo: conversione. Per se stessi, prima di tutto, per rinsaldare il proprio riferimento al Dio vivo e vero e vivere quindi nella fede, ma anche per ogni altro, perché si possa pensare come realizzabile e normale il passaggio da una religione o da nessuna religione al cristianesimo come luogo di rigenerazione spirituale e salvezza integrale.
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017