Alla ricerca dell’equilibrio perduto

Ettari di ulivi distrutti, migliaia di animali bruciati, paesi in fiamme. Il dramma degli incendi in Sardegna ha riproposto prepotente una domanda: quanto dobbiamo ancora cambiare?
27 Settembre 2021 | di

Nei giorni terribili degli incendi sardi, tra le cronache della devastazione paesaggistica e i tentativi di dare un senso al dolo dei piromani, sui media ha trovato posto anche una polemica, apparentemente minima, scaturita da un’intervista di Concita De Gregorio al capo della Protezione civile Curcio.

Durante la trasmissione In onda la giornalista ha posto, tra le altre, una questione che a molti è sembrata indelicata: «C’è un pericolo concreto per le persone che sono o si apprestano ad andare in villeggiatura in Sardegna?».

Al di là dell’ovvietà del fatto che i turisti, esattamente come i sardi, non sono ignifughi, la domanda era giornalisticamente dovuta: se una famiglia di Gallarate ha risparmiato tutto l’anno per godere di dieci giorni di vacanza in Sardegna dopo quasi due anni di paralisi da pandemia, sapere se può andarci o meno è senza dubbio una notizia, per quanto possa sembrare cinico preoccuparsene proprio mentre sull’isola si contano migliaia di sfollati dal fuoco e danni al paesaggio che richiederanno decenni per risanarsi.

La riflessione da fare, però, va oltre l’apparente brutalità della domanda e include anche la risposta del capo della protezione civile Curcio, se possibile ancora più rivelatoria: «Migliaia di ettari di una terra bellissima sono bruciati, ma io non credo che quello che è successo debba assolutamente influire con il turismo».

Il ragionamento che sta sotto questo scambio è tutto in quella frasetta semplice che, se collocata in una prospettiva più ampia, si adatta a spiegare il nostro atteggiamento davanti a tutto quello che di catastrofico è accaduto negli ultimi anni, dalle alluvioni al covid, dal riscaldamento globale all’inquinamento da microplastiche: nessuno di noi vuole credere che quello che è successo debba assolutamente influire sulle nostre vite.

La domanda posta da De Gregorio in fondo è di natura darwiniana, perché cercare la risposta è quel che per millenni ci ha permesso di dominare muscolarmente l’ambiente e le altre specie: in che modo possiamo continuare a vivere come abbiamo sempre vissuto e fare le cose che abbiamo sempre fatto, nonostante questi mutamenti radicali? Quanto dobbiamo cambiare e quanto invece possiamo non farlo, facendo quel che vogliamo e disinteressandoci del resto?

La risposta udita in trasmissione, dal punto di vista darwiniano, non era per niente evolutiva. Se infatti è vero che sopravvive solo la specie che meglio si adatta al cambiamento, suggerire l’idea che per gli esseri umani la cosa giusta sia non cambiare affatto è quanto di più suicida ci si possa proporre. Eppure ci stiamo credendo.

Siamo davvero convinti che possiamo non cambiare nulla. Proprio mentre in Sardegna sparivano in fumo ettari di ulivi centenari, morivano migliaia di animali innocenti e interi paesi andavano a fuoco, a Napoli falliva l’ennesima conferenza internazionale sul clima, dove i ministri dell’energia e dell’ambiente dei Paesi più ricchi del mondo non sono riusciti a trovare un accordo sui due punti più importanti della  tabella di marcia per invertire la distruzione dell’ecosistema.

Molti Paesi si sono infatti rifiutati di firmare per la decarbonizzazione entro il 2025 e per il contenimento del riscaldamento globale sotto 1,5 gradi centigradi. Possiamo criticare la loro miopia e gli interessi economici che protegge, ma non è diversa da quella che davanti alle restrizioni da covid ci fa dire cose come «quando tutto tornerà come prima», «appena la situazione sarà normale» e così via.

Come se la vita di prima fosse normale. Come se potessimo ignorare tutto il resto e pensare solo a risolvere il fastidio diretto che ognuna di queste catastrofi causa al nostro micromondo personale. I viaggi. Il lavoro. Il pranzo. Comprare gli oggetti senza chiederci da dove vengono e come sono stati prodotti. Mettere in bocca il cibo continuando a ignorare i processi con cui ci è arrivato sulla tavola.

Progettare ogni comportamento senza curarci del suo impatto. Qualcuno si ostina a chiamare questa rigidità «resilienza», abusando di un termine che in psicologia indica la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico.

In quella prospettiva, «andrà tutto bene» diventa un modo per dire il ben più cinico «andrà tutto come prima». In ecologia però la resilienza non è la capacità di non mutare davanti agli eventi, ma il suo opposto: è la velocità con cui una comunità vitale interconnessa ritrova un equilibro dopo una perturbazione, come un acquario che ha i suoi tempi per tornare limpido dopo che qualcuno ha fatto cadere un sasso sul suo fondo limaccioso.

Il dramma nostro e del pianeta è che ci ostiniamo a non voler capire che, in quella dinamica, noi non siamo l’acquario: siamo il sasso.

 

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»! 

Data di aggiornamento: 28 Settembre 2021

Articoli Consigliati

Cuore sardo

05 Maggio 2021 | di

Musei a cielo aperto

06 Agosto 2020 | di
Lascia un commento che verrà pubblicato