Achille Compagnoni, il conquistatore del K2

Era il 31 luglio del 1954 quando, alle sei della sera, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli piantavano il Tricolore sul K2. Il ricordo di quei giorni e di altro ancora in un colloquio con il grande scalatore.
31 Ottobre 2003 | di

Questo che sta per chiudersi è stato l'Anno della montagna. Non la montagna dei villeggianti, dei miniappartamenti in multiproprietà  che hanno fatto di Cortina una specie di cattedrale sconsacrata. Celebriamo la Montagna, quella vera, le conquiste di vette inespugnabili durante secoli e infine raggiunte non per superbiosa vanità  ma per amore della Natura. Celebriamo gli scalatori, italiani e non, uomini diversi da noi che cercano Dio senza falsi pudori o forse non sanno che quel che fanno è lo stesso che pregare. Soli. Protesi nel vuoto: candele vive sull'altare dello spazio.
Era il 31 luglio del 1954 quando, alle sei della sera, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli piantavano il tricolore sul K2. Italia-K2: non è uno slogan né la marca d'una lavapiatti. È il logo di un'impresa storica: la conquista della seconda vetta del mondo, il K2: 8.616 metri, da parte di una spedizione del Club alpino italiano guidata da Ardito Desio. In quell'estate lontana, torrida, la notizia la portò la radio e fu come una sorsata d'aria fresca per l'Italia di allora.
Un Paese povero ma unito dalla volontà  di uscire dal tunnel del dopoguerra. Con la conquista del K2 cominciava il miracolo italiano.
Il 2003 è stato intitolato alla Montagna così intimamente legata alla storia del nostro Paese. Da un capo all'altro d'Italia s'è celebrata la montagna, dunque: convegni, anche scientifici, raduni, sagre, articoli di giornale, tv, radio. La parte del leone, ovviamente, l'ha fatta il K2 con sugli scudi i due alpinisti che piantarono la bandiera italiana sulla vetta di quella terribile montagna, inaccessibile regina del Karakorum: Lino Lacedelli, Achille Compagnoni. Recentemente Compagnoni è stato il protagonista d'una celebrazione della montagna a Sondrio, per iniziativa di quel dinamico presidente della Banca Popolare. Ed è grazie ai buoni uffici di Piero Melazzini che Achille Compagnoni, rompendo un lungo silenzio, ha rilasciato al Messaggero di sant'Antonio una lunga intervista.
A me e a Lino fan piacere le feste che ci fanno ma non siamo stati solo noi ad andare lassù - dice subito Achille Compagnoni -. Eravamo in quattordici, senza contare i pakistani, e ognuno ha fatto la sua parte e c'è morto Mario Puchoz ch'è sepolto lassù.
Raccomandano di non incontrare mai maestri di sci e guide alpine fuori stagione poiché i panni civili li mortificano. Se questo è vero, è anche vero che Achille Compagnoni fa eccezione: è del tutto a suo agio nel severo abito scuro, il distintivo del Cai all'occhiello. E questo nonostante la sua apertura toracica sia fuori ordinanza, come sentenziarono i medici or è mezzo secolo. A Milano, prima di partire per Rawalpindi i medici ci rivoltarono come calzini. Normalmente la cassa toracica d'un uomo può immagazzinare dai 4 ai 5 litri di ossigeno. Noi tutti superavamo questa misura.
Compagnoni parla con garbo, sommessamente, un sorriso perenne, timido, sulle labbra vermiglie. È prossimo ai novant'anni ma ha gli occhi limpidi, quasi frammenti d'un lago alpino. È voluminoso, un pezzo di roccia, ma si muove con agilità . Tutti così in famiglia - dice con soave ironia - tutti figli della montagna: tre maschi e cinque femmine. Il soldo di uno era il soldo di tutti, lui dava una mano al padre e alla (adorata) mamma nel mungere il latte e fare il formaggio, le sorelle andavano a lavorare nelle famiglie. L'alpeggio dove vivevano era in affitto dei Compagnoni - da 70 anni - l'affittanza la pagavano col burro, col formaggio e adesso che Compagnoni l'ha acquistato ci va in estate fino all'autunno. È cresciuto a Valfurva, sulle Alpi occidentali, non sa nuotare.

Ci accompagnava una bianca figura

Un pezzo di roccia, figlio della montagna: ne conosce i segnali, il linguaggio, non ha bisogno di barometro né di altimetro: Quando appare una nuvola a forma di pesce o il tubo d'irrigazione trasuda, vuol dire che il tempo cambia ed è bene rinviare la scalata, rinunciare alla corda. Bisogna rispettare la montagna, essere pazienti con lei, ubbidienti. Oggi si rischia il consumismo della montagna, nessuno dà  retta alle vecchie guide, vanno quando non debbono andare e la montagna finisce che s'arrabbia. La montagna va difesa, va rispettata: adesso che celebriamo il K2 questo va ribadito.
La vostra impresa - diciamo - sfuma nella leggenda. Per esempio: è vero che gli ultimi 300 metri, la parete che porta in vetta al K2, lei e Lacedelli li avete fatti senza ossigeno? E come mai?
Semplice: l'ossigeno è durato solo otto ore. I medici ci avevano detto che a quella quota senza le bombole si moriva. Ci siamo guardati negli occhi e abbiamo deciso di proseguire. Un segno di croce e via. Come vede, ci è andata bene ringraziando Dio. E qui, istintivamente, Compagnoni si guarda le mani. L'indice e il medio della mano destra sono più corti delle altre dita: grossi, senza unghie, come avvolti in una pellicola di gomma. L'operatore Fantin gli aveva affidato una cinepresa 16 mm, Compagnoni riprese con essa il lentissimo ascendere: a quelle quote è come avere le gambe imbottite di piombo, fare un passo stronca. Poi, per cambiare il rullino, si tolse il guanto e il gelo (50 sottozero) gli azzannò le dita, deformandole. Per sempre.
Che ricordo conserva, Compagnoni,del momento (quel precisomomento)della conquista del K2?
Mentre salivo mi accompagnava una figura bianca, luminosa. Una volta in vetta, scomparve. Mia madre, La Madre Celeste, come la mamma chiamava la Madonna? Mi accompagnò, scomparve e in quel preciso momento Lino e io ci rendemmo conto ch'eravamo in vetta. Che ce l'avevamo fatta. E ci abbracciammo. Felici.
E dopo il K2, com'è stata la vita di Compagnoni? Due anni in ospedale a curarsi la mano, poi in ritiro nell'eremo d'Averna per... lubrificare i polmoni bruciati dall'ossigeno: allora era puro, non miscelato... E, infine, gli amici Tony Sayler, Zeno Colò che lo rimettono sugli sci. E di nuovo la montagna: ha scalato 106 volte il Cervino, il Monte Rosa, il Bianco. Ha campato facendo la guida alpina ma quando il cliente si rivelava un puro che amava la montagna e non aveva soldi, io non lo facevo pagare. Gli anni sono passati senza scalfire la montagna, a lui le lunghe fatiche alpine hanno logorato i femori: l'hanno operato due volte. E adesso? Il tempo dei bilanci è già  passato, ogni giorno è regalato.
Lui, Achille Compagnoni, questo italiano da leggenda, gestisce, con la giovane moglie dai capelli rossi, un alberghetto (camera e prima colazione) a Cervinia. Usufruisce d'una pensioncina sociale, ha le sue memorie, sente continuamente accanto a sé una presenza: sua madre. Sogno spesso di cadere, di precipitare nell'acqua nemica o sui cavi dell'alta tensione. Mi sveglio di soprassalto e sento mia madre: Sono sempre con te, dice lei che col suo lavoro a maglia, paziente, mi fece i mutandoni di lana che indossai sotto pantaloni militari per andare lassù a piantare il Tricolore, la nostra bandiera sul K2.
Ogni tanto incontra Lino (Lacedelli) o qualche altro superstite. Non ci piace il reducismo.
Ma ogni mattina, all'alpeggio fra i boschi, ha un appuntamento importante, mi confida sottovoce. Un appuntamento con Gina. Una cerva: bellissima, dagli occhi azzurri.
Lui porta il cibo, lei si nutre per prima, poi fa un cenno e arriva il resto del branco. Gina bada che tutti abbiano la loro parte. Infine, un altro cenno e il branco se ne va. Sparisce: con Gina dagli occhi blu a far da guida.
E domani sorge un altro giorno.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017