Quando l’arte rompe gli schemi

«Action painting», scuola di New York o, più semplicemente, espressionismo astratto. Tante etichette per un solo gruppo di artisti americani che a metà ’900 riformarono le regole della pittura contemporanea.
02 Gennaio 2014 | di

Buio pesto in sala. Da uno schermo appeso al soffitto una luce viola irradia calore e solletica la curiosità. Sopra la testa del visitatore va in onda uno spettacolo di «alto artigianato». Al di là del vetro un uomo intinge un bastoncino in un barattolo di colore e inizia ad agitarlo su e giù, sgocciolando materia fluida sul supporto trasparente. Ricama fili neri, gialli e blu come fossero ragnatele. Fitte, sempre più fitte. Finché del loro autore oltre il vetro non resta che un’ombra. Non c’è modo migliore per capire un’opera d’arte che esserci gettato dentro. E Jackson Pollock, il pittore filmato in questa installazione, lo sapeva bene. Al padre del dripping (tecnica che prevede lo sgocciolamento del colore sulla tela) e ai suoi compagni d’avventura – i membri dell’espressionismo astratto made in Usa – è dedicata la mostra «Pollock e gli irascibili», a Milano (Palazzo Reale) fino al 16 febbraio.

Ventisei artisti per quarantanove opere del Whitney Museum of American Art di New York: quelli esposti sono quadri e disegni che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea tra gli anni Trenta e i mitici Sixties (Sessanta, ndr). Attraverso un percorso articolato in otto sale, il colore – sgocciolato, schizzato, colato, steso a grandi campiture – costella una via lattea di emozioni impresse su tela e carta. Perché proprio di emozioni si occupa la cosiddetta «scuola di New York», un gruppo di artisti statunitensi, ma anche europei emigrati negli Usa nel secondo dopoguerra, decisi a spezzare il filo con la tradizione del vecchio continente e a sperimentare un’arte più vicina alla contemporaneità.

Niente di meglio di una città come la Grande Mela per mettere in pratica questo proposito: con una storia artistica tutta da inventare e un paesaggio urbano in divenire, la metropoli a stelle e strisce incarna una tabula rasa su cui Jackson Pollock, Mark Rothko, Barnett Newman e molti altri, a cavallo della metà del Novecento, imbastiscono le loro fortune. «La pittura è uno stato dell’essere – precisa Pollock nel ’57 –. La pittura è la scoperta di sé. Ogni buon artista dipinge ciò che è».
 
Creativi in azione
Qualsiasi novità, anche la più illuminata, richiede un periodo di rodaggio. Non fa eccezione l’Action painting (letteralmente «pittura d’azione», ennesima etichetta cucita addosso a Pollock e company per via dei loro inusuali metodi di lavoro) che subisce lo scherno di numerosi critici, prima di essere incoronata «arte da museo». È il maggio del 1950 quando diciotto pittori della «nuova guardia» esprimono in una lettera a Roland Redmond, allora presidente del Metropolitan Museum (Met) di New York, il proprio sdegno per essere stati esclusi da una grande mostra d’arte moderna che si sarebbe tenuta proprio al Met di lì a pochi mesi. 

La provocazione non sfugge alla stampa: in un articolo il quotidiano «Herald Tribune» soprannomina gli autori della lettera «irascibili». È forse per ribattere all’onta che Mark Rothko, Willem De Kooning, Jackson Pollock e altri tredici colleghi decidono di farsi ritrarre vestiti da banchieri. Il messaggio veicolato dallo scatto della fotografa di moda Nina Leen per la rivista «Life» è chiaro: non serve indossare giacca e cravatta per essere credibili; la serietà è di casa anche tra tele e barattoli di vernice.

Se nella foto datata ’51 gli esponenti dell’espressionismo astratto ammiccano a uno stile omogeneo e borghese, nel lavoro prendono invece strade diverse. Ad accomunarli è solo il desiderio di sperimentare nuovi orizzonti artistici. Smalti, pitture d’alluminio, lacche e siliconi; c’è chi per abbozzare tralicci e grattacieli usa l’aerografo, chi «condisce» la tela con olio e sassolini, e chi per plasmare la materia utilizza spago, sabbia e frammenti di vetro. «Avevamo mandato a farsi benedire il “bastone con i peli in testa” (il pennello)», ricorda Alex Horn in Jackson Pollock: il vuoto e il pieno (1966). Con l’aiuto di semplici ingredienti costati pochi dollari gli irascibili danno vita a manufatti che oggi valgono milioni di volte tanto. Basti pensare all’opera No.5 (1948) di Pollock che, battuta all’asta qualche anno fa per 140 milioni di dollari, figura tra i quadri più costosi della storia.

Fosse così facile trasformare la materia grezza in oro saremmo tutti artisti! Ma per il maestro, nato nel Wyoming nel 1912, il tocco magico è una dote che prescinde da ogni virtuosismo tecnico. Non a caso in oltre vent’anni di carriera quello che da molti è considerato il primo artista moderno americano non imparerà mai a disegnare nel senso più tradizionale del termine. Stando al racconto di Hans Namuth, il fotografo che nel 1950 raggiunge il pittore nel suo studio a Springs, nel Long Island, Pollock somiglia più a un ballerino che a un artista. In preda alla frenesia creativa, il maestro «scaglia sulla tela pittura bianca, nera e color ruggine. E i suoi movimenti si fanno sempre più veloci, simili a passi di danza».

Quella di Pollock, però, è un’improvvisazione che non lascia nulla al caso. Assimilate le influenze cubiste e surrealiste degli anni Trenta – vedere per credere i lineamenti zoomorfi tratteggiati nel disegno Senza titolo del 1939-’42: un omaggio a Guernica (1937) di Pablo Picasso –, nonché l’arte dei nativi americani e dei muralisti messicani, alle soglie degli anni Cinquanta Pollock è finalmente libero di lanciarsi nell’astrazione più compiuta e spontanea. Neppure la sua dipendenza dall’alcol e i problemi di depressione scalfiscono la vena creativa dell’artista, trasferitosi con la moglie Lee Krasner (anche lei membro dell’Action painting) in mezzo alla natura degli Hamptons. Risalgono a questo periodo gli sfavillanti Fuochi d’artificio del pannello Nr. 17 e il tenue labirinto di smalti, oli e pittura d’alluminio Nr. 27, quest’ultima (125 × 270 cm) tra le opere più grandi esposte a Palazzo Reale. Pollock predilige in effetti le tele giganti che può stendere a terra e lavorare con tutto il corpo. «La mia pittura non nasce sul cavalletto – anticiperà l’artista nel 1947 –. Sul pavimento mi sento più parte del quadro perché in questo modo posso camminarci intorno, lavorare sui quattro lati, ed esserci letteralmente dentro. Solo quando perdo il contatto il risultato è caotico. Altrimenti c’è armonia totale, un rapporto naturale di dare-avere».
 
Il colore e la forma
«In ogni caos c’è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto» diceva lo psicanalista svizzero Carl Gustav Jung. Quel che a una prima occhiata può sembrare un groviglio senza senso, a volte – visto dalla giusta distanza – acquista significato e valore. È il caso della pittura degli irascibili, e in particolare di Mark Tobey. Da quando, nel 1925, l’ex disegnatore di moda partecipa a un pellegrinaggio in Terra Santa e viene a contatto con la calligrafia araba, le sue tempere acquerellate si fanno sempre più simili ad accozzaglie di geroglifici bianchi e neri. In Universal field (1949) angoli acuti e linee curve generano una composizione universale e finita al tempo stesso. Un capolavoro che stimola l’approccio lirico e incoraggia la contemplazione.

Sceglie sempre segni grafici pure Bradley Walker Tomlin, anche se le sue croci stese a pennellate ampie sulla superficie di Number 2 – 1950 rimandano più alle scritte di un murales metropolitano che a raffinati esercizi di stile. I segni si fanno grossolani nella produzione di Franz Kline: forse l’unico irascibile che non smise mai di realizzare bozzetti preparatori. Ospiti fissi delle sue tavole sono il bianco e il nero, i non colori per eccellenza (se il primo riflette tutti i colori dello spettro visibile, il secondo, pur contenendoli tutti, ne incarna l’assenza). La tela immacolata non lo spaventa: «Dipingo il bianco così come dipingo il nero, e il bianco è altrettanto importante». Chiaro e scuro, buio e luce: il dualismo è un tema ricorrente tra gli espressionisti astratti del secolo scorso.

L’olio su tela The crest (1959) di Adolph Gottlieb ne è la prova. Un grande punto nero galleggia incombente sopra un cespuglio di pennellate arancioni. Tutt’intorno il tepore di uno sfondo terra di Siena modera il contrasto. Davanti al grande quadro dall’aria minacciosa le interpretazioni si sprecano. Il bene contro il male? L’opposizione tra ordine e caos? Forse neppure l’esecutore della tela avrà avuto le idee chiare a riguardo... Dalle macchie di colore ai monocromatismi. Qualche critico le ha chiamate zip per via del loro andamento verticale: sono le linee sottili disegnate col pennello da Barnett Newman in Senza titolo (1946). A guardarle bene, si direbbe che il pittore di origine ebraica si sia ispirato alle rughe di un tronco d’albero. Tre anni dopo le increspature si rimpolpano e si riducono a due in The promise (1949): una linea beige netta e precisa, l’altra grigia sbavata che corre in parallelo su un orizzonte nero. Ancora una volta ritorna il gioco dei doppi. La perfezione e l’errore camminano fianco a fianco, si specchiano l’una nell’altro, ma non s’incontrano mai. È la storia dell’uomo declinata in pochi segni sulla tela.

Astrazione e sintesi delle forme, però, non sempre bastano a rendere un concetto. In un gruppo variegato come quello degli irascibili c’è anche chi non intende tagliare del tutto il cordone ombelicale che lo lega alla figurazione e alle avanguardie europee. Capita così che in The betrothal II (Il fidanzamento, 1947) il pittore armeno Arshile Gorky metta in scena personaggi biomorfici che fanno il verso a quelli dipinti negli anni ’20 da Joan Mirò. E che l’olandese Willem De Kooning per la sua Woman accabonac (1966) ricorra a una violenza cromatica pari solo a quella sviluppata dal gruppo francese dei Fauves (André Derain e Henry Matisse insegnano).

«Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima» scrive Wassily Kandinsky, il padre dell’astrattismo d’Oltreoceano, in Lo spirituale nell’arte (1910). Hans Hoffman deve aver ben presente questa frase quando, nel 1954, dipinge Fantasia in blue e Orchestral dominance in yellow. Grazie a dense spatolate arancioni, gialle, verdi, rosse e blu, l’artista bavarese crea due tappeti pregni di luce ed energia in cui ogni tassello sembra incollato ad hoc. Un’autentica «pioggia di coriandoli», per dirla con le parole di uno dei tanti scolari che si aggirano tra le sale della mostra di Palazzo Reale a bocca spalancata.

«Le opere degli espressionisti astratti – conferma Luca Beatrice, curatore della mostra “Pollock e gli irascibili” – piacciono tanto ai bambini perché fanno viaggiare la fantasia». Sulle ali dell’immaginazione, dunque, è facile lasciarsi travolgere dai flutti marini dipinti da Helen Frankenthaler in Blue territory (1955). Quasi quanto perdersi davanti agli acquerelli e alle pitture acriliche apparentemente incompiuti di Sam Francis (Senza titolo, 1956 e Abstraction, 1959). Sulle due opere del pittore californiano il viola e il rosso colano ai lati del foglio, realizzando un’ipotetica cornice allo spazio bianco. In un gioco di pieni e di vuoti l’assoluto dialoga col finito, per un risultato dalla bellezza «soprannaturale».

L’astrazione si fa man mano più geometrica e monocroma nelle ultime sale della mostra. Superati gli incastri di forme sbiadite firmati Ad Reinhardt (Number 181948-1949 e Abstract painting, Red, 1952), ecco finalmente le grandi campiture di colore di Mark Rothko, tra i precursori del Color field (movimento caratterizzato da una pittura a campi di colore, che si affermò negli Usa a metà Novecento). Nessun titolo né etichetta, solo puro colore per la coppia di tele del pittore lettone – Senza titolo (1953) e Senza titolo (blue, yellow, green on red) (1954) – che, con l’aiuto di spugne, traccia rettangoli luminosi e caldi sui toni del giallo e dell’arancio. I contorni sfumano e si sfrangiano per lasciar meglio «entrare» il visitatore. Da espressione violenta del sé (come fu l’Action painting) l’opera d’arte si fa strumento mistico in contatto diretto col suo fruitore.

«Un quadro non riguarda un’esperienza, è un’esperienza» precisa Rothko. Da sempre restio a interpretare le proprie creazioni, il maestro, nato a Daugavpils nel 1903, non si rassegnerà mai a cercare nel colore le tracce dell’assoluto. «Sono interessato solo a esprimere emozioni umane fondamentali – la tragedia, l’estasi, l’estinzione e così via –. E il fatto che molte persone piangano quando si trovano di fronte ai miei dipinti è una prova che comunico queste emozioni». 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017