Obiettivo trasparenza

Con Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, incaricato di vigilare su Expo 2015, parliamo di corruzione.
16 Aprile 2015

L’incontro con Raffaele Cantone si svolge in una libreria romana dove presenta il libro di Lorenzo Biagi dal significativo titolo Corruzione. E la conversazione col presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione non può che cominciare dalle recenti parole del Pontefice.

Msa. Papa Francesco ha detto: il peccato può essere perdonato, la corruzione no. In molti si sono stupiti. Anche lei?Cantone. Anch’io all’inizio sono rimasto perplesso. Da persona che ha una conoscenza del Vangelo da cattolico medio, da frequentatore della Messa domenicale, mi sono chiesto: perché Francesco ha usato parole tanto dure? Nella nostra religione Cristo dice al ladrone «sarai con me nel regno dei cieli» e allora perché il Papa nega invece al corrotto ogni perdono? Poi ho capito la ragione profonda e il grande coraggio di quelle parole. Il Papa non nega il perdono, ma prima di questo – dice – ci deve essere la «conversione». Sa che nel Dna del corrotto c’è la tendenza all’abitudine, c’è la ricerca della giustificazione morale. Anche se un’azione non è proprio corretta – pensa il corrotto – essa favorisce l’economia, aiuta la società. La questione, quindi, è che proprio perché la disonestà diventa un’abitudine, i corrotti spesso «ritornano». Gli indagati relativi alla vicenda dell’Expo di Milano sono persone già condannate con sentenze passate in giudicato, ma avevano ripreso a svolgere le proprie attività non nascondendosi, non vergognandosi di quello che avevano fatto, alla luce del sole, entrando nei luoghi in cui si discuteva di appalti, prendendo contatto con gli imprenditori e con i partiti politici.

Quanto ha contribuito alla corruzione attuale il fenomeno della globalizzazione o, più precisamente, il processo di deregolamentazione del mercato nell’economia mondiale? Mi convince solo in parte l’analisi che fa discendere la corruzione dalla globalizzazione. Ci sono Paesi del Nord Europa inseriti nell’economia globale più dell’Italia, Paesi ricchissimi in cui, tuttavia, i livelli di corruzione sono bassi. Per questo non credo che sia la globalizzazione la causa dell’aumento della corruzione, ma, piuttosto, la sua cattiva gestione, la mancanza di contrappesi, di misure di controllo. Negli Stati Uniti il mercato la fa da padrone, ma se il fisco «becca» qualcuno con le mani nella marmellata poi si pagano fino in fondo tutte le conseguenze. Il proprietario di una delle più grandi aziende americane – per fare un esempio – che è stato condannato per falso in bilancio, ha scontato ventuno anni di carcere, ed è morto in prigione.

Il nostro Paese, purtroppo, è classificato tra quelli con un alto livello di corruzione. Quali sono le caratteristiche della corruzione italiana? Sono state sempre le stesse o negli anni si sono modificate? Il livello di corruzione nell’Italia degli anni Ottanta era altissimo, non inferiore a quello attuale, ma si trattava di un fenomeno diverso. In quegli anni il corrotto e il corruttore erano due parti distinte, due mondi differenti, separati, che entravano in contatto. Oggi il corrotto fa parte dello stesso sistema del corruttore, dello stesso mondo, della stessa combriccola. È particolarmente evidente nel caso di cui tanto si è discusso di «mafia capitale». In Italia il grave errore della politica, ma non solo della politica, è stato quello di non inserire nuove regole in un sistema che cambiava e questo – come dice il magistrato Piercamillo Davigo, con un’espressione molto efficace – ha avuto un effetto darwiniano sulla corruzione, ha consentito, cioè, una sorta di evoluzione dei corrotti e dei corruttori che si sono adeguati ai cambiamenti economici e sociali.

Lei richiama le regole, le leggi, ma a volte si ha l’impressione che alcune di queste agevolino la disonestà, le tangenti o, almeno, che non riescano a evitarle o limitarle. Mi viene in mente il caso Mose a Venezia… Ci sono certamente state alcune derive legislative che hanno incoraggiato il meccanismo culturale che favorisce la corruzione. Ci sono norme, create non per l’interesse dei cittadini ma per quello d’individui o di gruppi specifici, che fanno venir meno il paradigma fondamentale della democrazia – il principio della parità di trattamento – e confermano l’idea che chi è bravo ad arraffare, può farlo. Nel caso del Mose basta guardare l’anno in cui è stato istituito il consorzio Venezia Nuova, cioè il 1984, per capire come sono andate le cose. Si trattava di costruire delle paratie che, per quanto complicate, non hanno certo bisogno di trentuno anni di lavoro. Le piramidi probabilmente sono state edificate in meno tempo. La legge ha attribuito a un solo privato la gestione di un’opera faraonica, fornendogli il denaro richiesto con l’unico controllo del Magistrato delle acque, un funzionario del ministero delle infrastrutture che da solo avrebbe dovuto sorvegliare un colosso che aveva interessi economici rilevanti e che poteva stabilire a chi aggiudicare gli appalti senza applicare le leggi. Ne è derivato il coinvolgimento di tutte le lobbies affaristico-politiche in Italia, senza distinzione tra destra, sinistra, centro e anche di parti della Chiesa. La legge era fin dall’origine criminogena, è stato altrettanto criminogeno non intervenire.

Oggi nella società e nella politica italiana c’è almeno la consapevolezza di quanti danni abbia prodotto la corruzione? Le parole del Pontefice sono state molto importanti, perché hanno messo in chiaro che la corruzione è dannosa, non tanto e non solo per le parti danneggiate, ma per l’intera società. Si tratta di un punto centrale che nel passato non abbiamo accettato e ancora oggi facciamo fatica a capire. Quando si partecipa a un appalto e lo si ottiene attraverso una mazzetta, il danneggiato appare il concorrente che non lo ha ottenuto. Ma non è così. I danni sono molto più gravi. Oltre al sistema della concorrenza, è colpito il sistema industriale, perché l’imprenditore che sa di poter vincere attraverso le mazzette non farà mai innovazione nella sua impresa. Sono danneggiati gli imprenditori onesti, magari stranieri, che non parteciperanno a una gara che sanno inutile. Il prezzo di quella corruzione, poi, è pagato da tutti i contribuenti. Chi sborsa una tangente non lo fa certo di tasca propria. Quando si è costruita l’autostrada Palermo-Reggio Calabria, le imprese che davano soldi alla mafia risparmiavano sul cemento e quindi costruivano strade che si deterioravano rapidamente. La corruzione non danneggia, come si pensa, solo l’immagine della pubblica amministrazione, è un reato contro la società, contro l’economia.

Quanto è legato e dipendente dalla corruzione un fenomeno così dilagante nel Paese come «l’antipolitica»? Non c’è da stupirsi del dilagare dell’antipolitica. Per molto tempo la corruzione è apparsa ed è stata interna alla politica, ai partiti o, meglio, a piccole lobbies che fanno riferimento ai partiti. E poi: qual è stata la reazione di tanta parte della politica rispetto alla corruzione? Nessuna. Che cosa è stato fatto dopo tangentopoli per mettere in sicurezza il sistema? Niente. Anzi, se si va a guardare bene, si sono fatte cose che hanno favorito la corruzione. Si sono cambiate le norme sul falso in bilancio, si sono vanificate quelle sulla prescrizione, si sono eliminati i controlli, si sono favoriti questi «mostri» che sono le società miste pubbliche e private, dove si annida il peggio del malaffare.

Mi sta dicendo che la colpa è della politica e dei politici? La politica ha le sue colpe e anche gravi, ma spesso il disprezzo nei suoi confronti è un alibi. Il livello d’indignazione della società è alto, ma – cosa che non ci fa onore – dura dalla sera alla mattina. All’indignazione non segue un comportamento coerente. Essa è fortissima sempre quando riguarda gli altri, non è altrettanto forte quando riguarda noi stessi. Le racconto un episodio. Nei giorni delle indagini su «mafia capitale» una persona che conosco bene è entrata in un negozio romano. La proprietaria si è scagliata contro la politica romana, ha chiesto l’arresto di tutti i politici, dei consiglieri comunali, degli assessori. Insomma, a suo parere non si salvava nessuno: erano, secondo lei, tutti delinquenti. Al momento di pagare, però, la stessa signora non ha rilasciato lo scontrino fiscale e, di fronte alle rimostranze del cliente che le ha fatto notare l’incoerenza tra la sua filippica e il suo comportamento, gli ha risposto: «Che c’entra?». Ecco, in quest’aneddoto c’è tutto il comportamento di gran parte della società italiana. Le regole anticorruzione – questo alla fine si pensa – vanno applicate ai comportamenti degli altri, non ai nostri.

Lei di recente ha detto: la corruzione non la elimineremo mai. È una dichiarazione di grande pessimismo… Non sono pessimista, anzi, sono molto ottimista, ma con realismo. Affermare che si può eliminare definitivamente la corruzione è come dire che si possono eliminare i furti o, più in generale, che si possono definitivamente sconfiggere i reati. Sappiamo che non è possibile. In essa c’è un tratto antropologico, la sua esistenza è parte integrante in un mondo dominato dal mercato. Il problema è limitarla, ridurre le sue dimensioni. Nelle classifiche internazionali non esistono Paesi a corruzione zero, ma ci sono Pae­si in cui è un’eccezione, in cui fa scandalo. Questo è il nostro obiettivo. Dirò di più: contrariamente a molti che lo ritengono impossibile in una società democratica, io ho fiducia che potremo fortemente limitare la corruzione conservando al contempo tutta la nostra libertà.  

La schedaBiografia

Raffaele Cantone nasce a Napoli nel 1963. Entra in magistratura nel 1991. Dal 1999 al 2007 è pubblico ministero nella Direzione distrettuale antimafia a Napoli. Durante questi anni segue le indagini sul clan camorristico dei Casalesi, riuscendo a ottenere la condanna all’ergastolo per alcuni capi dell’organizzazione. Chiamato a presiedere l’Autorità nazionale anticorruzione, l’11 maggio 2014 è incaricato da Matteo Renzi di riportare la trasparenza nei cantieri dell’Expo 2015.Cantone è anche uno scrittore di successo. Dopo Solo per giustizia (Mondadori, 2008), un romanzo autobiografico che ripercorre la carriera giudiziaria, scrive, assieme al giornalista Gianluca Di Feo, I gattopardi (Mondadori, 2010), nel quale racconta le reti e le connessioni del sistema mafioso italiano degli ultimi vent’anni. Nel 2012 (sempre con Di Feo) esce Football clan. Perché il calcio è diventato lo sport più amato dalle mafie (Rizzoli). È appena uscito, ancora con Gianluca Di Feo, Il Male italiano. Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese (Rizzoli).

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017

Articoli Consigliati

Tags: 
Lascia un commento che verrà pubblicato